Uno degli slogan della Conferenza è “Put people first”. Tuttavia molti attivisti che non vivono negli Stati “giusti” non hanno potuto partecipare perché la Germania ha negato loro il visto, in diversi casi motivato con il fatto che non sono ricercatori, a quanto dicono le associazioni, sono solo quegli stronzi che HIV lo vivono direttamente sulla loro pelle. E’ incredibile che ancora oggi non sia chiaro che i veri esperti nella lotta contro HIV sono le attiviste e gli attivisti che ogni giorno si confrontano con gli imbecilli che ci discriminano, anche membri delle nostre community, sono quelli che ogni giorno fanno scelte drammatiche come decidere se allattare un figlio e passargli HIV o vederlo morire di fame, o chi ogni giorno viene aggredito se dice di vivere con HIV.
Eppure ecco che un qualsiasi Stato decide chi può o non può partecipare a una conferenza come questa, nata e cresciuta proprio grazie alla collaborazione fra attivismo e ricerca scientifica.
IAS ha già emesso un comunicato ridicolo dove si legge che non può incidere sulle scelte nazionali della Germania. Il che ovviamente è vero, ma può scegliere di fare la conferenza in uno Stato dove le leggi immigratorie non sono pensate per mantenere i privilegi di quattro politici bianchi.
Il punto vero è che la Germania dona miliardi di euro, per cui il dubbio che certe scelte abbiano molto a che fare con i soldi è bello forte.
È su questa base che le associazioni hanno organizzato una protesta durante la plenaria: diverse decine di attivisti in camice bianco (opportunamente disegnato), hanno issato cartelli “we are the expert” e “visa denied”. Una sedia vuota con sopra quest’ultimo slogan è stata lasciata sul palco a rappresentare le numerose assenze di attivisti.
Non è certo la prima volta che accade, perfino quando la conferenza tornò negli USA, perché il Presidente Obama aveva rimosso il divieto di ingresso negli USA delle persone con HIV, rimase il blocco per le/i sex worker o le persone che assumono sostanze, ecc. che mandarono video denunciando di non poter essere presenti grazie a leggi assurde.
Ma torniamo alla plenaria che, nella logica del put people first, è incominciata con la relazione di Anna Turkova dal University College London che ci ha illustrato la situazione dei bambini con HIV. 1,4 milioni di bambini vivono con HIV, la grande maggioranza manco a dirlo in Africa. Anche se in 10 anni il numero di nuove infezioni fra i bambini è sceso di 100.000 unità in generale, ma ancora in Africa si registrano enormi difficoltà in questo settore, a partire dalla messa in ART delle donne in gravidanza. Il 47% delle nuove infezioni nei bambini è dato dal ritardo di inizia della terapia o dall’allattamento al seno. Del resto, come ho scritto sopra, in molte zone rurali africani le mamme devono scegliere se far morire di fame i loro figli o allattarli e passare HIV. Se in queste zone è complicato e difficile raggiungere la soppressione virale per un adulto, vi lascio immaginare le percentuali di HIV che registrano i bambini e quanto possano essere lontani dalla viremia “azzerata”.
Numerosi sono i progetti che cercano di porre rimedio a questo enorme problema, ma si tratta di progetti finanziati da donatori o fondazioni che non sempre danno continuità. Molte speranze vengono riposte nei long acting per la prevenzione ma i costi altissimi li rendono inaccessibili.
Dopo la protesta degli attivisti in camice, è la volta della presentazione di Richard, un attivista dell’inglese THT (Terence Higgins Trust), forse la più vecchia associazione contro HIV d’Europa. Sempre nella logica People First, Richard si chiede se le associazioni sono la chiave per raggiungere gli obiettivi di UNAids. Intanto ci mostra che la situazione britannica non è delle migliori, cosa che ignoravo. Secondo i dati presentati si registrano problemi nella cascade of care così come nello stigma. Impressionante il dato secondo il quale 2/3 degli abitanti non bacerebbero una persona con HIV. Naturalmente ecco quello che le associazioni britanniche stanno facendo moltissimo per raggiungere gli obiettivi dati entro il 2030, in particolare sulle determinanti sociali. In effetti, c’è chi ha calcolato che le determinanti sociali contribuiscono per il 40% delle nuove diagnosi, problemi che le associazioni affrontano con il 10% dei fondi disponibili.
Le conclusioni dell’attivista sono molto chiare: nessun gruppo può raggiungere da solo gli obiettivi di UNAids, ma sicuramente non si raggiungono senza il lavoro delle associazioni di volontariato che è sottostimato e poco apprezzato. Cosa che deve finire.
L’ultima presentazione è di Olga Gvozdetska direttrice generale di salute pubblica presso il Ministero della salute ucraino. Una presentazione molto forte che inizia con le foto dell’enorme ospedale pediatrico, 700 bambini ricoverati, 9.000 operazione annue, di Kiev prima e dopo la sua distruzione a opera dei missili russi.
Con la voce rotta Olga ci ha raccontato le vicissitudini sanitarie di un Paese in guerra. Un Paese che aveva ottenuti buoni risultati nella lotta contro HIV convincendo lo Stato a farsi carico centralmente del problema. Con la guerra l’Ucraina ha rischiato il crollo sui nostri temi, lo Stato ha dovuto cessare qualunque investimento come è facile immaginare, ma ha saputo reagire. A fronte della distruzione dei principali centri clinici del Paese il Ministero ha attuato una fitta azione di decentralizzazione utilizzando, da un lato, tutte le risorse disponibili nelle province anche le strutture associative; dall’altro lato chiedendo aiuto al fondo monetario internazionale e al fondo globale per HIV, TB e malaria che stanno tenendo in piedi la situazione. Grazie al supporto internazionale l’Ucraina sembra essere riuscita a riprendere il controllo e a tornare ai valori prebellici.