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No, una persona in PrEP non può trasmettere l’HIV. La PrEP impedisce infatti che il virus entri nel corpo e si diffonda. Prima di prescriverla , l’infettivologo/a verifica che la persona sia HIV negativa e solo allora firma la prescrizione.

Come tutti i farmaci, la PrEP protegge dall’HIV solo funziona se assunta correttamente. In Italia nel 2022 ci sono stati solo 4 diagnosi di HIV durante l’assunzione della PrEP e tutte dovute a una scarsa aderenza. Questo significa che non era stata assunta correttamente.

Ma forse la domanda giusta da porci non è se chi è in PrEP può trasmettere l’HIV.

Per proteggerci dall’HIV con tranquillità forse ha più senso chiederci:

  • Perché affidare a un’altra persona la garanzia della nostra salute? Perché aspettarci che sia l’altra persona a tuterlarci quando possiamo noi in prima persone decidere di proteggerci dall’HIV usando solo la PrEP, solo il preservativo o entrambi?
  • Perché aspettarci che sia l’altra persona a tuterlarci sopratuttto adesso che è gratis

Se vuoi avere il controllo della tua salute sessuale, puoi valutare le seguenti cose:

  • di iniziare la PrEP così da non dover neppure chiedere all’altra persona se è in PrEP, se è;
  • fare sesso solo con persone che hai …

Oggi è l’ultimo giorno di conferenza. Mi sembra che sia piaciuta un po’ a tutti gli italiani con cui ho parlato, sia clinici che attivisti, e in effetti condivido. Si nota che sono lontani i fasti di un tempo, il calo degli investimenti ha colpito anche HIV Glasgow, ma i contenuti non sono stati affatto male.

L’ultima giornata inizia con la relazione di EACS (European AIDS Clinical Society) che, fra le altre cose, si occupa delle linee guida europee per tutto ciò che ha a che fare con HIV, anche in senso lato. Sono uscite le nuove linee guida del 2024 e giustamente ci hanno fatto una plenaria. Se ricordo bene, le linee guida italiane sono ferme al 2017, tanto per darvi un’idea del livello…

Ovviamente non starò a dare una completa descrizione di ogni singola modifica, ma una descrizione di carattere generale ci sta, partendo dal fatto che io penso che ogni attivista, se non addirittura ogni persona con HIV che ci tenga al proprio stato di salute, dovrebbe interessarsi anche a queste cose. Le linee guida EACS sono fatte da un gruppo di esperti divisi in 6 settori:

ART (antiretroviral therapy)
DDIs (Drug-Drug Interaction… drug sta per farmaci)
Epatiti
OI (Opportunistic Infections)
Co-morbidità
HIV pediatrico

Screenshot

Si trovano solo online, l’opuscolo non viene più stampato dal 2019. Rispetto alle modifica, come ho scritto, solo alcuni spunti:
• Qualora le persone in PrEP con cabotegravir falliscano (e quindi diventino HIV+) le linee suggeriscono di iniziare subito un trattamento con DRV/b – ossia darunavir con buster – in attesa del test di resistenza.
• In caso di fallimento virologico, quando non è possibile costruire una terapia con 2/3 farmaci solitamente usati, le linee suggeriscono di tentare con farmaci con un meccanismo di azione diverso ed ecco che è stato inserito il lenacapavir.
• Per quanto riguarda la PrEP: il test HIV di quarta generazione negativo documentato può essere effettuato una settimana prima o il giorno stesso in cui si inizia la PrEP
• In tutte le popolazioni e qualunque sia il regime, la PrEP orale dovrebbe iniziare con 2 pillole
• Per gli uomini che assumono PrEP on demand, la bassa aderenza che porta alla PEP è stata modificata in non conformità allo schema 2-1-1
• Fra i benefici della Doxy-PEP il riferimento alla prevenzione delle infezioni gonococciche (gonorrea) è stato eliminato
• Seguendo le indicazioni di OMS e EMA, le persone con HIV dovrebbero ricevere la vaccinazione anti SARS-CoV-2 (il virus del covid) aggiornato contro le varianti circolanti

Con il generale successo della ART, c’è molto interesse per la gestione delle co-morbidità e dell’invecchiamento. Per cui EACS ha scritto raccomandazioni anche su questo. Per esempio, screening sul cancro anale sono raccomandati nelle persone:

  • MSM e donne trans di età >35 anni (e non barate)
  • Uomini cis e donne cis di età >45 anni

da farsi con intervalli di 1 o 2 anni se gli esami sierologici e la citologia sono negativi. In caso di esami positivi si dovrebbe fare una anoscopia ad alta risoluzione.

Anche il Chemsex ha trovato spazio in una nuova sezione nella quale, a dire la verità, un po’ si nota approccio medico. La relatrice ci spiega che il Chemsex consiste nell’uso di sostanze di sintesi, principalmente metanfetamine, catinoni, GHB/GBL, per ridurre le inibizioni e aumentare il piacere sessuale. Si stima una prevalenza del 16% negli MSM in Europa ed è associato con sesso non protetto e con un alto numero di partner.
Le linee suggeriscono screening quantomeno per le popolazioni ad alto rischio:
• GBMSM
• sex worker
• persone con un uso problematico di alcol
• persone che fanno uso di droghe ricreazionali
quando si valuta la prontezza all’inizio e al mantenimento dell’ART e in caso di problemi cognitivi. Lo screening consiste in primo luogo in una serie di domande, quali:
• consumi sempre sostanze prima o durante i rapporti sessuali?
• Negli ultimi 3 mesi quanto spesso hai usato chem
• Quanto spesso l’uso di chem ti ha portato ad affrontare problemi di salute, sociali, legali o finanziari?
• Hai mai provato a smettere e hai fallito?
E così via… mah… non è proprio il mio campo di azione ma penso che una politica anche sanitaria di questo tipo finisce per non avere persone che si rivolgono al medico, mentre una politica mirata all’uso consapevole potrebbe avere più successo.
A ogni risposta viene attribuito un punteggio, uno score, e si procede come segue:
• 0-3 nessun intervento
• 4-26 intervento soft
• 27+ trattamento intensivo/ invio all’unità per le dipendenze (che da noi penso sia il SERD)
Ci sono anche nuove disposizioni rispetto all’uso di statine nelle persone con HIV, che restano sempre molto raccomandate.
EACS supporta con decisione coinvolgimento delle persone assistite nel processo decisionale condiviso.

A seguire relazione su uno studio sugli inibitori dei checkpoint, me la sarei mai potuta perdere? Sta a vedere che USL Bologna ha trovato un altro escamotage per mettere i bastoni fra le ruote.
Invece no, si tratta di una forma di immunoterapia contro il cancro. Bene che sia stata studiata su persone con HIV. Al netto del funzionamento specifico contro il cancro, secondo lo studio questa immunoterapia non impatta sul controllo di HIV, sulla replicazione virale né sulla conta dei CD4.

Ci sarebbero altri studi presentati in plenaria ma diventerebbe molto lungo per cui soprassiedo.

Solo vi do rapidamente conto della lettura finale di Linda-Gail Bekker del centro Desmond Tutu la cui relazione su PREP sembra una provocazione per l’Italia già dal titolo: PrEPping for the Future: The era of choice… quale scelta? In Italia c’è 1 farmaco per la PrEP, se sei allergico, intollerante, ecc. ti attacchi al tram. Comunque sia…

La Bekker parte in quarta con i risultati degli studi di Gilead su lenacapavir come PrEP, Purpose 1 e 2 rispettivamente su donne in Africa e – udite, udite – su uomini giovani, persone trans, non binarie. Mai vista una cosa del genere in 40 anni di ricerca. I primi risultati sulle donne sono superlativi: zero infezioni. Quindi? Finito? Parliamo della crisi climatica, ci chiede la Bekker. Ovviamente no. I dati di incidenza di HIV sono ancora impressionanti e allontanano gli obiettivi di UNAIDS per il 2030, e se ci sono ancora così tante nuove diagnosi vuol dire che c’è ancora molto da fare sul piano della prevenzione, a partire dalla possibilità di scegliere quella più adatta alle proprie esigenze. In Italia non è possibile, neppure il TAF (Tenofovir alafenamide) è utilizzabile, e accennare alla PrEP con cabotegravir LA sembra che equivalga a rapinare banca d’Italia, figuriamoci parlare della PrEP con bNAbs (anticorpi neutralizzanti), pensate che per le donne si sta parlando da tempo di unire PrEP e pillola anticoncezionale in una unica formulazione. Fantascienza per la testa degli italiani, oggi poi con i pro vita negli ospedali… oppure è in studio un doccino rettale al tenofovir, provate a immaginare in un Paese delle banane, dove ancora oggi la persona che prende una IST viene colpevolizzata, come e quando AIFA potrà mai approvare queste cose.

Da ultimo ricordo che già a CROI 2024 e anche qui a HIV Glasgow è stato presentato lo studio sugli ultra long acting (studio CAB-ULA) che ViiV sta sviluppando, sempre con cabotegravir, 1 iniezione ogni 4 mesi. Restando sul tema fantascienza, la Bekker cita studi di logistica della PrEP, dove i farmaci vengono portati dal corriere tipo just eat, dal postino, ecc. Mi sembra sufficiente, ho già il fegato che grida vendetta.

Sandro Mattioli
Plus aps

Dopo i poster, la giornata continua con il simposio dal titolo HIV Cure: Where Are We Now?

Quando stavo organizzando le mie giornate sulla base del programma, sono stato molto felice di vedere questo titolo perché sto cercando di far passare anche in Icar il concetto che, come qualunque altro paziente, le persone con HIV hanno il diritto di voler guarire e gli attivisti devono tenere monitorata la situazione relativa ai progressi scientifici, alle difficolta tecniche o economiche relativa alla cura… possibilmente eradicante, voglio dire se sogniamo facciamolo in grande no? Non so se i colleghi delle altre associazioni mi daranno retta, tuttavia io sono convinto che quello della cura sia un obiettivo politico di alto profilo da tenere sempre sullo sfondo. Voi che ne pensate?

Per essere estremamente chiari: al momento non siamo neppure vicini a una cura eradicante, ma quello che non capisco e non capirò mai è perché a tutti i pazienti è concesso di voler guarire, a noi no.
Io non mi rassegno a questo modo di pensare e anzi, come attivista ritengo che l’obiettivo della guarigione deve sempre essere tenuto sullo sfondo. È un obiettivo alto, più politico che scientifico certamente ma deve essere li, visibile e alla portata di tutti.

Porco mondo anche i sogni ci volete togliere? Tenere il fiato sul collo della ricerca, è il nostro lavoro non assecondare frasi che mi hanno detto taluni principi della ricerca italiana: “vuoi vivere per sempre?”, “non abbiamo gli strumenti” ecc. Trovate la via, trovateli gli strumenti, è il vostro lavoro. Il mio è quello di starvi con il fiato sul collo.

Questi sono i concetti che sto provando a far passare fra le associazioni che collaborano alla realizzazione di Icar per tenere un simposio sulla cura ad ogni conferenza.

La lettura in memoria di Lange, viene presentata da Peter Reiss dell’Amsterdam Institute for Globah Health, che parte col “piede giusto” ricordando che già nel 1996 Lange scrisse un articolo dal titolo “Can HIV infection be cured?”. Già allora Lange, pur giustificando l’ottimismo dato dall’arrivo dei nuovi farmaci che hanno salvato la vita a migliaia di persone con HIV, si chiedeva se la soppressione virale prolungata fosse il massimo a cui potevamo aspirare… o magari ci sono possibilità di eradicare completamente HIV dal corpo umano?

Il microfono passa a Linos Vandekerckhove e anche lui parte col piede giusto citando proprio Lange: “Prova a creare, a essere un artista, a sognare. Non rinchiuderti in strutture rigide ma fiorisci nei tuoi sogni più sfrenati”. Frase che trovo meravigliosa. Allora anche lui sognava.

Come è facile immaginare la relazione di Linos è stata complessa e articolata come lo è, del resto il tema. La prima slide del relatore mostra i volti dei 5 pazienti ufficialmente guariti. Lo fa (finalmente) quasi con un po’ di fastidio, evidenziando il fatto che svariate decine di milioni di persone non sono guarite. Ma di cosa abbiamo bisogno per raggiungere l’obiettivo. Linos registra il fatto che grazie alla incredibile crescita tecnologica oggi siamo in grado di vedere i marker infiammatori a livello di singola cellula. Le persone con HIV hanno una infiammazione persistente, anche se trattati molto presto. Siamo in grado di ridurre la carica virale a livelli bassissimi, non rilevabili, ma anche una carica virale residuale raddoppia le possibilità di malattie cardiovascolari al netto dei classici fattori di rischio. Se poi le diagnosi sono tardive – come avviene in Italia in percettuali altissime – i reservoir li troviamo pieni di virus latente. I reservoir hanno una natura “multidimensionale”, secondo il ricercatore, e nel dirlo mostra una immagine, un panorama dei reservoir di HIV che comprende pressoché tutto l’organismo: ci sono i tessuti intestinali, i linfonodi, il fegato, il sistema nervoso, ecc. anche se la maggior parte delle riserve si concentrato nell’intestino e nei linfonodi. La tecnologia ci permette analisi sulle singole cellule, ma questo ci ha permesso di capire che le cellule target di HIV sono un numero elevatissimo, spropositato, e, come se non bastasse, il 95% del virus integrato non è intatto. In altre parole, bisogna inventare un sistema per individuare quel 5% di virus intatto in mezzo a migliaia e migliaia di cellule bersaglio. Quando si dice un ago nel pagliaio. Un pagliaio che non resta sempre uguale a sé stesso ma che, anche grazie all’attività della ARV, si trasforma.

Quindi, in sintesi:

  • Il numero delle cellule CD4 T nel nostro organismo è altissimo
  • Tali cellule sono presenti in molti organi
  • Il numero delle cellule infette è basso; solo il 5% ha un virus intatto
  • Le infezioni si verificano in diverse posizioni nei cromosomi… pure
  • Le cellule infette possono dividersi per mantenere i reservoir
  • Non tutte le particelle virali possono essere facilmente riattivate

Quindi come ci arriviamo a una cura?
La maggior parte degli approcci prevede una combinazione di riduzione dei reservoir (e ritorna il tema delle diagnosi precoci) e potenziamento immunitario (riduzione e controllo), con un crescente interesse per la terapia genica e la cosiddetta “one shot cure”.
La one shot è interessante, se ho capito bene alla “scimmia di Miami” è stata fatta una iniezione di anticorpi monoclonali, la carica virale della scimmia è crollata miseramente e non si è più ripresa da 2 anni. Poi c’è tutto il tema delle cellule CAR-TChimeric Antigen Receptor T cell – sintetizzate con lo scopo di riconoscere i tumori, potrebbero avere un ruolo nella cura contro HIV (chi vuole provare ad approfondire clicchi su car-t oppure anche qui).

Il relatore passa alla sezione What is important for the future? E con la prima slide quadagna 1000 punti. Il titolo della slida recita “How to reach a CURE: the challenges we face”, ma subito compare una X rossa sulla parola we (noi) che viene sostituita con PLWH ossia persone che vivono con HIV. Sono le persone con HIV che davvero affrontano la sfida, non i ricercatori.

Una cosa che non ho detto è che per buona parte delle ricerche di cui sopra, le PLWH devono sospendere la ARV.

Quindi ecco le sfide delle PLWH

  • L’impatto di ripetute ATI (analytical treatment interruptions) sulla salute psicologica e sull’andamento del processo infiammatorio
  • L’impatto di ripetute ATI sull’espansione clonale dei reservoir

ATI che tanno facendo molto discutere soprattutto sul piano etico, tanto è vero che anche IAS quest’anno ha aggiornato le raccomandazioni su questo punto, per altro già previste nel 2019, perché le PLWH che partecipano a questi studi corrono dei rischi potenziali che vanno valutati con equilibrio.

Il relatore suggerisce la creazione di un CAB (Community Advisory Board) in Europa in collaborazione con EATG così come altrove, suggerisce anche una stretta collaborazione fra i diversi Continenti sia in termini di advocacy, che in termini tecnici infatti arriva a suggerire la realizzazione di un network sulla cura in Europa che, mi sembra di capire, stia già preparando con il nome di EU2CURE.

In conclusione

  • Il reservoir di HIV è complesso e evolve sotto ART
  • La riduzione del reservoir dell’HIV dovrebbe essere considerata come un primo passo verso una cura per l’HIV
  • Sarà necessaria una terapia combinata in cui siano coinvolti i “componenti della immune therapy” per ottenere un controllo virale a lungo termine … prepariamoci…
  • Un prerequisito è la stretta collaborazione con i CAB
  • Va affrontato il tema della scarsa connessione tra le regioni più duramente colpite e gli istituti di ricerca

Fiorisci nei tuoi sogni più sfrenati.

Sandro Mattioli
Plus aps

No, non si tratta del poster di Madonna che pressoché tutti gli/le adolescenti aveva in camera qualche decina di anni fa, si tratta di studi i cui abstract sono stati accettati dai reviewer della conferenza.
Stamattina ho deciso di passeggiare fra le file di poster ed estrarne alcuni per voi, in fondo trovate tutte le foto. Inizio con uno studio che mi ha colpito, soprattutto pensando ai nostri utenti in PrEP appassionati di palestra.

Il titolo è Prevalence of the use of sports supplements and illicit drugs for use in gyms in people included in HIV pre‐exposure prophylaxis programmes (Gym‐PrEP cohort). Contrariamente a quanto si poteva pensare, gli AAS (Anabolic Androgenic Steroids) sono usati solo dall’8% del campione (tamoxifen, ormone della crescita, ecc.), mentre la maggior parte del campione utilizza proteine in polvere (78%) o creatina (68%). Tuttavia anche in chi consuma prodotti legali per la palestra si registra un incremento della creatinina nel primo anno di 0,047%. La prevalenza di utilizzo di questi prodotti da palestra è alta negli utenti PrEP e generalmente viene associata a tossicità renale, cosa registriamo anche noi e ci porta a fare counselling mirato.

Sono stati pubblicati anche i risultati dello studio PriDE al quale ha collaborato anche Plus. In sostanza la ricerca esamina la diffusione di PrEP in Italia e giunge alla conclusione che l’implementazione della PrEP da noi è in rapida crescita in 2 Regioni: Lazio e Lombardia. Da sole cubano il 67, 5% delle persone il PrEP. Credo che sia sufficiente per dire che c’è ancora molto lavoro da fare. Purtroppo PrEP in Italia è arrivata con grave e colpevole ritardo rispetto ad altri Paesi e si inserisce in un quadro di ignoranza e disinteresse sul tema HIV.

Lo studio portoghese Does tenofovir disoproxil fumarate/emtricitabine for HIV pre‐exposure prophylaxis induce changes in kidney function in people older than 50 years old? Ci dice che no, nelle persone sopra i 50 la PrEP non disturba il fegato.
Il poster HIV+ donor to positive recipient kidney transplantation, fa il punto su una procedura di cui si parla da tempo ossia il trapianto di fegato fra HIV positivi, che sta avendo un qualche successo. Lo studio è spagnolo e l’obiettivo dichiarato consiste nel cercare di cambiare la legge sulle donazioni.

Lo studio T‐cell homeostasis and microbial translocation in PLWH switching from triple to dual INSTI‐based combination antiretroviral therapy (cART), dell’Università di Milano, indaga come si comportano le cellule T e cosa accade con la traslocazione microbica nelle persone con HIV che passato dalla triplice alla terapia a 2 farmaci. Lo switch da 3 a 2 farmaci sembra migliorare l’omeostasi delle cellule T, grazie all’incremento delle cellule memory e alla riduzione dell’attivazione delle T. Quanto duri nel tempo l’omeostasi è tutto da studiare. Per altro non si sono notati cambiamenti a livello di marker infiammatori intestinali suggeriscono pochi o nessun effetto della dual nella permeabilità gastrointestinale.

Lo studio spagnolo Safety and efficacy of dual doravirine plus lamivudine as a switch strategy in HIV patients with metabolic or renal issues, suggerisce che la terapia con doravirina+lamivudine sia ottimale nelle persone HIV+ con problemi metaboliti o renali per esempio causati da precedenti terapie a base di INSTI (Inibitori dell’Integrase).
Un altro studio spagnolo, Transforming HIV care: intramuscular bimonthly cabotegravir and rilpivirine for transgender people with HIV in Spain (RELATIVITY cohort) fa il punto sulle persone trans con HIV e la terapia long acting iniettiva con cabotegravir e rilpivirina. Come potere leggere, si tratta di una analisi descrittiva che fa il punto sui successi di questo trattamento nella comunità trans.

Da ultimo vi cito lo studio belga Tracing the evolution of polypharmacy and drug‐drug interactions in people living with HIV, che fa il punto sul fatto che le persone con HIV invecchiano, verosimilmente assumono parecchi farmaci e quindi fa un’analisi sulle possibili interazioni come per esempio l’uso di corticosteroidi o inibitori di pompa insieme alla ARV.

Sandro Mattioli
Plus aps

Anche alla conferenza di Glasgow è stato affrontato il tema dei farmaci iniettivi o non iniettivi a lunga durata. Sono stati presentati alcuni aggiornamenti per il trattamento in persone con viremia soppressa. In effetti ormai diversi studi a livello globale hanno dimostrato che per alcune persone assumere la terapia ogni giorno è un problema. Lo studio “Positive perspective 2” è stato uno dei più grandi studi a livello mondiale su HIV, che ha coinvolto oltre 2.300 persone con HIV maggiorenni, da 25 Paesi. Dallo studio è emerso che il 58% del campione maschera o nasconde l’assunzione della terapia per evitare di rivelare lo stato sierologico; il 58% ritiene che prendere le pillole ogni giorno sia un promemoria del proprio stato sierologico, il 33% si sente stressato o ansioso perché si deve ricordare di prendere le pillole.

Lo so, per qualcuna delle persone veterane della lotta contro HIV potrebbero sembrare sciocchezze, ma non lo sono. Anche chi vi scrive ha provato i long acting iniettivi proprio sulla scorta del pensiero che prendere la pillola tutti i giorni mi ricorda l’HIV. Non sarà una cosa vitale, ma se ci fosse la possibilità di ovviare al problema, perché no?
Poi sono tornato alla terapia orale a causa di un effetto collaterale per me fastidioso, anche se non importante.

Anche io, come la relatrice, penso che cabotegravir+rilpivirina possa aiutare, e lo pensano anche le principali linee guida internazionali che fra il 2020 (IAS) e il 2022 (DHHS) hanno definito i passaggi a questo regime che, come sicuramente ormai saprete, prevede 2 iniezioni ogni 2 mesi ossia 12 iniezioni intramuscolo all’anno (e non 6 come ha scritto la relatrice). Zeri i dubbi sull’efficacia del trattamento, tutti gli studi (Atlas, Carisel, Solar, Cares) hanno avuto risultati simili con efficacia tendenzialmente sopra il 90% con punte del 96% (Cares) e fallimenti virologi molto bassi, tendenzialmente sotto l’1%. Lo studio Cares ha attirato la mia attenzione perché ha arruolato per il 58% donne, si è tenuto in Uganda e Sud Africa, quindi in una situazione di endemia. Ovviamente il 99% erano donne nere, con una media di 8 anni di terapia e tutto con viremia <50. Come d’uso lo studio prevedeva un braccio con ART orale (257) e uno con long acting (255).

Nel braccio con LA solo 2 persone su 255 (0,8%) hanno avuto un fallimento virologico per cui un’alta efficacia e, dai PROs somministrati è emersa una elevata soddisfazione delle pazienti.

È stato presentato anche un piccolo ma interessante studio che ha arruolato 140 adolescenti fra i 12 e i 18 anni, con un peso di almeno 35 Kg, non c’è stato nessun fallimento virologico, la concentrazione del farmaco è risultata simile a quella degli adulti e tutti i 140 arruolati hanno espresso netta preferenza per gli iniettivi LA, rispetto all’assunzione quotidiana.

Inoltre, è stata presentata un’analisi multivariata che ha individuato dei fattori di rischio al basale in grado di predire un fallimento virologico come, per esempio, un alto BMI (indice di massa corporea).
Viene perfino presentato uno studio inglese sulla distribuzione dei LA iniettivi in clinica e presso i centri di comunità (LANA).
Lo stesso tipo di studio che abbiamo cercato di effettuare anche noi di Plus ma che ViiV Italia, con vari espedienti, ha messo nelle condizioni di chiudere prima ancora che partisse, dimostrando poca lungimiranza sugli problemi logistico-organizzativi che gli ospedali affrontano come possono e che i centri community-based sicuramente avrebbero risolto diversamente con felicità dei pazienti e di chi avrebbe potuto incrementare il business, mentre ora piange miseria verosimilmente per aver sovrastimato le potenziali vendite del farmaco LA. I dati raccolti indicano chela distribuzione in un setting di comunità è fattibile, accettabile e appropriata per il 44-47% dei partecipanti. In altre parole avremmo potuto dare una mano ad alleggerire il super lavoro dei centri clinici.

Quindi? Tutto ok? Ovviamente no, occorre proseguire su questa strada perché c’è spazio di miglioramento, per esempio:
• Una agevole autosomministrazione a casa
• Ridurre il numero di iniezioni
• Maggiori indicazioni sui pazienti con viremia (barriera genetica più alta).

In effetti quanto sopra è stato studiato su pazienti undetectable. Che succede a chi ha la viremia >50? Ne ha parlato la relatrice Monica Gandhi della UCSF che ha iniziato analizzando quali sono le sfide relative all’aderenza terapeutica (si perché nelle conferenze sono ancora tutti convinti che i long acting vengono dati a chi è poco aderente, non come da noi che vengono dati solo a chi è super aderente, nel senso che arriva puntuale alla visita) e perché alcuni pazienti vanno incontro al fallimento virologico. Ovviamente le terapie funzionano se assunte e pure correttamente, tutte, anche la ART.
Dunque quali sono i fattori che espongono al rischio di fallimento virologico?
• Dimenticare di prendere le pillole
• Essere lontano da casa
• Cambiamenti nella routine quotidiana
• Depressione
• Abuso di alcol/sostanze
• Stigma
• Sentirsi male
• Lontananza dalla clinica
• Scorte esaurite
Ma possiamo aggiungere barriere strutturali come la non fissa dimora o instabilità abitativa, la povertà, l’accesso ai trasporti. Sta di fatto che ogni 100 persone diagnosticate nel 2022 negli USA, solo il 65% è ancora undetectable.

A livello mondiale, il 79% degli adulti resta soppresso a 1 anno, dato che scende al 65% a tre anni. Nei bambini/adolescenti in ART, il 36% di soppressi dopo 1 anno, 24% a 3 anni (HAN, Lancet HIV 2021).
A questo si aggiungono i dati di UNAIDS del 2024 che non sono buoni e portano a chiedersi se gli obiettivi per il 2030 siano realistici:
• 39,9 milioni di persone con HIV, la Russia non comprare nel dato per cui verosimilmente sono oltre 40 milioni
• 1,3 milioni di nuove diagnosi lo scorso anno, lo stesso numero del 2022
• 630.000 morti lo scorso anno, stesso dato del 2022
• 43,3 milioni i morti dall’inizio dell’epidemia e 88,4 milioni di infezioni
• Solo il 77% è in ART, il 72% undetectable
Stigma, incremento del sentimento anti-LGBTQ, perdita dell’8% nei finanziamenti dal 2020-23 giocano un ruolo.


In questo quadro i Long Acting potrebbero dare una mano con l’aderenza e sarebbero una sfida anche in altri campi come il trattamento delle patologie psichiatriche (il trattamento antipsicotico nei pazienti con schizofrenia), nella contraccezione (contraccezione long acting… altra cosa che in Italia la vedrei facile) o il naltrexone long acting per la dipendenza dall’alcol.
Chissà, magari fare rete per un obiettivo comune è chiedere molto mi rendo conto.
Tornando ai long acting per HIV, ormai ci sono dati consolidati sulla efficacia, tutti gli studi confermano valori molto bassi di fallimento virologico ma pressoché tutti rimandano che quei pochi sviluppano resistenze. Per fare un esempio, lo studio ATLAS riporta che su 522 pazienti, alla settimana 152 “solo” 12, il 2,3% ha fallito la terapia, ma di questi 11 hanno sviluppato resistenze al farmaco.
Invece il famoso lenacapavir di Gilead è stato valutato nello studio CAPELLA per quanto riguarda efficacia e sicurezza. Si tratta sempre di LA iniettivo sottocutaneo in paziente viremici, multi trattati, con numerose resistenze… come dire, nella disperazione proviamo anche quello nuovo. I dati non sono definitivi (settimana 104) ma sembra che il farmaco se la stia cavando bene anche in presenza di mutazioni.

Si è parlato dello studio ARTISTRY-1 che mette insieme bictegravir e lenacapavir in pillole su persone con viremia >50 che sembra stia funzionando, anche se è ancora presto per dirlo con certezza, ma che da un senso all’ipotesi di una combinazione di lenacapavir e cabotegravir… figuriamoci! Sono farmaci di 2 imprese strenuamente concorrenti, riusciranno mai a trovare un equilibrio per il bene dei pazienti?

Tuttavia la cosa intriga, la dott.ssa Gandhi di cui sopra, ma messo insieme questa “case series” di pazienti che usano una combinazione di lenacapavir e cabotegravir long acting e, naturalmente, ne ha fatto una pubblicazione con l’idea di stimolare la nascita di uno studio con particolare riguardo a chi ha una resistenza agli NNRTI. Speriamo bene anzi a dire il vero qualcosa si sta muovendo perché la Gandhi ha annunciato che lo studio ACTG A5431 sui due long acting sia stato finalmente approvato. Ovviamente è solo un piccolo studio su 38 persone che devono essere

• viremiche
• resistenti agli NNRTI
• con problemi di aderenza con la ART orale.

La speranza è che lo studio ACTG apra le porte a un grande trial.
Chiudo citando che anche le pillole stanno reagendo allo strapotere dei LA iniettivi. Sta arrivano la pillola da una volta a settimana con islatravir e lenacapavir per ora in pazienti undetectable, siamo ancora alla fase di studio sull’efficacia e la sicurezza ma sembra che si stia comportando bene.

Sandro Mattioli
Plus aps

No, non è che nella città scozzese c’è più HIV (sicuramente ci sono bovini pelosi), si tratta della conferenza sui farmaci che si tiene a Glasgow ogni 2 anni (sic).

Non è esattamente il luogo più centrale al mondo, fra andare e tornare perderò 4 aerei. Tuttavia è una conferenza internazionale importante e vale sempre la pena di andarci.
Non la frequentavo da prima del Covid, ma devo dire che il centro congressi a forma di armadillo non ha perso il suo fascino.

Come cerco sempre di fare, sono arrivato in tempo per l’inaugurazione ufficiale. Di solito è una plenaria dove, oltre ai saluti istituzionali, con gli interventi scientifici si delineano le linee di indirizzo della conferenza, in pratica ciò che viene ritenuto centrale. Quest’anno l’inaugurazione si è concentrata non già su questo o quel farmaco, ma su qualcosa che limita l’efficacia dei farmaci e lascia spazi di azione a HIV: la discriminazione. Strano vero? Una conferenza scientifica che lascia lo spazio principale a una cosa che passa sotto il microscopio.

Ma andiamo per gradi. La prima cosa che ho fatto, subito dopo la registrazione (senza la quale le guardie non ti fanno entrare) è stato appendere il nostro poster (e fare subito un selfie). E’ curioso come a Icar questo piccolo studio sia entrato per il rotto della cuffia, invece in questa conferenza globale sia stato accettato senza problemi… mah… Lo studio ha cercato di capire il parere delle PLWH in terapia con i long acting iniettivi. Sarà interessante riprendere lo stesso studio fra un paio d’anni quando, verosimilmente, ci saranno più persone che usano quel trattamento.
Numerose imprese stanno disinvestendo su HIV per cui anche in questa conferenza si nota un clima di maggiore povertà rispetto al passato, tuttavia i partecipanti sono oltre 2.300 da 93 Paesi, il 79% di persona, 191 scholarship (fra cui la mia), 388 abstract accettati. I focus della conferenza sono molteplici e vanno dalle sfide sociali come lo stigma, alla ricerca scientifica di avanguardia e le applicazioni cliniche, alle responsabilità sociali come l’etica nella ricerca.

C’è anche una breve relazione via remoto sulla situazione relativa all’Mpox… si quello su cui il Ministero non sembra aver interesse e localmente c’è chi scarica la “colpa” sui pazienti. Come ricorderete lo scorso agosto l’OMS ha dichiarato lo stato di emergenza su questo virus che, per ora, sembra concentrarsi soprattutto sul Congo, ma si sta rapidamente diffondendo nei Paesi limitrofi. Circa il 50% delle persone contagiate è HIV+. Casi sono stati individuati in Nigeria, Uganda perfino Kenya. Nonostante in Italia qualche imbecille di twitter scriva che è in Africa chi se ne frega, è proprio li (dove ci sono 13.000 casi confermati) che va bloccato e benissimo ha fatto l’OMS che, con la sua dichiarazione, implicitamente dice che le epidemie vanno bloccate prima che arrivino in Occidente e che le persone che muoiono grazie a questo nuovo sottotipo sono persone e hanno valore tanto quanto un europeo.

In merito allo stigma, la relazione più interessante riguarda lo studio condotto da ECDC su HIV-related stigma and discrimination in the healthcare setting in Europe and Central Asia (ancora non mi è chiaro perché per la sanità mondiale l’asia centrale viene associata all’Europa, ma è così).

Spesso ci lamentiamo di commenti o atteggiamenti poco professionali dei nostri sanitari, ma vi farà piacere sapere che siamo in linea con il resto d’Europa… mal comune doppia sfiga si potrebbe dire.

Incominciamo col dire che in Europa vivono con HIV 2,3 milioni di persone, di cui 1,4 in Russia e Europa Orientale dove, com’è noto, ci sono solo casi fra eterosessuali perché gli omosessuali o non ci sono o sono perseguitati. Già mi vedo la faccina felice di HIV, libero di agire grazie all’ottusa ignoranza ideologica di 4 governanti.
Lo studio è andato a misurare lo stigma sia nella community che fra i sanitari.

Le domande sono quelle a cui abbiamo risposte diverse volte anche in Italia. Dal 22 al 30% dei rispondenti non hanno detto a nessuno (familiari, amici, partner sessuali) di essere HIV+. Il 45% dichiara di aver subito stigma dai sanitari e il 68% ha rinunciato a dei trattamenti per timore di essere discriminato.

Fra i sanitari la situazione è ancora più incredibile. La commissione che ha analizzato i risultati, era composta da professionisti sanitari e attivisti PLWH. Due terzi dei rispondenti sono donne, quasi il 50% medici, il 20% infermieri, più altre professioni sanitarie. Le domande sulla conoscenza di HIV si sono concentrate su U=U, PEP e PrEP con risultati interessanti. Il 48% non ha nessuna o bassa familiarità con i temi. Il 38% ha conoscenze non corrette di U=U, il 44% su PEP e ben il 59%su PrEP. Ma se esaminiamo le conoscenze corrette fra medici, vediamo che il 69% sa di cosa parla su U=U, il dato va al 67% su PEP e crolla al 49% su PrEP (che è studiata da oltre 10 anni). Le altre professioni sanitarie mediamente vanno peggio. In Europa Occidentale, area a cui per ECDC appartiene anche l’Italia per motivi misteriosi, la situazione è leggermente migliore fra i medici: 72% di conoscenze corrette su U=U, 63% su PEP, 54% su PrEP. Un po’ meglio ma sono comunque valori scandalosamente bassi e in questo credo che aver tenuto per decenni HIV chiuso a chiave nei sancta sanctorum dei reparti di malattie infettive sia stata una scelta tutt’altro che lungimirante.

Ma non finisce qua: c’è ancora un alto livello di timore, 53%, nel trattare pazienti con HIV, e se il 70% degli studenti ha paura (non posso fare a meno di chiedermi cosa viene loro insegnato), il 49% degli infermieri hanno timore nel prendere sangue o trattare ferite: il 26% ritiene giusto indossare 2 guanti. Siamo al ridicolo sia professionalmente che scientificamente. Ma non è tutto! C’è ancora personale sanitario che preferisce non trattare pazienti trans (15%), sex worker (15%), MSM (14%), IDU (25%) a prescindere dallo stato sierologico. Fra le ragioni che motivano queste posizioni ci sono ovviamente la mancanza di formazione, ma c’è chi crede che tali gruppi di popolazione siano pericolosi per la salute del sanitario.

Le conclusioni sono abbastanza ovvie:

  1. È evidente che le PLWHIV temono di essere trattate in modo diverso nei centri clinici. Come risultato tendono ad evitare i servizi sanitari;
  2. C’è un gap di conoscenza fra gli operatori sanitari su U=U, PEP e PrEP
  3. Più è basso il livello di conoscenza più è alto il timore nel trattare le PLHIV e si alza il bisogno di precauzioni eccessive quanto inutili;
  4. Una percentuale notevole di operatori sanitari preferisce non fornire assistenza sanitaria alle popolazioni chiave, soprattutto IDU.

Si tratta di uno studio molto importante perché ci fornisce dati su cui basare le nostre strategie per combattere la discriminazione e l’ignoranza che la supporta.

Sandro Mattioli
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