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La plenaria di oggi è stata particolare, come si dice di solito quando non ci piace qualcosa. È iniziata con un complesso ma interessante “a che punto siamo” sul tema della remissione che, in estrema sintesi, vuol dire lasciare HIV nel nostro corpo ma controllarne la replicazione. Come questo possa combattere l’attivazione immunitaria e la relativa infiammazione che ci porta ad avere una serie di problemi di salute, non mi è chiaro. Tuttavia, ragionando in direzione di una cura, sempre che la remissione sia l’unico obiettivo non irraggiungibile con le conoscenze attuali. In altre parole di guarire non se ne parla neanche.

La cosa insolita è che ne parlano pochissimo anche i pazienti, gli attivisti, le associazioni di pazienti che pur dovrebbero avere questo ambizioso obiettivo ben presente quantomeno sullo sfondo di ogni decisione politica e di ogni progetto. Mah… siamo strani.

La relatrice, Melania Ott, ci ha informato del fatto che l’HIV nei reservoir anche se silente comunque trascrive. Secondo lei se riuscissimo ad attaccare questa trascrizione raggiungeremmo la remissione. In realtà noi non abbiamo farmaci che bloccano la trascrizione per cui è tutto da inventare. Alcune molecole, che sono in fase di studio, potrebbero fungere da inibitori della trascrizione e prevenire la riattivazione dalla latenza.

La successiva relazione è stata tenuta da Ricardo Leite che ha cercato di convincerci sul valore dell’intelligenza artificiale nei vari campi della lotta contro HIV, prevenzione e gestione del paziente inclusa. Al netto delle potenzialità dello strumento, il dott. Leite sembrava che volesse venderci un qualche prodotto miracoloso con uno stile di vendita molto USA forse utile per vendere auto usate ma fastidioso in una conferenza mondiale. Tuttavia una cosa giusta l’ha detta: ormai gli ospedali sono imprese e ragionano troppo spesso in termini di produttività, neanche fossero la Ford. In effetti sentiamo spessissimo ragionane in termini di numeri di test effettuali, di esami eseguiti ma molto meno spesso osserviamo come stanno i pazienti. Quindi rimettere al centro il paziente… ok non è una cosa nuova, ma la similitudine fra la catena di montaggio di Ford e gli ospedali l’ho trovata molto efficace. Che sia la AI la soluzione non lo so ma sicuramente può essere un aiuto anche senza arrivare a proporre dei bot la posto dei medici.

L’ultima presentazione ce l’ha fatta, credo per la prima volta in una plenaria, Gesine Mayer-Rath di professione economista. In una articolata e francamente noiosa presentazione, ci ha spiegato come misurare l’impatto economico. Per esempio ci si può basare sul “capitale umano” ossia le persone, è possibile aggiungere la produttività, i costi di produzione e distribuzione, ecc. ecc. tutto decisamente al di la delle mie misere capacità, ma continuo a pensare che il fattore umano non possa che travalicare tali calcoli soprattutto quando si tratta di decidere di salvare la vita a qualcuno. Vorrei ricordare che non poi un milione di anni fa, la prestigiosa rivista Forbes sosteneva che trattare HIV non paga. Per cui comprenderete che l’attenzione su certe teorie possa tendere a scemare. Per fortuna la relatrice è dell’altra parrocchia e arriva a calcolare che per ogni dollaro speso nel rispondere alla crisi HIV, ci si guadagna da 1 a 3 dollari in “capitale umano”, che salgono da 2 a 13 dollari se prendiamo in considerazione una serie di fattori. Siamo salvi.

Accenno anche a due sessioni parallele a cui ho partecipato. La prima riguarda il tema della discriminazione. Due le relazioni più interessanti secondo me. Quella di Mario Sanchez del Kock Institute, che ha messo in relazione la discriminazione subita delle persone trans e non binarie in Germania, con la loro capacità di operare scelte di prevenzione. La seconda del dott. Noori di ECDC, che ha descritto cosa è emerso da uno studio realizzato fra gli operatori sanitari in merito ad atteggiamenti discriminatori. Ovviamente mi soffermo sui risultati, il 39% non ha conoscenze corrette su U=U, su PEP il 44%, su PrEP il 59%.

Addentriamoci: il 30% dei medici non ha chiaro cosa sia U=U e PEP, il valore sale al 50% su PrEP. Ovviamente questo è il meglio, le altre figure professionali sanitarie (infermieri, dentisti, ecc.) vanno peggio.

Rispetto al fare assistenza a persone con HIV il 53% ha dubbi, il 57% è preoccupato nel prelevare sangue e il 26% dichiara di indossare 2 guanti. Il 6% degli operatori sanitari non vuole avere a che fare con persone trans, sex worker, MSM; la percentuale sale al 12% se IDU. In merito alle ragioni mi limito a dire che il 50% ritiene gli MSM immorali, il 45% che gli IDU sono pericolosi per la salute degli operatori sanitari.

Il 12% ritiene che gli MSM se hanno HIV è perché hanno avuto molti partner sessuali, come un po’ tutti quelli che hanno HIV (12%), perché hanno tenuto un comportamento irresponsabile 22% e se sono viremici non dovrebbero fare sesso (26%).
Rispetto agli atteggiamenti discriminatori rispetto alle persone con HIV nel posto di lavoro, è stato osservato:

  • riluttanza a prendersi cura delle persone con HIV (22%);
  • rivelare lo stato sierologico di un paziente senza il suo consenso (19%;
  • qualità di assistenza sanitaria inferiore (18%)
  • commenti o linguaggio discriminatorio (30%).

Nelle conclusioni il relatore sottolinea un evidente gap di conoscenza sui temi HIV correlati fra gli operatori sanitari e il fatto che più è bassa la conoscenza, più alto è il rischio di commettere errori professionali come l’uso eccessivo di precauzioni. I due guanti sono certo che ha già mandato in bestia Rita (infermiera al PrEP Point di Plus).
Dallo studio emerge la necessità di interventi mirati sulle varie professionalità sanitarie.

Vi do rapidamente conto della sessione diretta da Sheena McCormack che con le sue ricerche e in particolare lo studio Proud ha grandemente contribuito a sdoganare la PrEP in Europa. Il tema della sessione verteva sulla semplificazione dell’accesso alla PrEP. Oggi le linee guida (e ovviamente anche il nostro protocollo) prevedono una prima visita corredata di test per HIV, HCV, HBV, sifilide, CT, NG e dosaggio della creatinina, seguito da una seconda visita a distanza di 4 settimane dalla prima e poi, a regime, una visita ogni 3 mesi. Per comodità cito il protocollo del nostro centro community based. In ospedale se possibile è anche peggio.

Da molte parti si sostiene che questo sistema non è sostenibile sia sul piano economico, sia per il fatto che terrebbe lontano dall’accesso alla PrEP molte persone. Pressoché l’intero panel era dell’idea di semplificare, alcuni al massimo ossia 1 test HIV e se negativo si prescrive la PrEP. Visita medica 1 volta all’anno, nel caso ci sono gli infermieri dedicati. Test praticamente solo ai sintomatici. A occhio direi che una aurea via di mezzo di da preferire in generale, mentre per quanto riguarda il PrEP Point di Bologna servirà una riflessione approfondita più sul metodo che sul merito, anche perché noi “selezioniamo” persone ad alto rischio di contagio per cui le IST sono molto frequenti, spesso i test ogni 3 mesi non sono del tutto sufficienti.

Sandro Mattioli
Plus aps