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In questa diretta un attivista e un medico queer si confrontano su come non prendere l’HIV usando la PrEP, un farmaco e un protocollo sanitario di prevenzione.

 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Rodolfo Pessina, MD 🩺 (@sexotan_gocce)

Dopo oltre 40 anni di HIV, con tutti i cambiamenti sociali che l’epidemia ha portato con sé, ha ancora senso parlare di fierezza o di orgoglio positivo – ovviamente mi riferisco a HIV – e ha ancora senso portare ai Pride questo tema? Dopo tutto ormai HIV non fa così paura, prendiamo una pillola e via, che sarà mai?
Lo stigma, la discriminazione e il pregiudizio la fanno ancora da padroni in questo Paese? E la comunità LGBTQ+ è così immune dal discriminare le persone che vivono con HIV che queste possono restare nascoste ed evitare di palesare il proprio stato sierologico?
Il movimento LGBTQ+ sta svolgendo finalmente un’opera di primo piano su questi temi? O resta timoroso sulla porta delegando ad altri un ruolo che in altri Paesi è stato governato principalmente da persone omosessuali?

Fuori dal corteo del Pride, ha senso parlare del proprio stato sierologico ad altri e “uscire dall’armadio, come facciamo con l’orientamento sessuale?

Di questo e di molto altro parleremo al VENERDi’ POSITIVO del 30 marzo dalle ore 19,30 presso la sede di Plus in via S. Carlo 42/C a Bologna.

Dopo la chiacchierata, per chi lo desidera, è prevista una pizzata tutti insieme.

A venerdì.


Riprendono le domeniche di approfondimento “E tu che ne vuoi sapere?” tratto dalla frase che un clinico ci disse durante una conferenza.
Secondo noi, invece, restare nell’ignoranza fa bene solo alle infezioni mentre l’empowerment delle persone che vivono con HIV aiuta a combattere efficacemente la sua azione.

Ci vediamo domenica 12 marzo alle ore 18 presso la sede di Plus in via S. Carlo 42C a Bologna e parleremo delle novità dalla conferenza CROI 2023.

La conferenza CROI (conference on retroviruses & opportunistic infections) è forse la più importante conferenza al mondo e si tiene, manco a dirlo, negli USA. La conferenza di quest’anno si è tenuta a Seattle (WA) dal 19 al 22 febbraio. Nella sezione “Articoli” potete leggere le relazioni del Presidente dell’Associazione.

Grazie ad un contributo non condizionato di ViiV Healthcare, siamo riusciti a concludere un progetto ambizioso che comprende il rinnovamento e il potenziamento delle piattaforme digitali di Plus.

Da un lato ci siamo “ripresi in casa” i siti internet che a suo tempo avevamo creato con lo scopo di dare maggiore visibilità ai progetti innovativi che stavamo portando avanti (BLQ Checkpoint.it, prepinfo.it). Dall’altro lato, abbiamo rinnovato il sito plus-aps.it dandogli la forma del portale ma, soprattutto, dandogli una forma più agile e moderna caratterizzata da un consistente uso di immagini. Ora Plus ha un nuovo portale con un design moderno e intuitivo, organizzato per aree tematiche e nuovi contenuti utili e interessanti per i membri e per il pubblico in generale.

Funzionalità:

  • Homepage dinamica con un’immagine di sfondo e una breve descrizione dell’associazione e dei suoi obiettivi
  • Navigazione intuitiva e facile da usare, con menu di navigazione fisso in alto alla pagina e pulsanti chiari e ben visibili per accedere alle diverse sezioni del sito
  • Sezione “Chi siamo” con una descrizione dell’associazione, la storia, la mission, i valori e le attività svolte
  • Sezione “Eventi” con un calendario degli eventi futuri, un archivio degli eventi passati, con relativa descrizione, immagini e video
  • Sezione “Progetti” con una panoramica dei progetti in corso, dei risultati raggiunti e delle attività previste
  • Sezione “Articoli” con articoli di approfondimento su temi di attualità, opinioni e contributi degli esperti del settore
  • Sezione “Contatti” con una lista di contatti per raggiungere l’associazione, un modulo di contatto per richieste specifiche e una mappa interattiva per localizzare la sede dell’associazione.
  • E molto altro ancora…

Grafica:

  • Design moderno, accattivante e in linea con l’immagine dell’associazione, con colori e fonti coerenti con il branding dell’organizzazione
  • Layout responsive, adattabile a tutti i dispositivi, desktop, tablet e smartphone
  • Immagini e foto di alta qualità, scelte accuratamente per rappresentare l’associazione e le sue attività
  • Animazioni ed effetti visivi per migliorare l’esperienza utente e rendere il sito più dinamico e coinvolgente.

Contenuti:

  • Contenuti organizzati in sezioni tematiche chiare e ben definite, per agevolare la navigazione degli utenti
  • Contenuti di alta qualità, originali e utili per i membri dell’associazione e per il pubblico in generale
  • Testi chiari, ben scritti e facilmente comprensibili per tutti i livelli di conoscenza del settore
  • Immagini, foto e video appropriati e pertinenti, utilizzati in modo efficace per supportare i contenuti testuali.

Parallelamente, abbiamo realizzato un’app per smartphone dedicata alle persone che usano la PrEP come sistema di prevenzione da HIV. L’app si chiama “PrEPapp” e sarà presentata a breve in modo più ampio, è stata realizzata dalla software house “GreenTeam”, in collaborazione con Plus, Checkpoint Milano, Conigli Bianchi.
L’app è pensata per incrementare l’aderenza terapeutica nelle persone in PrEP, in particolare per coloro che usano la posologia on demand. Resistendo alle tentazioni, l’app è tutt’altro che barocca, al contrario l’abbiamo voluta il più semplice possibile. Fornisce informazioni di base per la corretta assunzione del farmaco e restare protetti.

Daniele e Roberto Milano Checkpoint

Ebbene si: ho barato. C’è ancora un pezzo di relazione che mancava e riguarda i poster, ossia quegli studi i cui abstract sono stati accettati e pubblicati in forma di cartelloni nella sede della conferenza, un enorme salone dedicato agli abstract. Naturalmente erano oltre 1000 gli studi pubblicati, io ne ho selezionati solo alcuni. I poster sono linkati, se cliccate è possibile vederli in un formato sostenibile.

Incomincio con i nostri colleghi/”rivali” del Checkpoint di Milano, che sono bravi a valorizzare i dati che raccolgono. CROI ha accettato il loro lavoro: Mpox: Sexual behavior reduction do not explain decreased Mpox incidence among prep users. In sintesi i milanesi hanno notato che i ragazzi in PrEP che seguono, non hanno minimamente cambiato le abitudini sessuali durante l’epidemia di Mpox e non si spiegano come mai i casi siano calati. Ricordo che il cluster milanese da solo copriva il 50% dei casi nazionali. Non è spiegabile con vaccino che è arrivato tardi rispetto ai tempi della statistica, tantomeno con la lentezza con cui il vaiolo delle scimmie replica, perché secondo il dott. Rossotti (il secondo da sinistra nella foto) sostiene che i dati clinici in suo possesso mostrano un’accelerazione nell’incubazione scesa a 3 giorni. Volendo cavarcela con una battuta, anche perché con i dati attuali non ci sono spiegazioni scientifiche, forse mpox non è riuscito a tenere il ritmo degli MSM di Milano.

Lo studio Burden of coronary disease in transgender women with and without HIV invece, ipotizza una relazione fra la terapia ormonale in donne trans e problemi cardiovascolari. Non è tanto per lo studio in sé che non è di particolare peso, ma per il fatto che finalmente qualcuno pubblica studi sulle persone trans.

Lo studio olandese Sexual behavior and sti incidence during the first 4 years of prep use among MSM, riporta alcune considerazioni sugli MSM in PrEP. Durante i primi 4 anni di utilizzo della PrEP, l’incidenza complessiva di IST è stata elevata e stabile. L’incidenza di clamidia e gonorrea è leggermente diminuita negli utenti daily ma, al di la di questo la linea di tendenza vede un incremento di casi di IST per poi stabilizzarsi. I test regolari e il trattamento delle IST rimangono una priorità tra gli utenti in PrEP. La prevenzione biomedica delle malattie sessualmente trasmissibili può essere esaminata in questo contesto.

Il simpatico studio PEP-in-pocket (PIP): long-term follow-up of on demand HIV post-exposure prophylaxis probabilmente farebbe venire un ictus agli infettivologi restii a concedere al PrEP (soprattutto ai gay). La PIP, in italiano sarebbe PEP in tasca, si rivolge a persone che hanno un alto rischio di contagio ma non molto spesso. La PIP consiste nel fornire a queste persone 4 settimane complete di PEP, il counselling perché abbiano chiaro quando iniziare il trattamento e dove recarsi in caso di bisogno. Le conclusioni vanno oltre proponendo la PIP il passaggio da PIP a PrEP in base all’evoluzione del rischio delle persone. Inoltre, è suggerito di includere la PIP, insieme a PEP e PrEP, nelle opzioni biomediche di prevenzione dell’HIV per gli individui HIV-negativi a rischio di infezione.

Vi ho già parlato dello studio Slowing or reversal of decay of intact proviruses over 2 decades of suppressive ART, ossia che i reservoir decadono lentamente anche dopo 20 anni di soppressione virale. Questo è uno dei motivi per cui la cura è ben lontana dall’essere trovata. Per la vostra gioia aggiunto lo studio Persistance of inducible replication-competent hiv-1 after long-term art che in sostanza giunge alla stessa conclusione.

Lo studio Risk factors for 5-year mortality in people with hiv after cancer diagnosis, che in sintesi stima in 5 anni la sopravvivenza media delle persone con HIV dopo la diagnosi di cancro, ovviamente in Nord America dove forse il sistema sanitario ha consistenti spazi di miglioramento.

Sandro Mattioli
Plus aps

Dalla terrazza esterna del nuovo centro congressi di Seattle, dove c’è voluto tutto il mio coraggio per sedermi (soffro un po’ di vertigini) inizio l’ultima relazione… penultima va… che è proprio su un tema che mi è caro, per ovvi motivi: l’ageing. L’invecchiamento.
La plenaria di oggi è stata molto interessante perché un geriatra – George A. Kuchel, University of Connecticut – con una evidente propensione per l’infettivologia ha tenuto finalmente una relazione dove sono stati messi a confronti modelli e dati relativi all’invecchiamento con e senza HIV.

Quella che a troppi medici infettivologi italiani sembra poco più che una seccatura su cui fare battute sportive, al Croi viene presa così sul serio da trovargli spazio in una plenaria davanti ad alcune migliaia di medici (e alcuni attivisti).

Lo studio di Greene pubblicato su JAIDS 2015, ha arruolato una coorte di persone con HIV adulte. Come si vede dall’immagine vengono descritti problemi che portano alla diagnosi di sindrome geriatrica che normalmente il medico riscontra in persone intorno agli 80 anni, se non che i dati fanno riferimento a persone con HIV di 60 anni o più giovani.

Che è, in sostanza, quello che sostiene il prof. Guaraldi in Italia basandosi sui dati raccolti dalla coorte di Modena. La presentazione prosegue con altri due studi del 2013 e del 2015 dove si spiega come HIV acceleri o accentui l’invecchiamento. Detto questo il geriatra spiega che il processo invecchiamento è multifattoriale, ossia non è un solo elemento che va in on e si incomincia ad invecchiare. I fattori sono molti, per esempio la metilazione del DNA, e HIV interviene a favorire o bloccare alcuni di essi provocando una accelerazione.

Con l’invecchiamento precoce avviene quella che Kuchel definisce, forse in modo un po’ avventuroso, un altro tipo di crisi AIDS ossia l’insorgenza di co-patologie, “un numero crescente di pazienti con HIV vive più a lungo ma invecchiano più velocemente mostrando precocemente segni di demenza e fragilità ossea che solitamente si vedono in pazienti più anziani (tradotto da David France, published nov. 1, 2009). E il punto non sta nel non voler invecchiare o pensavate di vivere per sempre, come mi sono sentito rispondere anche di recente da pregiati infettivologi in Italia.

Il punto è che questi temi vanni tenuti presente e alcuni problemi possono essere diagnosticati precocemente in modo da rendere meno penosa e più in salute le persone con HIV.
Ovvio che invecchiare è un processo naturale, dovrebbe essere altrettanto ovvio per dei clinici seri collaborare con i colleghi che si occupano di geriatria e portare dati a supporto invece di canzonare o fare battutine. Il dott. Kuchel infatti cita quello che sembra essere un problema anche negli USA: le barriere istituzionali. Siamo tutti così chiusi nei nostri settori che ci risulta difficile collaborare con altri. E con “settori” intende quelle che in Italia si chiamano società scientifiche e anche le istituzioni sanitarie che, a suo dire, dovrebbe essere meno concentrate sui propri obiettivi, più collaborative.

Sandro Mattioli
Plus aps

No, reservoir non è una elegante parola francese che indica la scorta di champagne del duca di Guermantes, bensì il motivo per cui non riusciamo a liberarci di HIV. Il serbatoio del virus, quello che è già bello abbondante dopo solo un anno di replicazione virale senza trattamento. Figuriamoci cosa può essere quello dei late presenter con 7/8 anni di replicazione non trattata.

Stamattina c’è stata una bellissima presentazione su questo tema. Bella quanto complicata. Quello del virus latente è davvero un tema complesso. La presentazione è stata tenuta da Janet M. Siliciano, The Johns Hopkins University School of Medicine dal titolo: HIV Reservoirs: Obstacles to a Cure.

La ricercatrice accenna con una slide ai “bei tempi andati” quando finalmente arrivarono i primi farmaci e si pensò evviva, è fatta: HIV viene ridotto ai minimi termini dal trattamento, poi si potrà interrompere quando HIV non replica più. Presto ci si rese conto che poco dopo l’interruzione del trattamento avveniva il cosiddetto rebound, ossia HIV riprendeva vita e tornava rapidamente ai livelli pre-ART. Ci si rese conto rapidamente che HIV resta latente e invisibile al sistema immunitario, un po’ come le spie russe in occidente nei film, pronto a tornare in lizza al primo accenno di calo della pressione farmacologica. Ma possono restare in stasi per sempre? Quasi.

Queste cellule degradano certo ma molto lentamente, al punto che se i reservoir sono pieni le latenti te le tieni tutta la vita. Diversi studi ormai hanno dimostrato una persistenza almeno ventennale delle latenze. Il tema non cambia nelle persone in terapia anche da molti anni, anche undetectable. I farmaci, infatti, aggrediscono i virus in fase di replicazione ma nulla possono contro i serbatoi. Le motivazioni sono molto tecniche e ovviamente non mi addentro, ma gioca un ruolo la proliferazione delle cellule infette, la viremia residuale e così via. C’è niente che si possa fare? La ricercatrice sembra storcere il naso. Sembra di si: varie combinazioni di immunizzazione terapeutica, agenti slatentizzanti, così come gli anticorpi neutralizzanti, possono portare a un certo grado di controllo immunitario. Tuttavia siamo ancora lontani dalla soluzione definitiva.

Fra le varie possibili sessioni contemporanee, ho scelto quella del covid e Mpox. Forse scelta non brillante. Ne ho tratto una sensazione di déjà-vu, come quando anni fa si tentava l’utilizzo di questo o quel farmaco contro HIV. Oggi è la volta di sars-cov-2. La presentazione più interessante è stata, forse, quella di Takeki Uehara della Shionogi, quella del Crestor per intenderci, che ha presentato l’abstract: Ensitrelvir for mild-to-moderate covid-19. Lo studio, in fase, 3, si propone di valutare efficacia e sicurezza di Ensitrelvir (ma chi inventa i nomi delle molecole?), una volta al giorno, per 5 giorni di trattamento orale, in persone con covid definito lieve/moderato, in persone fra i 12 e i 69 anni, con o senza vaccinazione ma con un rischio che la malattia passi a severa.

Come endpoint primario lo studio si propone di valutare la risoluzione dei sintomi di covid-19, mentre come endpoint secondario principale di valutare la quantità di RNA virale al quarto giorno di somministrazione, i tempi per giungere a un esito negativo e la sicurezza. C’è anche un endpoint esplorativo relativo alla presenza di sintomi caratteristici del “long covid”.

Devo dire che le caratteristiche dei pazienti mi danno l’idea che anche i giapponesi selezionano pazienti perfetti: maschi, ovviamente, età mediana 35 anni, la gran parte vaccinati contro il virus del covid, etnia asiatica, quasi tutti con la variante omicron, con o senza rischio di malattia severa.

In questo quadro il farmaco antivirale pare abbia dato ottimi risultati:

rapida risoluzione dei sintomi
potente attività antivirale
87% di riduzione del virus rispetto al braccio placebo

Ben tollerato e pare che riduca anche i sintomi del long covid. Detto questo non posso fare a meno di chiedermi che dati avreste avuto su pazienti di 60 anni ma il ricercatore sembra un samurai in giacca e cravatta, vorrei evitare di perdere una mano per cui evito di scrivere la domanda sul Q&A della piattaforma della conferenza.

Altri studi propongono di agire contro covid con interferone pegilato, altro déjà-vu, che sembra dia buoni risultati, o gli anticorpi monoclonali amubarvimab e romlusevimab che porterebbero a una riduzione molto consistente delle ospedalizzazioni.

La presentazione sul vaiolo delle scimmie, recentemente ribattezzato MPox per ragioni etiche, è stata sicuramente la più interessante della sessione. Con il titolo Mpox in people living with hiv and cd4 counts <350 cells/mm3 – a global case series, Chloe Orkin del Queen Mary University Hospital di Londra, ha fatto inorridire e preoccupare tutti.
Si è trattato di una raccolta di dati, a cui ha partecipato anche l’Italia, in tutto il mondo.

Degli 85.000 casi di Mpox rilevati in 111 Paesi, fra il 38 e il 50% avevano l’HIV, la maggior parte in trattamento ARV, con più di 500 CD4 e quindi con una situazione al basale sovrapponibile a quella delle persone senza HIV. Lo studio, che ha coinvolto 19 Paesi prevalentemente in Europa e Americhe, è andato a cercare i casi di persone particolari. Infatti uno dei criteri di ammissione voleva un numero di CD4 > 350 che, come sapete, è indice di un sistema immunitario già compromesso da HIV e i partecipanti alla ricerca registravano una situazione immunitaria molto problematica nella quale Mpox ha sguazzato replicando in tutta tranquillità e massacrando cute e organi del paziente. Vi risparmio le immagini che sono state mostrate. Per altro, farmaci specifici per Mpox sono stati resi disponibili solo in USA e Europa, mi è facile pensare UE. Gli altri arrangiarsi, per cui ecco i pazienti con complicazioni con lesioni necrotiche severe alla cute, con sintomi respiratori, complicazioni rettali, orofaringee, oculari, al sistema nervoso centrale, arresto cardiaco – respiratorio. Insomma, la epidemia di Mpox si è rivelata essere tutt’altro che una sciocchezza per chi vive, viveva, con HIV e aveva meno di 350 CD4. Infatti le conclusioni della ricercatrice sono drammatiche nell’evidenza scientifica: tutte le 27 persone morte per l’azione di Mpox avevano meno di 200 CD4.
La severità delle complicazioni correla con i CD4 e la carica virale. Questo porta a dire anche che:

Mpox è un’infezione patogena opportunistica che correla con la definizione di Aids. Cosa di cui CDC e OMS dovrebbero tenere conto nella classificazione internazionale delle patologie e, addirittura in caso di CD <200 c’è la raccomandazione clinica di una vigilanza come nel caso di sepsi e, ovviamente, di diffondere maggiormente i farmaci e di prevenire con i vaccini la diffusione di Mpox, in particolare in quei Paesi che non hanno accesso a queste risorse.

Sandro Mattioli
Plus aps

Forse perché è stato l’ultimo lavoro di Giulio, forse perché Plus ha collaborato inviando persone al Policlinico di Modena per l’arruolamento, ma ho deciso di partecipare all’ultima sessione di oggi dedicata allo studio Mosaico. È quello del vaccino contro HIV pensato per gli MSM che, per chi ancora non lo sapesse, è stato interrotto perché non efficace. Il titolo della sessione è “Results from the Mosaico HIV vaccine trial and future directions for HIV vaccines”.

La sessione è iniziata con la rapidissima illustrazione dello studio da parte di Susan Buchbinder del San Francisco Dep. Of Public Heath, che ha spiegato il razionale del vaccino che, come ricorderete, cercava di mettere insieme vari pezzetti del virus per stimolare la risposta immunitaria al netto delle varianti, ha descritto la distribuzione in effetti i centri di sperimentazione sono stati molti alcuni anche in Italia. Ricordo anche che Plus ha collaborato con il Policlinico di Modena inviando diverse decine di arruolandi. La particolarità dell’arruolamento consisteva nel fatto che gli utenti in PrEP non potevano partecipare allo studio. Tuttavia gli arruolati durante il trial se cambiavano idea potevano entrare in PrEP, restando nel trial ma va detto che in pochi hanno accettato la PrEP.

Apparentemente sembra una cosa molto buona e in effetti lo è. Tuttavia non mi sfugge il fatto che chi ha optato per tentare la via del vaccino, lo ha fatto perché non era in PrEP e probabilmente non voleva neppure entrare in quel trip fatto – anche – di visite, test, prescrizioni, così come giudizi, pregiudizi e ignoranza assortita. Col senno di poi sono tutti dei fenomeni, ma forse sarebbe stato utile un coinvolgimento della community MSM che andasse oltre il semplice invio, o forse una volta per tutte, possiamo dire che parlare con un medico non è counselling ma è colloquio medico-paziente e sappiamo tutti come sono quelle dinamiche, per quello che vale generalizzare.

La Buchbinder ha proseguito con le caratteristiche dei partecipanti – in gran parte MSM con un 6% di donne trans e persone non binarie – la retention in care è stata altissima evidentemente c’era fiducia nella sperimentazione, la safety ossia sicurezza è stata dimostrata, ma il numero di contagi nel braccio di sperimentazione e in quello col placebo erano sovrapponibili come si vede anche nell’immagine. L’ultima slide della Buchbinder ci dice che, nonostante non ci siano stati problemi con la sicurezza del prodotto, il regime non è stato efficace per prevenire il contagio da HIV.

Punto.

Ovviamente stiamo parlando di una ricerca che poteva andare bene come male. Tutti i partecipanti erano stati largamente avvisati che c’erano dei rischi. Ma i dati della partecipazione soprattutto in America Latina e della retention mi fanno pensare che ci fosse una grande speranza, una grande attesa che è stata delusa.

Dietro ai numeri della slide della Buchbinder, ci sono delle persone che hanno messo in gioco i loro corpi, le loro speranze di un mondo senza HIV, qualcuno si è anche giocato la salute al di là delle buone intenzioni.

Per questa ragione, mi sarei aspettato un we feel sorry for all the people who were enrolled in the study. Invece niente, anzi, quasi il fastidio di dover parlare del Mosaico quando c’era un altro relatore che doveva parlare di scienza vaccinale. Qualcosa del genere la Buchbinder lo ha anche detto.

Nel grafico gli esiti di Imbodoko e Mosaico, le curve delle infezioni del braccio di sperimentazione e del placebo sono sovrapponibili per cui i vaccini sperimentali non hanno fatto la differenza.

L’altro relatore, Lawrence Corey del Cancer Research Center di Seattle, ha fatto una overview sugli studi sui vaccini, su Imbodoko (lo studio “gemello” africano su persone eterosessuali pure lui fallito), ha descritto le capacità tecniche che occorrono per realizzare un vaccino, capacità che il centro possiede, ha detto con orgoglio: “we have a rich scientific portfolio in approaches and our approaches and our scientific challenge is to put these different approaches into a coherent vaccine regimen”. La sensazione è che fosse più preoccupato per i soldi di Jannsen, che ovviamente non arriveranno più, che per altro.

E con queste ci hanno salutato e via. Non una parola su cosa credono sia successo, se lo hanno capito, non una possibilità al numerosissimo pubblico intervenuto di interloquire.

Siamo negli Stati Uniti è vero, la patria del dio denaro al quale non può fregare di meno di quei creduloni dei peruviani o dei messicani che si sono arruolati in massa, ma comunque è stato un brutto modo di chiudere una pagina che aveva suscitato attese e speranze.

Sandro Mattioli
Plus aps

HIV non si sconfigge solo con i farmaci, tantomeno lo si sconfiggerà con un vaccino così come non si sono sconfitte epatite A e B. Si potrà sconfiggere, forse, combattendolo congiuntamente sul piano scientifico e su quello sociale. Oggi il secondo ha spazi decisamente meno importanti e HIV non decresce come ci aspetterebbe stanti successi della ricerca.

È questa la sfida che Plus ha deciso di raccogliere attraverso la sua costituzione. Essa nasce con l’intento di far sì che le persone LGBT sieropositive abbiano la possibilità di essere tutelate sia come persone LGBT che come persone sieropositive, in un contesto in cui la formazione e l’informazione scientifica viene promossa e portata avanti in un clima paritario, da professionisti, operatori e volontari che condividono lo stesso background sociale ed esperienziale degli utenti.

Con una piccola citazione dal film di Pedro Almodóvar, parto con la relazione di oggi.

La plenaria di oggi ha celebrato i 30 anni della Pepfar.

The U.S. President’s Emergency Plan for AIDS Relief (PEPFAR), un impegno oggettivamente molto alto degli Stati Uniti che dal 2003 ha investito qualcosa come 100 miliardi di dollari in una singola malattia. Di questo ha parlato il direttore del programma Pepfar per l’Africa John Nkngasong di cui ho apprezzato la chiarezza espositiva con la quale ha mostrato i passi in avanti fatti grazie al programma.

Come vedete dall’immagine, la situazione in Africa prima del 2003 era davvero pessima, c’è da dire che lo si sapeva almeno dal 1990, con crollo dell’aspettativa di vita fino al 35% in Zimbabwe, non che gli altri Stati fossero messi molto meglio. L’impatto di HIV/AIDS ha sconvolto la vita di milioni di africani nel disinteresse generale, diciamolo. Nel dicembre 2002 i membri afroamericani del Congresso indirizzarono una richiesta d’aiuto al Presidente Bush che prese l’impegno di sostenere le richieste contenute e già a gennaio 2003 annunciò l’impegno dell’amministrazione per un piano straordinario di aiuti per “the people of Africa”. Al di la di questi aspetti un po’ lecchini, i fondi non solo sono arrivati ma, grazie a una serie di controlli, sono stati usati davvero per cercare di porre rimedio alla situazione in Africa, sia pur con colpevole ritardo.

Il relatore cita i dati di 30 anni di interventi, progetti, azioni in vari Stati del Continente resi possibili grazie ai fondi Pepfar:

E per fortuna verrebbe da dire perché l’Africa da sola raccoglie il 60% delle infezioni da HIV del pianeta e il 65% delle morti aids correlate. Tuttavia la cosa incredibile è nonostante questa situazione molti Stati africani hanno raggiunto gli obiettivi UNAids (i tre 90) e sono addirittura vicini a raggiungere i tre 95 previsti per il 2030. Parlo del 95% delle persone con HIV diagnosticate, il 95% delle persone diagnosticate in terapia, il 95% delle persone in terapia undetectable.
Quegli stessi obiettivi che il Sindaco di Bologna si è impegnato a ottenere prima del 2030 aderendo a Fast Track City. Speriamo di essere più bravi del Botwana che, secondo i dati presentati, è a un passo da raggiungere i tre 95.

20,1 di persone in trattamento
5,5 milioni di bambini nati senza HIV
70.000 strutture realizzate
340.000 operatori sanitari formati
3.000 laboratori in funzione.

Gli investimenti hanno infatti consentito vaste campagne di testing che hanno portato alla luce dati già noti – come i numeri incredibilmente alti di donne contagiate – ma anche dati non noti come il boom di casi fra giovani uomini cresciuto del 33%, è evidente che non facevano i test.

Inoltre, l’impegno di questi anni ha reso possibile il dispiegamento di personale formato anche contro covid (vaccinazioni, test, raccolta dati). Alla fine quella Pepfar si è dimostrata una piattaforma utile anche per contrastare altre infezioni emergenti.

Ovviamente ora, per citare il relatore, l’Africa vuole andare avanti e sono previsti investimenti nella direzione dei long acting come PrEP, in laboratorio e progetti di ricerca per la cura contro HIV. Progetti ambiziosi che fanno impallidire la coscienza dei politici italiani, se ne avessero una, in perenne ritardo su qualunque tema innovativo in questo campo.

Ho partecipato anche ad alcune sessioni interessanti su un tema di cui in Italia si vocifera da tempo ma non si prende nessuna decisione ufficiale: la doxiciclina come profilassi post esposizione per le IST batteriche, principalmente gonorrea, clamidia, sifilide. Infezioni molto comuni fra i nostri utenti in PrEP, test che potremmo effettuare anche al Checkpoint se non fosse per inedia dell’Azienda Sanitaria, ma anche considerando solo i dati del PrEP-Point sarebbe interessante ragionarci su questa forma di PEP.

Nella sezione Hiv And Sti Prevention: New Tools Approaches sono stati presentati numerosi studi sia pur non con grandi numeri, i cui risultati vanno tutti nella direzione di un consistente calo di incidenza di IST.

Lo studio più strutturato, anche se open label, è quello presentato da Molina, il papà della PrEP francese ricercatore principale dello studio Ipergay che ha portato la PrEP on demand nelle nostre case.
Gli studi sostanzialmente convergono sulla concentrazione efficiente e persistente della doxy nelle mucose, in particolare quelle rettali (il che spiega l’efficacia osservata negli MSM, dice la ricercatrice con un tono più vicino all’invidia che alla sorpresa) quindi per funzionare funziona ma ci sono ancora perplessità rispetto al dosaggio e, soprattutto sulla possibilità di creare ceppi resistenti.

Tornando a Molina e il suo studio “Doxyvac”, che è particolare perché i partecipanti – tutti MSM – sono stati inizialmente divisi in 4 gruppi: 1 gruppo con DoxyPEP e uno senza, un gruppo con il vaccino contro meningite B e uno senza, il tutto con numeri consistenti (fra i 170 e i 330 arruolati a seconda dei bracci di sperimentazione). I dati sono molto buoni in particolare su clamidia e sifilide che hanno visto un calo di incidenza fino all’80%, ma anche su gonorrea 55% direi che non ci possiamo lamentare. L’evidenza sostenuta da questi dati ha convinto l’organo di controllo dello studio a fermare l’arruolamento di nuovi partecipanti e a offrire a tutti doxypep e il vaccino.
Come “nota di colore” chiudo con un commento, fra le varie slide che sono state presentate, una che mi ha molto divertito riguarda la valutazione sulle variazioni dei comportamenti sessuali, il sexual behaviour, dei ragazzi gay del campione: nessuno. Come potete vedere dall’immagine, al netto che i ragazzi fossero in doxypep o no, fossero vaccinati o no, non si sono registrate variazioni, il che la dice lunga sulla necessità di questo genere di pep nel campione preso in esame.

Sexual behaviour

Le conclusioni di Molina sono chiare:

  • la pep con doxy è ben tollerata e vede un alto tasso di aderenza;
  • i dati mostrano un consistente calo nell’incidenza di IST negli MSM;
  • il vaccino 4CmenB ha ridotto l’incidenza di un primo episodio di NG fra gli MSM arruolati;
  • in corso la valutazione del pieno impatto sulla resistenza agli antibiotici (IST, microbioma).

Ovvio che la bacchetta magica non ce l’ha nessuno ma potrebbe essere sulla carta utile un approccio combinato.

Rispetto al tema delle resistenze gli studi non hanno sottolineato ma sembra evidente che serviranno studi mirati di più lunga durata per valutare se questo problema sulla carta consistente si può considerare superato o superabile e comunque credo che sia meglio attendere i dati sulle resistenze dello studio di Molina che mi è sembrato il meglio strutturato.

Sandro Mattioli
Plus aps