È successo di nuovo. Avevo appena parlato a una conferenza e una attivista trans*, che peraltro stimo molto, ha sentito l’esigenza di ridirlo…
«Ricordiamo a tutti che l’Hiv non riguarda le categorie di persone, ma i comportamenti. Non vorrei che su questo argomento si tornasse a parlare di categorie a rischio…».
Io di ghiaccio.
Cosa c’è di sbagliato in quello che ha detto? Tecnicamente assolutamente nulla. È innegabilmente vero che l’Hiv lo prendi se ti capita di fare sesso senza protezioni con una persona che ce l’ha e non si sta curando (perché ricordiamo se uno è in terapia efficace non lo può trasmettere). Qualunque sia il tuo genere e il genere del tuo partner, indipendentemente dal fatto se ti definisci gay, etero, bisessuale o marziano.
Ma vogliamo farla una riflessione su cosa nasconde l’inattaccabile precisazione della nostra amica attivista? Innanzitutto, c’è un problema “storico” o “politico”, vedete voi: forti di questa sacrosanta puntualizzazione, moltissime organizzazioni LGBT italiane ma anche europee (e credo anche al di fuori del Vecchio continente) hanno pensato bene di smettere di occuparsi di HIV, perché “non è una cosa che riguarda solamente noi, se ne occupino le istituzioni che devono curare la salute pubblica di tutte e tutti”.
Bene. Le istituzioni, ovviamente, hanno adottato lo stesso presupposto: “non dobbiamo presentare l’HIV come un problema dei gay, ma parlare alla popolazione generale”. E così, giù con campagne dal messaggio quanto più vago e “ampio” possibile, con l’ovvio risultato che un messaggio vero, sintetico, efficace non è arrivato a nessuno. Chi se lo ricorda Raul Bova che avvolge il fiocco rosso intorno a persone ignude di tutte le tipologie? Forse solo qualche fan sfegatato (gay, ovviamente…). E se anche vi ricordate dell’avvenente attore, vi ricordate cosa comunicasse quella campagna? Sono pronto a giurare di no.
Oggi, ulteriore ennesimo episodio. Siamo al 1° dicembre e la stampa – vivaddio – decide di parlare di HIV (oddio, spesso vogliono parlare di AIDS, ma vaglielo a spiegare che non sono la stessa cosa…). Vengo contattato da una giornalista del Tg1 per una intervista, un minuto per parlare di come mi sono contagiato, cosa si può fare per fermare l’epidemia. E che ci vuole? Vabbè, acconsento. Aspetto la telefonata di conferma che puntualmente arriva: «Scusa Giulio – mi spiega la scrupolosa e gentilissima collega – ma il direttore mi ha chiesto di trovare una donna. Sai, è anche un modo per far passare il messaggio che l’Aids [sic] non è solo… [momento di imbarazzo] qualcosa che sta in un certo gruppo di persone [froci, dillo, siamo froci!], ma anche le donne si infettano sempre di più».
Ora, io sono felice che si parli di Hiv tra le donne: è doveroso. E non mi interessa nemmeno precisare che le nuove diagnosi di infezione tra le donne sono stabili dal 2010 e non in aumento (a meno che non parliamo delle donne straniere…). L’Hiv tra le donne è sicuramente un argomento trascurato, quindi ben venga che se ne parli!
Però mi viene in mente un dubbio: non è che stiamo “censurando” ciò che accade tra i gay? Forse è solo la mia impressione, ma mi sembra che gli unici a parlare di Hiv tra i gay siano – alcune – associazioni gay. Ovviamente facendo la tara di quella innominabile trasmissione spazzatura che va in onda la domenica e il martedì in prima serata un canale Mediaset e che si diverte a buttare in pasto agli affamati leoni della tastiera gli “untori”(mai conosciuto uno) o la coppia gay sierodiscordante tanto bella perché usano ancora il preservativo (anche se il partner sieropositivo è undetectable e quindi NON PUÒ trasmettere l’Hiv manco con l’aiuto di tutti i santi del Digitale Terrestre, ma questo è ovvio che l’infotainment da discarica non lo dice!). O altre amene avventure pseudo-giornalistiche di questo tipo.
Io non ricordo un Tg1 con un ospite gay che parli della sua vita con Hiv. Non ricordo nessun intervento nella tv cosiddetta generalista che spieghi ai giovani gay quanto sono a rischio di contrarre il virus. Mai. Mi sbaglierò, so di avere una pessima memoria.
Eppure… Eppure, caspita se ce ne sarebbe bisogno! Non me ne vogliate ma qui parte il pippotto epidemiologico. Andiamo a vedere i dati appena pubblicati dall’Istituto superiore di sanità e aggiornati – a meno di quei casi che le regioni non hanno ancora segnalato al centro operativo Aids e che saranno aggiunti da qui a qualche mese – al dicembre 2017. Lo scorso anno sono state segnalate 3.443 nuove diagnosi di infezione da Hiv. Di queste, 2.249 riguardano cittadini italiani. Il problema rappresentato da quelle 1.181 segnalazioni relative a cittadini stranieri è enorme e va affrontato anche quello! Ma io voglio un secondo concentrarmi sugli italiani (pare vada di moda, ultimamente…). Quasi metà di quelle diagnosi (1.061 per l’esattezza) è avvenuta in seguito a rapporti sessuali tra maschi. Sono invece 543 le nuove diagnosi registrate tra i maschi etero e 273 quelle tra le donne.
Questi i numeri assoluti. Ma facciamo una riflessione sulla proporzione di maschi gay che ogni anno si trovano scritto “positivo” sul foglietto del test Hiv? Noi non sappiamo quanti ce ne siano in Italia, di maschi gay. Non è mai stato fatto un censimento o uno studio grande in proposito. Possiamo solo fare stime molto, molto, molto grossolane. Quindi mi perdoneranno gli epidemiologi – che tanto sono sicuro non perdono tempo a leggere questo articolo – ma farò una roba “un tanto al chilo”. Secondo il Censimento del 2012, dei quasi 60 milioni di italiani sono maschi 28.750.000 circa. Se ci limitiamo a quelli che avevano più di 18 anni arriviamo a 22.200.000 circa. Ora, lo sappiamo tutti che forse sono molti di più ma basiamoci sulle statistiche generali e diciamo che anche in Italia un maschio su 20 ha avuto almeno una volta nella vita un rapporto sessuale con un altro maschio: quindi ci sarebbero 1.110.000 italiani di sesso maschile che possiamo definire “gay” (molti dei quali se lo sapessero mi riempirebbero di botte, probabilmente). Se dividiamo il numero di nuove diagnosi tra i maschi gay (1.061) per il numero di maschi gay stimato (1.110.000) otteniamo che quasi un maschio gay su 1.000 ogni anno ha una diagnosi di Hiv. Proviamo a fare la stessa operazione per i maschi etero? Risultato: uno su 38.000. E le donne etero? Siamo quasi a una su 90.000. Per carità, conti grossolani, che più grossolani non si può: ma ci vogliamo rendere conto che l’ordine di grandezza che ne viene fuori è comunque agghiacciante? C’è o non c’è un problema grosso quanto una casa tra i maschi gay rispetto all’Hiv?
Potremmo anche citare l’ottima analisi prodotta dai massimi scienziati mondiali e pubblicata nel 2012 sulla prestigiosa rivista The Lancet (a dire il vero, la più prestigiosa al mondo…) e ricordare che il fatto che l’Hiv sia così diffuso nella comunità gay rappresenta di per sé un rischio, perché è chiaramente molto più facile per un uomo omosessuale incrociare tra i suoi amanti qualcuno con Hiv e con carica virale rilevabile in grado di trasmettergli l’infezione rispetto a quello che accade per gli etero. Non solo: i gay sono gli unici che possono avere sia il ruolo attivo che passivo (vabbè, gli scienziati direbbero insertivo e ricettivo, ma ci siamo capiti), cosa che rende più facile la trasmissione tra chi mi passa l’Hiv e quello a cui lo passo io. Se a questo aggiungiamo il fatto che nel rapporto anale (che però pare anche gli etero possano consumare) è molto più facile la trasmissione di Hiv, abbiamo completato il terzetto di vulnerabilità che rendono gli uomini gay più a rischio di diventare sieropositivi.
Un’ultima riflessione personale: credo sarebbe sbagliato pensare che il gruppo dei maschi gay sia chiuso e che quindi tutto questo “Hiv” che circola là dentro resti lì. Mi risulta che ci siano anche maschi che fanno sesso sia con i maschi che con le donne. Persone che potrebbero – ovviamente sempre involontariamente, non voglio certo colpevolizzare nessuno – contrarre l’Hiv dove è più facile trovarlo, cioè tra i maschi, e trasmetterlo alle donne. Questo solo per dire che intervenire per fermare l’Hiv tra i gay credo che vada a vantaggio anche degli etero e della diffusione generale dell’infezione.
In conclusione, non sto richiamando attenzione sull’Hiv tra i gay per puro narcisismo frocio – dal quale pure potrei non essere esente – né voglio negare l’importanza enorme che hanno anche altre situazioni, come la questione della salute sessuale delle persone straniere o delle donne. Mi viene però il sospetto che qualcuno possa credere che non ci sia più bisogno di parlare dell’Hiv tra i gay. A quel qualcuno vorrei dire che credo proprio che ce ne sia un gran bisogno. Quel “qualcuno” forse non lo sa, ma sta ponendo una censura pericolosa (e, credo, non esente da un odioso moralismo) su un tema che riguarda la salute dei cittadini e di tutte le persone, gay certo ma anche di altri orientamenti sessuali. E davvero l’ultima cosa di cui l’Hiv ha bisogno è di altre censure.
Giulio Maria Corbelli
Plus Onlus