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croi2015_w280x100Il CROI, Conference on Retrovirus and Opportunistic Infection, quest’anno la IAS-USA l’ha organizzato a Seattle, ed io ho avuto l’opportunità di partecipare alla conferenza grazie ad AbbVie.
Tecnicamente la conferenza non è ancora incominciata, infatti aprirà ufficialmente fra qualche ora, tuttavia stamattina ho partecipato ad un workshop sulla prevenzione.
La “ballroom” del Convention Center dove si svolge la conferenza, era piena di studenti e giovani ricercatori ai quali erano state riservate le prime file. Un battaglione di giovani di belle speranze, ossia il futuro della lotta contro HIV.
Non ho potuto fare a meno di pensare all’appello che venne fatto alla conferenza mondiale aids di Città del Messico, affinché tutti i giovani ricercatori concentrassero le loro menti fresche su HIV.
Accidenti come obbediscono gli USA!
Di fatto si è trattato di lezioni ma decisamente avanzate.
Non la faccio lunga e vado direttamente al workshop che ho trovato più interessante, ossia quello tenuto da Susan Buchbinder del Dipartimento di Salute Pubblica di San Francisco, California.
IMG_3709La presentazione della Buchbinder aveva un titolo emblematico “HIV Prevention 2.0: What’s next?”.
Quindi non solo c’è una prevenzione 2.0, ossia avanzata, ma c’è pure dell’altro? Lo sanno i medici italiani e, soprattutto, gli attivisti MSM italiani?
Già la prima slide pone quelle che saranno le domande centrali in questa conferenza almeno per quanto riguarda la prevenzione: come costruire sui primi successi degli interventi biomedicali per incrementarne l’impatto e l’efficacia?
La dottoressa presenta come ormai “old” i pilastri della prevenzione che abbiamo utilizzato e sui quali abbiamo spinto dal 1981 fino al 2010: Campagne sulla salute (la Buchbinder ha scritto campagne pubbliche ma lei è statunitense e se lo può permettere diversamente da noi), i test su HIV, i condom.
La dottoressa chiarisce subito che questi interventi biomedicali hanno svolto un ottimo lavoro con un grafico che mostra il crollo delle stime di nuove diagnosi negli USA dal 1980 al 2010 (ovviamente anche grazie all’introduzione delle terapie).
Eppure ora siamo nelle condizioni di far meglio, e introduce i tre nuovi pilastri della prevenzione che si vanno ad aggiungere ai precedenti:

  • Circoncisione maschile,
  • PrEP (profilassi pre-esposizione),
  • Tasp (Trattamento come prevezione).

La Buchbinder cita è vero la metanalisi del 2014 di Jiang pubblicata da Plos One, ma parla di PrEPIMG_3711 come se fosse ovvio che a) funziona b) è efficace, c) è uno strumento che tutti dovrebbero accettare come tale… illusa.
Quel che è meglio, è che a nessuno dei giovani ricercatori verrà in mente di far domande tese a mettere in discussione l’opportunità di usare la PrEP (non lo sanno in USA che il condom costa meno? Come mai non pensano che chi non lo usa sono cazzi suoi, come nella migliore tradizione cattolica?). Tutte le domande sono centrate sulla durata, sulla frequenza delle assunzioni, ecc.
Le richieste di chiarimento si sono molto più concentrate sul fatto che la circoncisione maschile non mette certo al riparo le donne ma, anche in questo caso, non con l’ottica di negare la possibilità ma per trovare una soluzione.
La Buchbinder, per altro non è impreparata, cita studi sulla durata (494 MACS pts, Pines et al, JAIDS 2014; J. McConnell/AVAC) e spiega che una persona a rischio o un gruppo a rischio non sarà tale per sempre.
Ovviamente, aggiungo io, se verranno prese misure efficaci per far si che ciò avvenga. Incredibilmente la Buchbinder sembra dare per scontato questo pezzo.
Ormai che c’è, ci segnala anche quali sono i gruppi più esposti e, guarda caso, meno raggiunti da campagne ecc. sui quali bisogna agire e mettere in campo anche i nuovi pilastri. Ovviamente cita una ricerca USA ma MSM (maschi che fanno sesso con maschi) bianchi, MSM afro-americani, MSM latino americani sono ai primi tre posti. IMG_3719Poi le donne eterosessuali afro-americane anch’esse con percentuali importanti.
E per chiarire subito la Buchbinder mi cita lo studio di Rosemberg (Lancet 2014) che spiega al mondo come non sono i rischi individuali a creare nuovi positivi, ma i motivi strutturali (accesso al test, stigma e discriminazione, ecc., si infettano di più omosessuali e neri… il dubbio che lo stigma c’entrasse mi era venuto ma sono contento che lo abbia pubblicato Lancet.
Come membro della Commissione Regionale Aids dell’Emilia Romagna ho chiesto che la PrEP venisse messa in ordine del giorno. Per la verità la presidenza mi ha fissato per 5 minuti senza rispondere come se avessi chiesto la ricetta del pan di spagna invece che di trattare un tema sul quale Francia e Regno Unito hanno appena portato a termine due studi.
Spero che anche in Italia si riesca quantomeno a discutere delle esperienze e dei dati degli altri, visto che il cervello medievale che contraddistingue i decisori italiani oggigiorno, non consente di investire in ricerche che possano portare a un calo delle nuove infezioni. Ma questo è il Croi e qui sembra comandare la scienza, l’efficacia e meno l’ignoranza. E’ davvero l’America…(!?). Vi terrò informati.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente

Amiche e amici di Plus,

sexhiv-34-ridcon il finire dell’anno 2014 vogliamo augurarvi feste allegre e piacevoli, ma anche condividere con voi alcune brevi riflessioni su cosa sta accadendo a Plus.

L’anno che sta per finire è stato straordinario: abbiamo realizzato campagneofferto testincontrato personepubblicato ricerche, ma soprattutto abbiamo finalmente firmato l’accordo con il Comune di Bologna e la Azienda sanitaria per aprire il primo Checkpoint italiano. Per la prima volta in Italia ci sarà un luogo gestito dalla comunità LGBT per offrire test, counselling e servizi per la salute sessuale alla comunità LGBT!

Un passo in avanti entusiasmante ed eccitante. E vi vorremmo spiegare perché. Quei – purtroppo pochi – successi che si sono avuti nel cercare di fermare la diffusione dell’HIV negli ultimi 30 anni in tutto il mondo sono legati tutti a una caratteristica: il coinvolgimento nel ruolo di protagonisti delle associazioni. Quando sono le stesse comunità più esposte al rischio dell’infezione che si danno da fare, senza aspettare le rarissime e inutili campagne ministeriali che servono a poco, allora si ottengono risultati reali!

Per questo, vorremmo che tutti noi, persone LGBT, HIV positive oppure no (secondo lo spirito della ultima campagna di Plus, siamo tutti HIV=), considerassimo il Checkpoint di Bologna come una casa comune di cui prenderci cura e da sostenere. Con il Checkpoint abbiamo una opportunità concreta: invertire la tendenza che vede il numero di infezioni da HIV crescere ogni anno nella comunità gay, bisex e trans in Emilia-Romagna, nel Nord Italia e in tutto il paese.

Il nostro obiettivo è rendere il Checkpoint operativo entro la prima metà del 2015: da quel momento tutti potranno accedere facilmente al test a risposta rapida per l’HIV e – speriamo – anche per l’HCV e altre infezioni a trasmissione sessuale. Questo aiuterà le persone ad avere una vita sessuale più soddisfacente e sicura, fermando la diffusione delle infezioni.

Per ottenere questo serve ancora molto: nel breve periodo, Plus è impegnata a cercare i fondi per ristrutturare l’edificio in cui verrà aperto il Checkpoint, a formare gli operatori che lo renderanno vivo, a costruire le relazioni con tutti coloro che aiuteranno il Checkpoint a funzionare. Ognuno di voi può aiutare in questo: serve il contributo di tutta la comunità per fare di questa esperienza un successo clamoroso, da mostrare come esempio a tutta l’Italia. Per questo, vogliamo chiedervi di continuare a sostenere Plus, facendo sentire che anche voi credete in questo progetto come avete fatto finora, allargando la rete di amiciBanchetto RED dell’associazione e – per chi può – contribuendo con una donazione, offrendo il proprio tempo, le proprie idee. A questo proposito, non possiamo non ricordare che i successi di Plus sono stati possibili solo grazie all’impegno di tutti i suoi volontari e al supporto di tanti amici, fra cui il MIT – Movimento di identità transessuale, che ci ospita nella sua sede. A loro va il sentito ringraziamento di tutti noi, con il cuore.

Per tutti, visto che a Natale siamo più buoni, nel caso lo aveste perso di vista, vi ricordiamo l’indirizzo per fare una donazione a Plus su PayPal: non si sa mai…

Mille auguri e a prestissimo con le nostre attività!

Il direttivo di Plus onlus: Sandro, Stefano, Giulio, Michele, Paolo e Roberto.

Glasgow2014La Conferenza di Glasgow, “http://hivglasgow.org/ 2014” anche quest’anno si è tenuta nella splendida cornice dello Scottish Exhibition Centre altrimenti detto “Armadillo” per la sua caratteristica forma. La conferenza ha visto la partecipazione di un folto gruppo di volontari di Plus che hanno potuto partecipare chi grazie alle scholarship, chi ad inviti degli sponsor, chi grazie a un training. Una ricerca di Plus è stata accettata dalla commissione di valutazione, in forma di poster, e quindi pubblicata sul Journal of the International AIDS Society (JIAS). La conferenza quest’anno è stata caratterizzata dalla presenza consistente di scholarship (tra le quali quella di chi scrive) nonostante la crisi, dalla presenza massiccia di EATG in rappresentanza della community, dall’assenza, per fortuna, di incidenti.
Sembra una cosa di poca importanza quella delle scholarship, ma non lo è affatto in quel contesto. Soprattutto per la modalità con cui viene gestita: le persone cui è stata accettata la domanda di scholarship, infatti, devono sottostare ad alcuni obblighi, per altro molto piacevoli, quali un brunchPoster Plus Glasgow 2014 di benvenuto nel quale ci si conosce e nel quale uno dei co-chair della conferenza, Ian Weller padre della conferenza, gira instancabile fra i vari gruppetti che si formano presentandosi, chiedendo informazioni come un qualunque partecipante. Un medico di chiara fama che non se la tira è un evento che vale la pena di evidenziare. La cena delle scholarship a fine conferenza, è un’occasione per chiacchierare fra partecipanti di varie nazioni, scambiare esperienze. Nel mio tavolo in particolare, la lingua ufficiale è immediatamente diventata lo spagnolo: si trattava di un tavolo latino con partecipanti da Cuba, Argentina, Spagna e, ovviamente, Italia.
Una parte importante della conferenza è stata dedicata all’epatite C e, quindi, alle coinfezioni. Devo dire che anche in questo campo il gruppo degli MSM si batte fra i peggiori in termini di dati di incidenza, purtroppo. Il tutto, manco a dirlo, nell’ignoranza generale almeno per quanto riguarda il nostro paese. E’ stato infatti con malcelato stupore e invidia che ho seguito presentazioni dove si definivano le strategie del Regno Unito per contenere l’epidemia. Quindi esiste la possibilità di avere delle strategie?!
Rispetto alle presentazioni ne citerò solo alcune per ovvie ragioni si spazio:
Cingolani Glasgow 2014Antonella Cingolani ha presentato i dati della coorte ICONA sull’aumento dell’incidenza delle malattie a trasmissione sessuale nelle persone con HIV in Italia. Sono state analizzate 9168 persone, un quarto delle quali donne, un terzo MSM (maschi che fanno sesso con maschi). La sifilide ha una prevalenza del 39% ed è la malattia a trasmissione sessuale (MTS) più frequente. I fattori associati a una maggiore frequenza di MTS sono la giovane età, essere MSM. Essere in terapia antiretrovirale, invece, è associato con una minore probabilità di avere MTS.
Molto interessante, soprattutto per noi italiani, è stato constatare come il tema PrEP in conferenza è stato preso in considerazione alla stregua di qualunque altro tema, in termini scientifici, di utilità, di efficacia, ecc. Simon Collins, per esempio, ha parlato di PrEP sul piano delle prospettive della community. Le prime prove su animali dell’efficacia del tenofovir nel prevenire l’infezione da HIV risalgono al 1995. Nel 2002 alla conferenza CROI, qualcuno chiese a Bill Gates se per proteggersi quando faceva sesso con il suo fidanzato sieropositivo avrebbe dovuto prendere dei farmaci. In qualche modo quella domanda lanciò i primi studi, finanziati proprio da Gates, sulla PrEP. Molti pensano che questa strategia sia fomentata dalle industrie, ma non ci sono evidenze: Simon Collins Glasgow 2014ad esempio Gilead non sta facendo nessun marketing della PrEP negli Stati Uniti. Altri ne mettono in dubbio l’efficacia, ma se non bastassero i dati di iPrEx i recenti dati degli studi PROUD e IPERGAY (due studi, rispettivamente UK e Francia, che hanno sperimentato l’assunzione intermittente al contrario di iPrex per il quale l’aderenza stellare era vitale… curioso come britanni e francesi studino invece di chiedere agli “esperti”), smentiscono anche questo. A chi dice che non dovremmo medicalizzare il sesso si può rispondere che la PrEP non è per r tutti, forse ci sarà un 50% di persone che sceglieranno di usarla e solo per un periodo di tempo. Le persone non hanno sempre comportamenti a rischio, i periodi di attività sessuale più intensa e a rischio in genere non durano in eterno, tendenzialmente si cambia. Naturalmente uno strumento come questo si deve dimostrare utile a livello di popolazione, di comunità, non solo personale. Ma è anche vero che bisogna abbandonare la logica del “gruppo a rischio” per concentrarsi su rischio relativo a una situazione: per questo potenziali utenti della PrEP devono valutare tutti gli aspetti della loro vita personale. E’ del tutto evidente, quindi, l’importanza del peer-counselling anche nella gestione della PrEP. Quindi tutto bene? Certo che no, ci sono alcune preoccupazioni che riguardano la sicurezza, possibili pressioni ad esempio sui sex worker perché usino la PrEP invece dei condom, possibili versioni “di strada” del farmaco, ecc. Ma dubbi sull’efficacia, non ne sono emersi e a nessuno è venuto neanche lontanamente in mente di sostenere la stupida tesi che va tanto in voga in Italia, purtroppo anche fra membri del “movimento gay”: il preservativo costa meno.

Numero delle nuove diagnosi di infezione da HIV, per modalità di trasmissione e anno di diagnosi (2010-2012)
Numero delle nuove diagnosi di infezione da HIV, per modalità di trasmissione e anno
di diagnosi (2010-2012)

Anzi, tutto il contrario. A nessuno sfugge il fatto che il preservativo resta il fulcro della prevenzione. Nel contempo a nessuno è sfuggito il dato dell’uso discontinuo del condom e dell’incremento delle nuove diagnosi. Cosa che, ricordo, in Italia è vera soprattutto per il gruppo MSM che nell’ultimo triennio ha visto un incremento del 18% delle nuove diagnosi (cfr http://www.iss.it/ccoa/index.php?lang=1&id=54&tipo=3- pag 5) pur nell’indifferenza generale. Mi ha quindi piacevolmente sorpreso vedere come il primario del reparto malattie infettive di Modena, Cristina Mussini, durante una presentazione di case studies abbia affrontato il tema PrEP con estrema tranquillità come una delle possibilità offerte dalla scienza. Speriamo bene.

Nella sessione sui possibili usi della terapia antiretrovirale a scopo preventivo, è emerso che in alcune paesi l’ampliamento della copertura della terapia ART sulla popolazione HIV+, ha portato non solo a una riduzione della mortalità ma anche a una riduzione della diffusione del virus. L’obiettivo lanciato da UNAIDS è “90-90-90” cioè avere il 90% delle persone HIV+ diagnosticate, 90% dei diagnosticati in terapia e, fra questi, il 90% con viremia non rilevabile. I modelli matematici presentati mostrano una drastica riduzione delle nuove infezioni se si raggiunge questo obiettivo. È un obiettivo ambizioso, “aspirational” come è stato definito. La realtà è che ci sono molte barriere per raggiungerlo e siamo ancora piuttosto lontani. Anche se gli studi dimostrano che la terapia precoce non solo riduce la trasmissione, ma dà anche benefici a livello individuale per la salute della persona, molti paesi, pur avendo adottato le nuove linee guida, ancora iniziano il trattamento piuttosto tardi. A questo si aggiunga che, globalmente parlando, la maggior parte HCV MSM Glasgow 2014delle nuove infezioni vengono da persone inconsapevoli dell’oro stato di sieropositività.
Di cosa abbiamo bisogno per riuscire ad ottenere questi obiettivi? Fondi, ovvio. Serve un investimento speciale all’inizio che sarà poi ripagato perché spenderemo meno in futuro. Come dire che serve volontà e intelligenza politica, capacità di programmazione, ecc. tutta merce rara di questi tempi.
La sessione sull’HCV, epatite C, è stata molto interessante… e preoccupante. Indovinate chi detiene la maglia nera? MSM e drug users. Si è parlato molto di trasmissione di HCV in popolazioni HIV+, ed è emerso con molta chiarezza che sia alcune pratiche sessuali (fisting), sia l’uso di alcune sostanze (GHB) comunque legate al sesso, sono direttamente collegate all’incremento di HCV.

Alain Volny Anne dello European AIDS Treatment Group ha parlato di auto-gestione del paziente e come si possa migliorare. Per autogestione si intende la capacità del paziente di essere un partner che collabora con il medico incorporando interventi cognitivo-comportamentali e di empowerment. Ha introdotto anche il concetto di “paziente stabile” che non è solo quello con carica virale soppressa, ma anche quello capace di ridurre i rischi per la propria salute. È decisamente Volny Glasgow 2014complesso il tema, lo stesso Volny ha mostrato il numero di visite, alto, che ha fatto tra settembre 2013 e giugno 2014, e ha anche ben presente che il 28% delle persone HIV+ soffre di depressione o ha difficili condizioni di vita. I suggerimenti di Alain sono di non abbracciare una sola strategia e di valutare continuamente i bisogni dei pazienti. I programmi di educazione dei pazienti sono importanti così come i miglioramenti nella comunicazione con il medico e la decentralizzazione delle strutture.
Il community advisory board francese, per esempio, ha proposto al ministero della salute di ottimizzare il processo di cura delle persone con HIV riuscendo a organizzare tutte le visite in maniera da renderle più compatibili con i bisogni di vita dei pazienti.
Jens Lundgren di Copenhagen ha analizzato quali sono i bisogni correlati al trattamento HIV e come si può gestirli ottimizzando le risorse. Innanzitutto chiarisce che la cura sanitaria per l’HIV va ben oltre i servizi offerti dalle cliniche, ma coinvolge prevenzione, sostegno sociale, ecc. Ha poi mostrato i dati relativi all’Europa dell’Est dove è in atto una vera esplosione di casi di HIV, infezione che ormai non si trasmette solo tra consumatori di droghe ma anche per altre vie. In questi paesi la ricaduta del trattamento mostra risultati decisamente deludenti. Anche la disponibilità della terapia sostitutiva per le dipendenze da oppiacei non riesce ad espandersi come sarebbe necessario. Serve quindi un approccio dedicato ai consumatori di sostanze per rispondere ai loro peculiari bisogni di salute. Sono stati presentati alcuni modelli che prevedono una cura centralizzata in un unico centro, o diversificata in diversi centri. Anche tra gli MSM la situazione Pipe Glasgow2014non riesce ad essere sotto controllo: l’espansione del trattamento non è tale da riuscire ad abbattere radicalmente il tasso di trasmissione a livello di popolazione, bisognerebbe riuscire ad arrivare all’80% di persone con carica virale non rilevabile per avere una riduzione accettabile del numero di nuove infezioni. Per raggiungere il successo in HIV c’è bisogno di persone con HIV che siano impegnate e visibili, oltre che, ovviamente, di clinici preparati. L’obiettivo finale è di avere una “Stable ART”, condizione in cui le persone stanno stabilmente in terapia con carica virale non rilevabile. I dati mostrano che nell’Europa occidentale circa il 60-80% delle persone in terapia sono stabilmente soppresse ma per mantenere e migliorare questo risultato occorre non compromettere la qualità cura e lavorare su una terapia personalizzata e flessibile. Alcune possibilità possono essere di diversificare la tradizionale visita utilizzando il triage con infermieri specializzati, o cliniche di comunità, oppure la telemedicina per i pazienti più stabili.
Molti carne al fuoco, quindi, molti contenuti importanti che caratterizzano questa conferenza fra più importanti d’Europa e del mondo.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente.

Open Call for Younger Generation – English version below

Qualche giorno fa si è concluso HIV Glasgow Drug Therapy Congress, uno degli appuntamenti più importanti su HIV e terapie antiretrovirali, che ha visto la partecipazione di numerosi medici, ricercatori, scienziati ed attivisti da tutto il mondo.

Ora sono ancora in Scozia, chiuso in una stanzetta, in un appartamento vicino al centro di Edimburgo, ed ho finalmente il tempo per pensarci su.

A Glasgow, prima ancora del congresso, c’è stato il primo modulo di Step-Up EATG Training Academy: una formazione internazionale riservata ad una ventina di giovani attivisti precedentemente selezionati fra circa 270, provenienti da 19 Paesi, dall’Azerbaijan al Portogallo, passando per la Grecia e la Russia. Per l’Italia, ci sono ActUpandato io.

I problemi da affrontare per fermare l’epidemia di HIV sono tanti e si innestano sulle realtà sociali, economiche e culturali più disparate. Tuttavia, una cosa è uguale dappertutto: la discriminazione genera paura, e dalla paura nasce il silenzio. Come abbiamo imparato dagli anni di Act-Up, “Silenzio=Morte“.

Nel nostro Paese lo stigma nei confronti delle persone sieropositive non solo è molto presente, ma spesso è più forte proprio all’interno delle comunità di appartenenza.

Non ho vissuto l’era dell’AIDS, o almeno non da adulto sessualmente attivo. Gli anni ’80 -quelli in cui molti di noi hanno perso compagni, amici, amanti, parenti- sono lontani e fortunatamente le cose stanno cambiando. Tuttavia, prendere le distanze da quel momento storico pare anche voler dire, soprattutto all’interno della nostra sgangherata comunità LGBTQ, prendere pericolose distanze anche da quell’interesse vivo e da quella coesione che hanno alimentato le nostre battaglie di allora, dall’impegno che oggi ci permette di vivere a lungo e bene con HIV.

Io ho quasi trent’anni, e, guardando alla mia generazione, ma soprattutto a quelle successive, vedo il vuoto.

Si può dire, senza il timore di sbagliare, che noi nati negli anni ’80 ci occupiamo poco di HIV. Siamo mediamente disinteressati. E tremendamente ignoranti. La mia generazione sembra pensare che la lotta all’HIV sia semplicemente mettere il preservativo e/o criminalizzare il sesso occasionale, che si tratti di un’infezione che colpisce esclusivamente tossici, puttane e froci. Insomma, una specie di punizione divina che si abbatte su tutti quelli che sono sbagliati, moralmente inaccettabili, lontani da noi e dal nostro perbenismo. Così, le nuove infezioni aumentano, ovviamente il virus non fa discriminazioni, ma il silenzio rimane denso, pesante.

Commetto talvolta l’errore di pensare -mi è capitato molto spesso, in questi giorni, partecipando ai workshop di EATG insieme a tanti altri ragazzi come me- che noi siamo il futuro della nostra società, e che faremo bene, che miglioreremo le cose, un giorno.

Sbagliato: il futuro sono quelli molto più giovani di noi. Noi siamo già il presente ed abbiamo il preciso dovere di darci una mossa, di lavorare per le persone, di impegnarci per un cambiamento culturale profondo che abbia l’immaginario come centro.

Questa battaglia la vinceremo solo se ci rendiamo conto che non sarà unicamente la medicina a Paolo Gorgonisalvarci, che cambiare completamente punto di vista ha una grandissima importanza. Bisogna fare prevenzione, informazione, difendere i diritti di tutti, garantire l’accesso alle terapie. Ma bisogna anche e soprattutto inventare nuovi linguaggi, allargare gli orizzonti, imparare ad includere, a non giudicare, a riflettere in profondità, a mettersi in discussione, ad essere più vicini all’umano, al dolore, alla paura, alla speranza e alla voglia di farcela. Oggi più che mai dobbiamo fare cultura, dobbiamo fare arte, dobbiamo scrivere, dobbiamo cantare, per arrivare domani dove non siamo arrivati fino ad oggi.

Al di fuori della comunità, l’amore delle persone sieropositive piace solo se è drammatico, tormentato, sacrificale.

C’è un morboso attaccamento al feticcio della morte, all’estetica dell’ineluttabile, dello struggimento. Sembriamo non essere capaci di cogliere il cambiamento dei tempi -del resto nel nostro Paese è così un po’ per tutto- e delle dinamiche che si realizzano qui ed ora.

Di tutte le buone novità -dei risultati degli studi scientifici che evidenziano l’efficacia delle terapie nella prevenzione, della possibilità di vivere serenamente relazioni sierodiscordanti (in cui solo uno dei due partner è sieropositivo), di quanto stia diventando semplice testarsi più spesso e più velocemente- non vogliamo sentirne parlare.

Ci basta continuare a trattare l’argomento superficialmente, o non trattarlo affatto, per tenerlo act-up-haringnel suo mondo, quello delle cose che capiteranno sempre agli altri, ma mai a noi.
Il tema HIV/AIDS ci piace solo se continuiamo a riferirci ad un’epoca ormai trascorsa, in cui una diagnosi di sieropositività era una sentenza assoluta, che scivolava poeticamente verso il martirio. Questa forma di discriminazione, subdola e buonista, è la peggiore di tutte, perché si nutre di un pregiudizio compiaciuto e apparentemente legittimato, nascosto senza troppa grazia o furbizia dietro un dito.

Quello che io ho voglia di dire -dal favoloso mondo che sta dietro al mio dito medio perennemente alzato- è: io sono sieropositivo.

Non voglio più avere paura di dirlo.

Dobbiamo farlo tutti, insieme, a gran voce, perché siamo qui, siamo vivi e stiamo bene e non abbiamo bisogno di condurre esistenze sotterranee.

Questa è una chiamata, è un appello, rivolto soprattutto ai miei coetanei ed ai più giovani: lavoriamo duro, incontriamoci, scambiamo opinioni, acculturiamoci, cresciamo insieme.

Ce n’è un gran bisogno e farebbe bene davvero a tutti.

Per quanto mi riguarda, il tempo del mio silenzio è finito oggi.

Paolo Gorgoni
Plus onlus

 

Open Call for Younger Generations

 

A few days ago HIV Glasgow Drug Therapy Congress came to its end. It is one of the most important events about HIV and Anti-Retroviral Therapies, attended by several physicians, researchers, scientists and activists from all over the world. Now I am still in Scotland, stuck in a small room, in a tiny flat close to the centre of Edinburgh, and I can finally think about it.

 

In Glasgow, before the congress, there was the first module of STEP-UP, EATG Training Academy: an international education programme attended by about 20 young activists previously selected among 270 applicants, coming from 19 different countries.

 

I was there as a delegate from Italy.

 

The issues we have to cope with in order to stop the HIV epidemic are many and grafted onto the most disparate social, economic and cultural realities. However, something seems to be the same everywhere: discrimination generates fear, and fear creates silence. As we should have learnt from the early years of Act-Up: “Silence=Death”.

 

In our Italy, stigma against HIV-positive people is not just strong and common: it becomes even more severe among people who belong to the same communities.

 

I haven’t lived through the dawn of the age of AIDS or, at least, not as a sexually active adult. The 80s—when many of us experienced the loss of mates, friends, lovers, and relatives—are far away now and, fortunately, things are changing. However, moving away from that era, especially within our rickety LGBTQ community, seems to mean moving away from the lively engagement and deep cohesion which led us to the victory of most of our battles then, and which now let us live longer and well with HIV.

 

I’m almost 30 and, if I look at my generation and, even more so, at younger ones, what I see is VOID.

 

We can say, with no fear of being wrong, that we—those of us who were born in the ’80s—take a very little interest in HIV. We are basically uninterested. And freaking ignorant. My generation seems to believe that fighting HIV is just wearing a condom and/or criminalizing people who don’t and casual sex in general; we seem to believe that the infection targets exclusively whores, fags and drug users. It is seen as a sort of divine punishment for all those who are wrong, morally unacceptable, far from us and from our so-called “respectability”. So, new infections rise. Of course, this virus makes no discrimination, but silence remains heavy, dense.

 

Sometimes I make the mistake—actually, it happened a lot in these past few days, while I was attending EATG’s workshops with many brilliant young colleagues—of thinking that we are the future of our society, that we will do it well, that we will improve the situation, one day.

 

WRONG! The future is made of people who are still way younger than us. We are the present, and we have the clear obligation to get a move on, to work for people, to be engaged in a deep cultural change that has its focus in the personal imagery. Now.

 

We will win this battle only if we realize that drugs are not the salvation (even though they are crucial) and that a radical change in our point of view is extremely important. Prevention is needed and so is good information, the defence of everybody’s rights, the universal access to therapies. But we also need to be closer to the human beings, to their sorrow, to their fears, to their hopes, to their will to succeed.

 

Today, more than ever, we must produce art, we must write, we must speak, we must sing, in order to reach tomorrow those goals we haven’t achieved yet.

 

Outside the community, the love of people with HIV is appreciated and considered only if it is dramatic, tormented, sacrificial.

 

There is a morbid attachment to the fetish of death, to the unhealthy aesthetic of the ineluctable, of the yearning.

 

Apparently, we are not ready to take in the ongoing mutations—actually, in our country, everything works this way—to realize what is happening here and now.

 

There is plenty of good news: the results of scientific studies showing how effective new drugs are as a tool for prevention (so-called PrEP), the chance to live peacefully and safely in a serodiscordant relationship (where only one of the partners is HIV positive), the opportunity of getting easier and faster HIV testing. But we don’t really want to hear about.

 

We’d rather keep on covering these topics superficially, or ignoring them, to keep them in their own secret world, as one of the bad things that can happen to somebody else but NEVER EVER to us.

 

We like the HIV/AIDS issue if we are still allowed to refer to a past age, in which a diagnosis was an absolute sentence, poetically gliding to martyrdom.

 

This form of discrimination, subtle and do-gooder, is the worst because it’s fed by a self-satisfied (and apparently legitimate) prejudice, hidden with no grace or foxiness behind a finger.

 

What I long to say—from the fabulous world existing behind my constantly raised middle finger—is: I am HIV positive.

 

I will no longer be afraid of saying this.

 

We all should do it, together, out loud, because we are here, we are alive, we feel good and we don’t need to lead our lives underground.

 

This is an open call, an appeal, addressed to my peers and, overall, to younger people: let’s work hard, let’s meet, let’s exchange ideas and opinions, let’s educate ourselves, let’s grow old together.

 

There is a big need of this, and it would be good for all of us.

 

As for me, the time of silence is over, today.

 

Paolo Gorgoni

 

Silenzio = Discriminazione

Nel corso di questo mese Plus ha dato voce al blogger Mark S. King, che con la sua prosa accattivante e provocatoria ha messo qualche puntino sulle i.

Mark ha spiegato ai sieronegativi cosa significa, oggi, vivere con hiv, ha tracciato la linea che separa il rischio teorico dal rischio effettivo, ha parlato di bareback in maniera schietta e amorale e ha tentato, infine, di individuare in un film porno del 2004 l’inizio della moda del sesso senza preservativo, dandone un’interpretazione basata sui fatti.

Sulla medesima linea d’onda, fattuale e non ideologica (né tanto meno moralistica) ci sembra necessario concludere questo «settembre antistigma» con alcune considerazioni stringenti.

A cominciare dal ruolo del preservativo, che resta imprescindibile ma va ricontestualizzato. Il condom è una sine qua non valida per tutti, negativi e positivi, poiché è l’unico scudo utile ad arginare le infezioni sessualmente trasmissibili, da quelle croniche a quelle passeggere che possono comunque fiaccare il sistema immunitario e agevolare l’hiv. Oltretutto, la legge italiana non ha ancora recepito lo status «undetectable» (la non contagiosità di chi ha la viremia non rilevabile) che riguarda l’80% delle persone sieropositive diagnosticate nel nostro Paese, e questo va sempre tenuto presente in caso di incontri «sierodiscordanti».

Poi ci sono altri dati di realtà, a cominciare dalle idiosincrasie che da sempre, hiv o non hiv, penalizzano l’uso del condom. Motivo per cui è ora di riconoscere lo status di safer sex anche ad altri strumenti, a cominciare dalla TasP, vale a dire la terapia come prevenzione, i cui effetti succitati in tema di viremia stanno trovando conferma grazie allo studio Partner.

È importante sottolineare come le condizioni di successo della TasP siano piuttosto severe (a tale proposito, date un’occhiata al vademecum Sesso Gay Positivo) e per stare sul sicuro, anche alla luce di altri infezioni come la sifilide e l’epatite C – sempre più presente tra gli MSM – si ritorna giocoforza al buon vecchio profilattico. D’altro canto, nella realtà dei fatti vi è uno scarto sostanziale tra adoperare uno strumento, per l’appunto, artigianale e poco amato, e ricorrere a una protezione 24/7 come quella offerta da una terapia in pillole.

Sulla convenienza e la sostenibilità della PreP, cioè la terapia antiretrovirale preventiva a mezzo Truvada©, il dibattito è ancora apertissimo. Gli aspetti di ordine medico – aderenza, effetti collaterali – vanno soppesati insieme a quelli economici, ovvero il costo ancora abnorme di queste medicine, e il freno globale costituito dai brevetti.

Nel frattempo, per le persone sieropositive la battaglia continua giorno dopo giorno, ed è una battaglia soprattutto sociale e culturale. Sociale, perché l’hiv è un’infezione contagiosa che interessa quella sfera delicatissima dell’interazione umana che è il sesso. Culturale, perché se l’ambito medico resta opaco e inaccessibile ai più, il tema dello stigma è a portata di tutti. Ed è su questo tema che Plus ha deciso di focalizzarsi grazie agli articoli di Mark.

In cima alla lista c’è il disinnesco di un’immagine deflagrante, oltre che sbagliata: la persona sieropositiva contagiosa, disperata e inaffidabile. A ben vedere, il rischio reale di nuove infezioni riguarda in primis le persone in sieroconversione, cioè fresche di contagio e nella massima parte dei casi all’oscuro della cosa, e in seconda battuta quelle che non solo non lo sanno, ma non fanno nemmeno regolarmente il test. Una persona diagnosticata, al corrente del proprio stato sierologico e seguita da un medico, non è quasi mai un pericolo – e una volta entrata in terapia non lo è al cento per cento.

Persino le coinfezioni o le altre cause dei cosiddetti blip virali (l’improvviso aumento della viremia nelle persone in cura, o la differenza tra virus nel sangue e nello sperma) non escono dal recinto del rischio irrisorio e residuale, per quanto possano rappresentare un problema per la salute del diretto interessato.

Da questo punto di vista, il salto copernicano che va introdotto nella concezione stessa del profilattico è che il goldone serve ai positivi soprattutto per proteggersi, oltre che per proteggere. Proteggersi dalle infezioni che la terapia non targetizza e che rischiano di compromettere un sistema immunitario già ballerino.

L’altro salto riguarda le persone sieronegative e la loro percezione del rischio. Alla luce delle evidenze scientifiche bisogna saper distinguere il contatto dal contagio: hiv è uno dei tanti virus ormai entrati a far parte del nostro quotidiano, ma dalla vicinanza all’infezione il passo è bello lungo. Hiv si trasmette con notevole difficoltà. Comprenderne le dinamiche e accettarle senza cedere alle malie del rischio teorico significherebbe mettere la parola fine alla discriminazione delle persone sieropositive.

Ecco perché noi di Plus ne parliamo senza censure, nella speranza che questi argomenti diventino oggetto di discussione anche nel nostro Paese. Uno dei primi slogan della lotta all’aids fu silence = death, per evitare che l’elefante della pandemia restasse ignorato nel bel mezzo del salotto. Oggi di hiv non si muore quasi più (in Occidente, almeno), ma resta la gestione – anche sociale, interpersonale – di un’infezione cronica per la quale non s’intravede ancora una cura. Un’infezione spesso taciuta dalle persone colpite proprio per paura dello stigma – lo stesso stigma che si ciba dell’ignoranza diffusa e di vecchi stereotipi duri a morire. L’hiv non si vede, ma il silenzio la rafforza.

I tempi degli strali, dei decaloghi biblici e del politicamente corretto hanno mostrato la corda: è il momento di decisioni informate, prima di tutto in ambito sessuale, la cui responsabilità va condivisa in parti uguali tra tutti noi, positivi e negativi.

Non più «lungi da me», ma «so quel che faccio».

È questa la sfida che Plus lancia alla comunità lgbt italiana.

Simone Buttazzi

[l’immagine che apre l’articolo è una rielaborazione dell’ultima inquadratura, censurata, del film Porcile (1969) di Pasolini. Dietro alla maschera c’è un Ugo Tognazzi che ci ricorda come avere qualcosa da dire, e star zitti, sia una gran porcata]

di Mark S. King

Il porno gay più importante di tutti i tempi

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi di queste quasi 20.000 battute che sì, ebbene sì, parlano proprio di un pornazzo. La prossima settimana Plus tirerà le fila di questo settembre antistigma lanciando una sfida alla comunità lgbt italiana.

Questo articolo è stato condiviso più di 15.000 volte dalla sua pubblicazione nel luglio del 2012. Alcuni lettori hanno reagito con rabbia, e l’aspetto bareback della vicenda ha suscitato commenti di ogni tipo (un utente ha accusato il regista Max Sohl di «crimini contro l’umanità»). In tutta franchezza, ho sempre pensato che la storia del film e il suo impatto sociologico fossero degne di approfondimento; ho apprezzato il candore delle persone coinvolte, così come trovo interessante l’approccio offerto dagli scienziati sociali e dai pezzi grossi dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention), che fungono da sfondo.

Il Folsom che si tiene tutti gli anni a San Francisco è famoso per l’abbraccio caloroso che riserva a ogni singola stella del nostro firmamento sessuale. Persino la comunità leather dura e pura, che l’ha fondato, rischia di sfigurare dinanzi allo sfoggio di abbigliamento fetish (o alla totale nudità) che serpeggia per le strade tortuose di Cisco.

Nell’autunno del 2003, nel bel mezzo di questi chiassosi baccanali, Paul Morris si trovava allo stand della Treasure Island Media (TIM), la casa di produzione pornografica da lui fondata e specializzata in sesso non protetto (bareback, per l’appunto). Un ingrediente, questo, destinato a garantirgli un successo senza precedenti.

Leggenda vuole che Lana Turner, bigiando una lezione, si sia appoggiata voluttuosamente al bancone di un negozio, dove venne notata da un giornalista. Nel nostro caso, un bel maschietto si fermò allo stand della Treasure. Quei video gli piacevano, tanto ma tanto, e sperava di poter documentare, prima o poi, qualche sua intima fantasia. Anche Jesse O’Toole, star della Treasure, era allo stand, e i due si fecero fotografare assieme. Guardando oggi lo scatto, si ha la netta impressione che il giovinastro col cappellino in pelle abbia ritrovato la sua tribù a lungo dispersa, mentre O’Toole ha l’aria di chi si trova a tavola, le posate strette in pugno, pronto a consumare un pranzo luculliano.

La foto venne spedita a Max Sohl, sporadico attore porno con un passato teatrale a cui Morris aveva dato l’incarico di girare un film. Sohl diede appuntamento all’aspirante modello e gli chiese di compilare un questionario con una sola domanda: Descrivi la scena dei tuoi sogni. Il giovane prese la penna e scrisse: «io che vengo inculato e inseminato da un branco di manzi». «Il Black Party era alle porte» raccontò poi Sohl in un’intervista riferendosi al week-end annuale dei leather men che si svolge a New York, a base di feste e orge «al che mi son detto ok, vediamo quanti ne può prendere».

Nacque così Dawson’s 20 Load Weekend (‘Dawson e il week-end delle venti dosi di sborra’).

Prima dell’aids, l’uso del preservativo nei porno gay era nullo – prima, per l’appunto, che i fluidi corporei diventassero sinonimi di malattia e morte. Per un decennio abbondante dopo l’inizio della pandemia, nei porno gay si son visti solo piselli ben avvolti nel lattice, ma le storie – attori compresi – sembravano intontite, ammorbate da un malessere drammaturgico, una specie di sonnambulismo sessuale: gli amplessi erano pura routine col sarcoma di Kaposi nascosto dietro le quinte. Quei video rispecchiavano la pressoché totale mancanza d’interesse nel rimorchiare il pizza boy di turno o nel buttarsi in un orgione con degli estranei, e molti consumatori tornarono a infilare nei VCR le vecchie videocassette pre-aids, bareback sì, ma «giustificate».

Quando le morti diminuirono bruscamente con l’introduzione delle nuove medicine nel 1996, la cultura dei maschi omosessuali si vendicò. Si registrò un trionfo di festini privati (destinati a soccombere sotto il peso dei loro stessi eccessi), i comportamenti ligi al safer sex si rilassarono e nell’aria si respirò un ardente desiderio di sfuggire agli orrori degli ultimi quindici anni. Reclamare a gran voce una sessualità senza confini – qualcosa che molti maschi omosessuali ritenevano perduta per sempre – fu il miglior tonico per curare lo stress post-traumatico generalizzato. I più giovani, che avevano sentito parlare di un’epoca sessualmente liberata paragonabile a un’era perduta della paleontologia, si dimostrarono ben disposti a esplorarne le nuove versioni, qualunque esse fossero.

Il sesso non protetto dopo l’arrivo dell’hiv non è nulla di nuovo – a ben vedere è il motivo numero uno delle nuove infezioni, il cui numero stenta a calare – ma nella seconda parte degli anni Novanta la comunità gay scoprì ancora una volta quanto fosse facile, e un po’ comico, (ri)etichettare un fenomeno: fu così che il termine «bareback» entrò nel linguaggio comune. È ironico, semmai, che sia stata introdotta una parola nuova per definire la più antica pratica sessuale del mondo: fare sesso senza barriere. Non era certo cambiato il sesso, bensì il suo significato e i giudizi che attirava, soprattutto se a farlo erano dei maschi omosessuali. Come ha dichiarato l’attivista Jim Pickett in occasione di una conferenza, «Quando un amico mi dice che stanno aspettando un bambino, mi vien voglia di urlare ‘Ah-ha! Avete fatto bareback!’».

Ma mentre le menti più fini e gli attivisti più appassionati indagavano le ragioni del barebacking cercando una risposta sensata, nessuno aveva osato documentarlo su videocassetta per darlo in pasto agli appetiti erotici delle masse. Non ancora, almeno.

Nel 1998 esistevano due società scavezzacollo fondate solo a questo scopo: la Hot Desert Knights e la Treasure Island Media. Nessuna delle case di produzione leader del mercato avrebbe mai preso in considerazione la stessa idea (per quanto rieditassero volentieri i vecchi best seller pre-aids, ovviamente bareback). I video fatti con pochi soldi dalle quelle due start up del porno tirarono fuori dall’«armadio» le scelte sessuali di un numero crescente di uomini e le condussero dritte nel mercato dei DVD e sugli schermi dei computer.

Si tratta di video uniformi nel loro pauperismo, nell’aspetto non freschissimo degli attori, e nel fatto che molti di essi paiono recare i segni di un’infezione da hiv presa per il collo con farmaci molto tossici. Era come se un gruppo di uomini sopravvissuti al virus fosse sbottato di punto in bianco con un «oh, al diavolo» mettendo in bella mostra il tipo di sesso che facevano tra di loro da qualche tempo. Questo tipo d’immaginario da «exploitation» era considerato un sottogenere underground incapace di infrangere la superficie del mainstream pornografico.

Ma quando Max Sohl incontrò quel giovane di bella presenza reduce dal Folsom che aveva una voglia matta di farsi «inseminare» da una ganga di estranei, e con lo Zeitgeist ormai pronto per il loro arrivo, quei due fecero un film destinato a cambiare per sempre il volto dell’industria pornografica e a influenzare, senza dubbio alcuno, il comportamento sessuale di moltissime persone.

Ribattezzata «Dawson», la promettente star del porno si sistemò in una camera d’albergo nel corso del Black Party 2004 newyorkese, a disposizione di un’autentica parata di attivi senza profilattico. I rapporti sessuali vennero filmati con stile documentaristico, senza musica né dialoghi, né alcun tentativo di nascondere i cavi e le telecamere piazzati nella stanza. Il più intimo desiderio di Dawson era stato appagato, e Sohl poteva dimostrarlo. Nel giugno del 2004, Dawson’s 20 Load Weekend venne distribuito con tanto di battage pubblicitario.

Di primo acchito si può avere l’impressione sconcertante che il video sia stato girato in un mondo dove di hiv non si è mai sentito parlare, almeno finché una precisa, fiammeggiante coreografia sessuale non viene ripetuta ad libitum. Mentre nel porno pre-aids gli orgasmi venivano di solito mostrati con l’attivo che estraeva il cazzo per venire sulla schiena del partner, gli stalloni di Dawson hanno una mission ben diversa, e deliberata: estrarre il cazzo il tempo necessario a mostrare l’inizio dell’orgasmo, per poi reinserirlo immediatamente certificando così l’«inseminazione».

Dawson non è un film fatto in assenza di hiv, ma concepito per via di hiv. Sembra quasi di sentire una vocina che sussurra: «Guarda bene: ecco come fanno sesso i maschi gay al giorno d’oggi. Ecco dove va messo lo sperma. Fanculo l’aids».

A seconda dei punto di vista, trattasi di rituale erotico e trasgressivo oppure di una pratica intollerabile e irresponsabile che dimostra come ci s’infetta con l’hiv. O forse entrambe le cose…

E al centro di tutto questo c’era lui, Dawson: il porno bareback non aveva mai avuto a disposizione un protagonista così virile, atletico e devoto. «Un modello di tale qualità non si era mai visto in quel tipo di scene estreme» spiegò Sohl. «Il film ha cambiato le cose per via di Dawson. È adorabile, disarmante, sorride per davvero, ride nel film. È una pasticca di Cialis in carne e ossa». «Le case di produzione che fanno bareback hanno le mani sporche di sangue» divenne poi un adagio molto diffuso tra maschi omosessuali e attivisti nel campo della salute. Dan Savage, giornalista specializzato in consigli sessuali alla comunità lgbt, equiparò quei video alla pedopornografia, accusando gli autori di circonvenzione d’incapaci. Qualcuno accusò la Treasure di fare degli snuff movies.

Il video di Dawson riscosse un successo clamoroso in ogni dove. Persino Sohl ne fu sorpreso. «La nostra équipe, o anche i miei amici, mi dicevano ‘ovunque vada, in sauna, a un sex party, a casa di uno per scopare, lo mettono su: è dappertutto’».

I negozi hard che fino a quel momento avevano snobbato i titoli Treasure risposero alle richieste dei clienti prenotando il video e arrivando a creare apposite sezioni bareback sui loro scaffali. I siti porno gay che si erano sempre rifiutati di caricare clip di questo tipo si adeguarono. Dawson e il suo film diventarono così la bandiera di una sessualità spoglia e sfrontata, che aborriva i profilattici e non ne voleva sapere di lasciarsi intimidire dal virus.

Ben presto anche altre compagnie si misero a produrre porno bareback e riuscirono ad assoldare tipi in forma, giovani e muscolosi, il ritratto della salute. I volti e i corpi dei video bareback si trasformarono in fretta, cancellando ogni traccia di lipodistrofia e sincronizzandosi con l’invisibilità dell’infezione dei giorni nostri.

Ripensando alle conseguenze di questo film, Sohl è più pragmatico che orgoglioso. «Nel 2004, l’idea di farsi sborrare dentro venti volte era molto più che tabù, ma adesso… no, adesso non è più così estrema. Sono sicuro che prima o poi qualcuno l’avrebbe fatto. È capitato a noi».

Sohl non ammette alcun tipo di remore circa la salvaguardia dei suoi attori, oggi come allora. «Lo faccio dal 2004, l’ho fatto con migliaia di uomini, e solo uno ha detto di essersi beccato una malattia venerea [sul mio set]. Direi che il 50% del mio lavoro consiste nel fare counseling sull’hiv» precisa senza un filo d’ironia. «Passo un sacco di tempo a parlarne. La mia opinione è che la gente deve fare scelte consapevoli, deve informarsi prima di fare».

Una di queste persone capaci di decisioni importanti vivendo con l’hiv è proprio l’attore meglio noto come Dawson, che ha ammesso il proprio stato sierologico a «The Windy City Times» nel 2005. E se nessuno si è stupito del suo status, nell’intervista ha aggiunto anche un dettaglio tristemente rivelatore. «È stato dopo la diagnosi che ho deciso di fare un film con la Treasure Island Media. Mi ero sieroconvertito pochi mesi prima…».

Una volta ricevuta la diagnosi di sieropositività, molte persone ne approfittano per fare il punto della situazione e optano per scelte sessuali diverse, spesso orientate a godersi la vita come meglio credono. Nel caso dell’uomo destinato a diventare Dawson, alla sieroconversione seguì la scelta di fare la troia, senza vergogna né scrupoli, davanti all’obiettivo. Potrà anche essere stata la sua più intima fantasia, ma non fa che alimentare la credenza stigmatizzante che le persone con hiv siano vettori irresponsabili dell’infezione, disposti a propagarla abbandonando qualsiasi precauzione.

Forse il film valse come un trattatello sul tipo di liberazione sessuale disponibile per i maschi omosessuali dei giorni nostri, in quanto dimostrerebbe la «nuova normalità» di chi prende la terapia, elimina l’attività virale nel sangue e «scopa libero e senza paura», nelle parole di Paul Morris. Oppure ha semplicemente dipinto i sieropositivi come troie da sbarco, un’accusa rilanciata da frotte di sieronegativi disgustati (e magari gelosi)?

«Ciò che la gente vede riguarda più loro stessi che noi» spiega Sohl. «La migliore strategia è non confermare né negare alcunché. Mi capita di vedere online una scena che ho girato» continua riferendosi ai tanti siti che piratano frammenti dei suoi film «rititolata ‘passivo negativo si piglia lo sperma di un positivo’, manco fosse una scena d’infezione. Chi l’ha mai detto? Oppure, la gente crede che il passivo sia sotto crystal meth. Mi spiace, ma son tutte cose che la dicono lunga su chi guarda, non su quello che è successo davvero».

Questa relazione tra porno e spettatore è particolarmente cara ad alcuni attivisti della prevenzione che vedono il porno bareback come una forma di incoraggiamento al sesso senza preservativo nella vita vera. Ciò è scaturito in una campagna dell’Aids Healthcare Foundation volta a imporre l’uso del preservativo sui set, una mossa popolare a un livello molto semplicistico ma che non tira in ballo nessuno dei tanti fattori associati al reale rischio d’infezione, né le relative strategie preventive, come può essere la TasP.

E mentre la teoria sociale cognitiva afferma che prendiamo decisioni comportamentali guardando gli altri, sono ancora scarse le ricerche sull’eventuale relazione tra porno bareback e comportamenti reali. Tant’è che i ricercatori non sono stati in grado di affermare con certezza se chi fa bareback guarda molto porno bareback, o se è il porno a sfornare nuovi barebacker.

Un enigma che lo stesso Max Sohl è lieto di risolvere: «Certo che sì. Certo che influenza la gente». Ma alla domanda su quale sia la responsabilità del porno, Sohl non ne vuole sapere. «La responsabilità del porno» ha dichiarato con piglio malandrino «è far sì che chi lo guarda si faccia una sega».

Dawson è ormai un’icona del porno, presente su dozzine di siti, e ha ottenuto il premio tanto agognato. Lui e la sua progenie di pornoattori infisicati e allettanti hanno oltrepassato un punto di non ritorno. Le loro scorribande sono disponibili ovunque, a portata di tutti, inclusi i giovani maschi gay freschi di coming out che vanno in Internet in cerca di conferme in tema di sessualità.

Quei giovani uomini vedranno sicuramente, online, fior di scene di sesso senza preservativo, dato che ormai i video bareback sono più numerosi di quelli col profilattico. È fuori di dubbio che per i novellini del sesso il bareback sembrerà lo standard, e chi cerca di promuovere il safer sex farà molta fatica a superare la forza di quelle immagini. Il messaggio «usa sempre il condom» è ormai morto e sepolto, affogato nei secchi di fluidi corporei di Dawson e i suoi fratelli.

Dawson’s 20 Load Weekend ha ridefinito il porno gay bareback e i suoi attori, ha influenzato una caterva d’imitazioni e ha aumentato a dismisura la presenza sul mercato di video «condomless». Dawson descrive una verità diffusa sul comportamento sessuale tra maschi in tempi di antiretrovirali, e ha indubbiamente incoraggiato la ricerca di avventure rischiose. Ha inoltre condotto a una saturazione del bareback online, elevandolo alla norma per chiunque cerchi porno in rete. Prendere sottogamba questo film, minimizzare il suo impatto sociale e culturale sarebbe solo un gesto miope nei confronti della sessualità gay dei giorni nostri.

«Il bareback è un diritto» ha scritto l’antropologo gay Eric Rofes. «Dopotutto, quasi ogni uomo etero al mondo lo fa senza per forza sentirsi irresponsabile, pazzo o suicida… il bareback è una liberazione. Il bareback è sfida».

Folle o profetico, liberatorio, illuminante o distruttivo? Quale che sia la vera natura del bareback, la scopriremo solo nel prossimo capitolo della tormentata storia della nostra comunità omosessuale.

Mark

Mark S. King

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

Il re è nudo (ma proprio nudo)

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il tema del sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi dell’immagine soprastante, che mutua lo slogan proposto dal gruppo canadese Aids Action Now! nel 2012.

Ogni volta che un nuovo studio sui maschi omosessuali scopre che si fa sesso bareback, cioè senza preservativo, le anime belle della condotta sessuale si stracciano le vesti e denigrano questo comportamento vergognoso, choccante e assassino. Quindi immaginatevi quanti scampoli di tessuto sono finiti sul pavimento dopo che uno studio ha indicato che quasi la metà degli utenti della app di geolocalizzazione Grindr si cimenta col sesso «a pelo».

Vorrei tanto che quelle triste figure mettessero da parte i sali per rinvenire e cercassero di comprendere le ragioni di tutto questo. E invece, ogni volta che un nuovo studio, ampio o affrettato che sia, dimostra ciò che sappiamo già, riecco le statue pompeiane con la mano sul cuore, impietrite nella loro indignazione d’altri tempi.

Niente di nuovo sotto il sole… eccetto forse il sempre rinnovato stupore dinanzi al fatto che i maschi omosessuali si comportano pari pari come qualsiasi altro uomo del pianeta Terra.

Forse quelli che trovano ripugnante il bareback credono di essere politicamente corretti, che i loro aspri giudizi sulla vita sessuale altrui servano alla prevenzione, che criticare gli altri perché che si comportano come esseri umani possa in qualche modo modificare istinti radicati, che ci accompagnano dalla notte dei tempi.

O forse rientra nel nuovo decalogo della cultura gay voler dimostrare alla società etero che siamo bravi quanto loro a svergognare gli omosessuali, che ci castreremmo volentieri nel nome dei pari diritti e che altrettanto volentieri ci priveremmo degli stessi piaceri che loro danno per scontati: insomma, concedeteci il matrimonio gay e noi vi risparmieremo il racconto della scopata anale non protetta che avrà luogo la sera della cerimonia.

In un modo o nell’altro siamo giunti alla conclusione omofoba che quando due maschi omosessuali si cimentano nell’atto romantico, emotivo e spirituale dell’amore fisico senza barriere, questo va etichettato come barebacking psicotico, mentre quando lo fanno gli etero si chiama buon sesso. Due pesi e due misure: ridicolo. Lo sapete che anche vostra madre faceva bareback? È un atto naturale e prezioso che persiste, letteralmente, dagli albori dell’umanità. Abramo (facendo bareback) generò Isacco, Isacco (facendo bareback) generò Giacobbe, Giacobbe (facendo bareback) generò Giuda e i suoi fratelli (Matteo 1-2). Forse voi avete l’incredibile abilità di spassarvela al meglio col pene avvolto nel lattice. Wow, fantastico, raccontate. Sono tutt’orecchi. A voi piace davvero usare questo classico strumento di prevenzione, un autentico gioiellino immarcescibile. Forse tu e il tuo fidanzato siete sieronegativi e avete la fortuna di una relazione esclusiva e monogama che possa escludere l’uso del condom. O magari, forti di olimpionica disciplina, siete persino in grado di usarlo ogni volta che fate sesso, cascasse il mondo. Siete commendevoli, non c’è che dire, peccato che siate anche una minoranza. Quelli che ho appena fatto sono esempi validi e reali, che non rappresentano però una posizione moralmente superiore dalla quale lanciare strali sulle scelte altrui.

Durante gli anni critici dell’aids, noi maschi omosessuali abbiamo stipulato un tacito accordo: accettammo di usare i preservativi – a quel tempo l’unico «safer sex» esistente – in attesa di tempi migliori. Molti di noi pensavano che questo contratto non sarebbe mai arrivato a scadenza, forse perché si credeva di morire tutti nel giro di pochi anni. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare, trent’anni più tardi, di doverci ancora attenere a queste rigide linee guida.

Anche a suo tempo, alcuni di noi le ignoravano. Si potrebbe supporre che alla luce di tutte quelle morti si sarebbe verificato uno stabile cambiamento nello stile di vita. In realtà, molti di noi reagirono all’ecatombe in maniera irrazionale, quindi umana: trovavamo conforto nel fare l’amore l’uno con l’altro, spesso senza preservativo. Era una sorta di gesto assertivo, un vaffanculo all’aids. Tant’è che uno studio del 1988 sui maschi omosessuali dimostrò come la metà del campione non lo usasse mai, e che la maggioranza non lo usasse sempre. Sono numeri molto, molto simili a quelli dei recenti studi su Grindr. L’eterno ritorno di una pratica, direi, mai passata di moda.

Lo studio del 1988 è particolarmente interessante se si considera quanti maschi omosessuali ripensino a quegli anni come a un periodo di grande austerità sessuale. C’è chi desidera, forse troppo, un ritorno a quei funerei fasti e c’è chi, avendo visto con i propri occhi il massacro dei primi anni dell’aids, ogni tanto sentenzia: «Se solo i giovani sapessero cos’abbiamo passato… Se toccasse a loro, non si comporterebbero così».

Roba da vomito. Tanto per dirne una, non mi auguro affatto che i giovani di oggi assistano alle scene strazianti che ho visto io. Anni addietro ho sudato sangue, in trincea, proprio per consentire loro un po’ di apatia. Preferisco vederli sguazzare nella loro ignoranza spensierata che ipotizzare di seppellirli.

Non c’è dubbio che il numero di maschi omosessuali che muoiono ancora oggi per le conseguenze dell’aids sia incomparabilmente inferiore alle cifre degli anni Ottanta e dei primi Novanta. Oggigiorno le persone sieropositive muoiono più per il tabagismo che per il virus. L’hiv è diventata un’infezione pericolosa ma in larga parte gestibile, e le manovre terroristiche che sostengono tesi diverse vengono ignorate perché non corrispondono al vero. Il sesso è sesso, è una cosa naturale e rigenerante, e chiunque voglia parificare il sesso senza preservativo alla morte e alle malattie ha proprio bisogno di andare in terapia.

Inoltre, l’uso del condom continuerà sicuramente a calare, in futuro, per via dei nuovi strumenti che stanno arricchendo la gamma delle opzioni di prevenzione anti-hiv. A cominciare dalla profilassi pre-esposizione (PrEP), ovvero l’assunzione di antiretrovirali in via preventiva, che secondo studi recenti riesce davvero a ridurre il rischio di nuove infezioni (resta il problema di chi ne coprirebbe i costi se venisse legalizzata in Italia, oltre a quello dell’aderenza e dei possibili effetti collaterali). Molte persone che vivono con hiv limitano la scelta dei propri partner ad altre persone sieropositive, fanno cioè serosorting, e nel farlo hanno dimostrato l’infondatezza delle tante voci sul nuovo spauracchio, il supervirus della reinfezione, che in realtà non si è mai materializzato.

Sappiamo inoltre che i positivi con viremia non rilevabile sono, di fatto, non contagiosi, per cui la TasP (terapia come prevenzione) è stata rafforzata dallo studio Partner, realizzato in gran parte su coppie etero, che assegna persino una percentuale maggiore di efficacia alla terapia antiretrovirale rispetto al condom. Un risultato che dovrebbe confermarsi anche studiando solo coppie omosessuali.

All’orizzonte brillano poi i microbicidi rettali. Sono prodotti ancora sperimentali che arriveranno sul mercato sotto forma di lubrificanti o clisteri capaci di prevenire un’infezione da hiv, in modo da mettere la parola fine al chiacchiericcio e alle facili sentenze in tema di preservativi.

E potrei continuare. Insomma, non c’è bisogno di scannarci a colpi di integralismo profilattico, discreditando il valore intrinseco della nostra vita sessuale o promuovendo una singola strategia che, nella realtà dei fatti, non funziona per tutti. Sarebbe ora, invece, di accettare l’evidenza che i maschi omosessuali stanno facendo scelte consapevoli, mettendo alla prova diverse tecniche di riduzione del rischio. E una volta verificate nella loro validità, sarebbe ora di chiamare anche queste tecniche «safer sex». Infine, possiamo anche smetterla di far finta di credere che i fissati del preservativo abbiano la moralità dalla loro.

Il re è nudo. E non indossa nemmeno il goldone.

Mark

Mark S. King

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

Ma non vi basta mai?

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.

Mark S. King

Una vecchia puntata dello show di Oprah Winfrey, anno 1987, riesce ancora a farmi vedere rosso. La minuscola cittadina di Williamson, in West Virginia, innescò un dibattito nazionale sull’aids dal momento che Mike Sisco, che era tornato al paese natale per morirvi, aveva osato tuffarsi nella piscina pubblica.

Il paesello uscì subito di testa. Sisco venne subito etichettato come uno psicopatico (secondo alcuni, sputava persino sui banchi del verduraio), e il giorno dopo la piscina venne chiusa per procedere a una decontaminazione in stile Silkwood. Ben presto, Oprah piombò sul posto con troupe e telecamere per discutere pubblicamente dell’accaduto. Il timor panico era all’ordine del giorno. «Se c’è anche solo una possibilità su un milione che qualcuno possa essersi beccato il virus in piscina» annunciò il sindaco al pubblico mondiale dello show «ritengo di aver fatto la cosa giusta». Certo. Perché non reagire nella maniera più isterica possibile, se c’è anche solo una possibilità su un milione?

Gli abitanti di Williamson non si lasciarono tranquillizzare dagli agenti della naccho che spiegarono loro con grande calma come si trasmette l’hiv, e l’impossibilità che ciò avvenga in piscina. «I medici potranno anche dire che non si prende così» concionò una signora «ma come la mettiamo se un bel giorno fanno marcia indietro e sbottano «be’, ci siamo sbagliati?». Massì. Come la mettiamo? Se c’è anche solo una chance su un milione…

Quella puntata sarebbe potuta restare una triste nota a piè di pagina nella storia dell’hiv/aids, un esempio istruttivo di come la gente ignori le evidenze scientifiche al solo scopo di salvaguardare una paura corroborante… peccato che la storia tenda a ripetersi.

Oggi, purtroppo, l’ignoranza più caparbia non riguarda solo i villici di un borgo dimenticato nel sud degli Stati Uniti, difficile persino da trovare sulla mappa. Riguarda i maschi omosessuali, che verso la scienza tendono a sfoggiare il medesimo atteggiamento impaurito, aggressivo e isterico dei bifolchi di Williamson di trent’anni fa.

In occasione della conferenza internazionale CROI sono stati presentati i risultati di uno studio di nome Partner, che hanno dimostrato ciò che gli attivisti nel campo dell’hiv sospettavano da tempo: le persone sieropositive con viremia non rilevabile non sono in grado di trasmettere il virus ai loro compagni. Lo studio ha riguardato circa 800 coppie discordanti, in maggioranza eterosessuali, col partner positivo in terapia e carica vitale stabilmente sotto le 50 copie per millilitro di sangue. Nel corso di due anni sono stati documentati più di 30.000 rapporti sessuali (le coppie erano state scelte in base alla loro tendenza a non usare il preservativo), e non è stato registrato neanche un caso di trasmissione del virus da parte di una persona sieropositiva «undetectable». Se lo studio Partner fosse stato indetto per mettere alla prova un nuovo farmaco, la fase sperimentale sarebbe stata interrotta per immetterlo subito sul mercato.

Gli esiti dello studio Partner legittimano la strategia preventiva detta TasP («therapy as prevention»: terapia come prevenzione), che si fonda sul fatto che una persona sieropositiva sottoposta con successo alla terapia non è più contagiosa. Non esiste un solo caso documentato di persona con viremia non rilevabile che abbia infettato il partner, tanto in ambito sperimentale quanto nella vita vera.

Ma non andate a raccontarlo a una bella fetta di maschi omosessuali scettici, molti dei quali si sono armati di tastiera per gettare fango sugli esiti dello studio Partner. Frasi come «falso senso di sicurezza», «i positivi mentono», «fantascienza pura» e «se c’è anche solo un minimo rischio» hanno invaso i social network e la sezione dei commenti del mio blog. Già m’immagino gli abitanti di Williamson annuire soddisfatti…

Le resistenze allo studio Partner vanno di pari passo con i dubbi nei confronti della PrEP (profilassi pre-esposizione, cioè l’assunzione di Truvada da parte di individui sieronegativi – strumento ancora inaccessibile in Italia). Malgrado qualsiasi obiezione pelosa verso la PrEP sia stata spazzata via dai fatti, i suoi strenui oppositori continuano o a negare la realtà o a emettere giudizi morali sulla vita sessuale dei sieronegativi che hanno deciso di entrare in PrEP. Sì, ci sono delle zone d’ombra, a cominciare dal problema dell’aderenza. Ce ne sono sempre quando il mondo degli studi scientifici incontra quello reale. E non tutte le strategie funzionano con chiunque. Ma il rifiuto veemente di scoperte così importanti indica che c’è qualcos’altro sotto, annidato nella mentalità dei maschi omosessuali. Che cos’è?

Difficile scrollarsi di dosso i ricordi collettivi degli anni tragici dell’aids, anzi: cominciamo proprio da qui. La classica reazione viscerale a qualsiasi studio che parli di neutralizzazione dell’hiv è di profondo scetticismo. Le buone notizie sembrano non reggere il confronto con un lutto durato trent’anni.

Inoltre, lo studio Partner mette a rischio l’opinione diffusa secondo la quale i maschi omosessuali altro non sono che mine vaganti. Lo studio toglie di torno «l’uomo nero con l’hiv». Cosa vuol dire questo? Che chi è al corrente del proprio status e voglia entrare in terapia ha la possibilità di diventare «undetectable». E una volta che il partner positivo non rappresenta più un problema, ecco che entrambe le persone sono egualmente responsabili delle proprie azioni. Una rivoluzione copernicana nella mentalità diffusa della comunità gay.

Una rivoluzione tuttavia difficile da compiere finché continua a serpeggiare la paura, e i dubbi più fantasiosi hanno la meglio. Come la mettiamo se il mio partner salta una dose e, anche se i principi attivi degli antiretrovirali restano nel sangue per un pezzo, la sua carica virale s’impenna? Come la mettiamo se non m’ha detto la verità circa la viremia? Come la mettiamo se non conosce il proprio status?

Amici miei cari, il pericolo vero non è rappresentato dai sieropositivi che credono di avere la viremia non rilevabile e si sbagliano. È rappresentato da chi crede di essere sieronegativo e non lo è. Ma a noi piace concentrarci sulle mancanze della persona positiva conclamata perché, sapete, i sieropositivi mentono. E a noi sieropositivi piace saltare le dosi, perché vogliamo morire prima e nel frattempo cercare la prossima vittima.

Allora anch’io ho qualche domanda del tipo «come la mettiamo se?». Come la mettiamo se queste paure irrazionali servono solo a stigmatizzare le persone positive? Come la mettiamo se ho la viremia non rilevabile e non sento alcun bisogno di tirare in ballo il mio status con un partner occasionale, visto che non sono in vena di lezioncine scientifiche? Come la mettiamo se ciascuno di noi sceglie la strategia di prevenzione che gli va maggiormente a genio? Come la mettiamo se il mio stato sierologico non è affar vostro?

I rischi diminuirebbero, naturalmente, se ciascuno di noi proteggesse il proprio corpo quando fa sesso con uno sconosciuto o una persona di cui non si fida. Ma questa ipotesi caricherebbe di responsabilità anche i sieronegativi, ed è una gran scocciatura. Meglio lasciare tutto il fardello sulle spalle dei positivi, untori che non siamo altro. Considerateci dei criminali, dei bugiardi, gente che sputa sugli alimenti e non vede l’ora di attaccarvela.

Finché continueremo a lasciarci distrarre da ipotesi fantasiose, non riusciremo mai a comprendere le minacce reali. Le infezioni sessualmente trasmissibili sono in pieno rigoglio. La nostra comunità è piagata dall’alcolismo, dalle droghe, da malattie mentali. Vogliamo parlare di questioni scientifiche serie o preferiamo dissipare le energie in dibattiti scandalistici?

Se siete ancora così arroganti da credere di poter vincere la lotteria dell’hiv infettandovi in maniere che la scienza ha scartato da un pezzo, nessuno vi può privare di questo punto di vista. Ma consentitemi di darvi un paio di semplici consigli. Statevene alla larga dal computer e non toccate i cavi, perché in America 50 persone l’anno muoiono fulminate per via di dispositivi difettosi. Recatevi piano, molto piano in camera da letto, guardando dove mettete i piedi, perché gli incidenti domestici ammazzano 55 persone al giorno. E ora infilatevi tra le coltri della vostra testarda ignoranza e vedete di mettervi a vostro agio. Perché gli abitanti di Williamson vi guardano.

Mark

P.S. Il numero di persone infettate da una persona sieropositiva con carica virale non rilevabile durante la lettura di questo articolo è stato pari a: zero.

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

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Con questo articolo inizia la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.

Mark S. King

Quando Donald Sterling insultò Magic Johnson dandogli del promiscuo e dell’indegno, l’accusa non suonò nuova a chi viveva con l’hiv. L’abbiamo sentita per anni. Ancora oggi molte di queste idee sbagliate persistono, addirittura – o forse soprattutto – tra i maschi omosessuali. Certi atteggiamenti possono ferire, stigmatizzare, pur nella loro assurdità. Cerchiamo allora di mettere i puntini sulle i stilando una lista di dieci cose che i maschi sieropositivi vorrebbero tanto far sapere ai maschi sieronegativi. Questa lista può non rispecchiare al cento per cento le opinioni di tutti i gay con hiv, ma include sicuramente molte delle loro frustrazioni.

1. Non tutti i maschi sieropositivi sono tossici con la fissa del bareback

È umano, forse, cercare di trovare la «falla» in coloro che s’infettano. Vederli come estremisti ci fa sentire per certi versi al sicuro. Eppure, la verità è che la maggioranza delle nuove infezioni si verifica all’interno di «relazioni primarie», come una storia fissa o una frequentazione abituale, spesso perché uno dei due non sa di essere infetto e finisce per trasmettere l’hiv al partner. Ecco perché ha senso insistere col test, e farlo regolarmente. Di solito le nuove infezioni non sono, statistiche alla mano, il risultato di una notte brava a un sex party imbottiti di crystal meth, né di un pomeriggio etilico in sauna. Certo, queste sono situazioni possibili, ma il concetto è che il sesso tra persone che si vogliono bene non è per forza più sicuro. Per l’hiv, una striscia di pelle nera o il fiocchetto di un regalo d’anniversario sono la stessa identica cosa.

2. Vivere con l’hiv non è un film ospedaliero dell’orrore

Sì, quando hai l’hiv vai regolarmente dal dottore e prima o poi prendi medicine. Ma non bisogna confondere una condizione cronica con una acuta, l’infezione con la malattia. Grazie all’ampia gamma di farmaci antiretrovirali, gli effetti collaterali sono stati ridotti di molto, e i nuovi ritrovati li ridurranno ulteriormente. I sieropositivi non piangono come fontane ogni mattina mentre trangugiano le pillole insieme al caffellatte. Devono prenderle ogni santo giorno, questo sì, magari a orari ben definiti e dopo aver consumato un pasto completo. È scocciante, ma non certo drammatico.

3. Un’infezione da hiv non ti trasforma automaticamente in un bugiardo patentato

Uno dei pregiudizi più penosi circa i maschi positivi è che mentono come se respirassero sul loro stato sierologico pur di scopare, magari con l’obiettivo di infettarti. Ce la facciamo a rimodulare questi cliché sulla trasmissione intenzionale, per cortesia? La verità è che i sieropositivi possono avere difficoltà a rivelare il proprio status… proprio per paura di discriminazioni derivanti da sciocchezze come questa. È ingiusto dare la colpa a tutti i positivi del comportamento criminoso di pochi.

4. «Sono pulito, devi esserlo anche tu»: una bella stronzata

Se in chat usi questa frase a mo’ di «filtro» per cercare nuovi scopamici, sappi che stai commettendo un grosso errore. Tanto per cominciare bisogna tenere a mente che i positivi con viremia non rilevabile non possono infettare nessuno, per cui rifiutare un partner per via dello stato sierologico rischia di essere una mossa puramente discriminatoria, e tutt’altro che pratica. Inoltre, etichettare chiunque come una merce difettosa o un frutto marcio è disgustoso (se ti è già capitato per un motivo o per l’altro, sai come ci si sente). Il «sono pulito» ti dà poi un senso illusorio di sicurezza, perché come dimostra uno studio britannico, il rischio di contrarre il virus è molto più elevato andando con qualcuno che crede di essere negativo e non lo è. Questo perché l’attività virale in una persona appena infettata, cioè in piena sieroconversione, può schizzare alle stelle senza che il diretto interessato lo sappia o possa impararlo a breve. Quindi, in ogni caso, evita mosse rischiose, metti le cose in chiaro, fa’ il test con lui oppure accertati che prenda le medicine e che sia «undetectable». E se senti il bisogno di chiedere subito lo stato sierologico al tuo partner, formula la domanda in maniera rispettosa («Il mio ultimo test è negativo. E il tuo?»). Chiedergli se è «pulito» o «senza malattie» ti fa fare la figura del cretino, soprattutto perché, quando si ha una vita sessuale, le infezioni sono tante e non si può mai sapere.

5. Sei l’unico responsabile della tua salute (comportamenti a rischio inclusi)

Dopo decenni di ricerca incentrata sulle persone con hiv, ora esistono trattamenti pensati anche per maschi sieronegativi e sessualmente attivi, come la PrEP (Pre-Exposure Prophylaxis, profilassi pre-esposizione – non ancora disponibile in Italia), uno strumento che consente di tenere sotto controllo i comportamenti a rischio. Sì, sono stati sollevati dei dubbi sulla tossicità del Truvada, la medicina che viene somministrata come PrEP, ma studi recenti hanno dimostrato come tali rimostranze fossero esagerate. Sei tu l’unico responsabile del tuo stato di salute, tutto dipende cioè dalle scelte che fai – che non hanno nulla a che vedere con lo stato sierologico del tuo partner, noto o ignoto che sia. Lo scaricabarile non ha mai giovato a nessuno, e a letto si è sempre tutti sulla stessa barca, che lo si voglia ammettere o meno.

6. I tipi con l’hiv non sono iperpromiscui… né hanno una vita sessuale schifosa… e non sono neppure delle monache di clausura

Ecco tre preconcetti ricorrenti… e falsi, se si prende come punto di riferimento la tipica vita sessuale di un maschio gay single. Abbiamo tutti i nostri momenti no. A volte il carnet di ballo è pieno, ci sono tempi di vacche magre e altre volte ancora il sesso che facciamo fa schifo. Proprio come chiunque altro, anche i sieropositivi sono sull’ottovolante e quando le cose girano per il verso giusto fanno un sesso grandioso, di quelli da urlo. Giudicare le persone in base a quanto scopano è un argomento vecchio e ritrito (spesso usato contro tutti i gay) del quale faremmo volentieri a meno. Tra l’altro, è un ulteriore esempio di come si tenti di prendere le distanze dai sieropositivi etichettandoli come diversi da noi. Non lo sono mica. C’è la suora così come c’è la troia. Del resto, per beccarsela basta una volta sola. E non diamo forse della troia a chiunque scopi più di noi?

7. Come la si è presa e da chi è una questione privata

I dettagli di un’infezione altrui non sono roba da soap opera o da novella esemplare, per quanto buone possano essere le tue intenzioni. Se una persona sieropositiva è in vena di confidenze, può anche sciorinarti la sua storiella, ma è probabile che per lui la questione sia chiusa da tempo e che comunque si tratti di una vicenda noiosa. Ha fatto sesso senza le dovute precauzioni e se l’è buscata. Ah, vuoi pure i dettagli? Ma una forchettata di cacchi tuoi?

8. Se hai bisogno di informarti sull’hiv, datti una mossa

Avere l’hiv non significa possedere anche un master in epidemiologia o una specializzazione in malattie infettive. Non tutti i sieropositivi sono esperti del virus, specialisti nel campo della prevenzione – o attivisti. Vivono con hiv, tutto qua. E se si trovano nell’incresciosa situazione di doverti fare la lezioncina sui fondamentali della prevenzione, non te la prendere se saranno loro a dire no grazie, preferisco non scopare. Niente ammoscia gli animi come il signor virus hiv. E gran parte dei sieropositivi non ha voglia di «convincerti» prima di andare a letto. Anzi, tra i loro contatti vi sono sicuramente persone più bone di te e con qualche nozione in più tra neurone e neurone.

9. Dici che le persone sieropositive non vivono a lungo? Ma per carità…

Secondo studi recenti, una persona che al giorno d’oggi riceve la diagnosi di hiv in tempo utile (prima cioè che l’infezione raggiunga uno stadio avanzato) ha la medesima aspettativa di vita di una persona «normale». C’è chi sostiene addirittura che questa aspettativa possa essere superiore alla media, in quanto i frequenti controlli medici consentono di individuare subito, e trattare, gli eventuali problemi. Inoltre, è probabile che le persone sieropositive stiano molto più attente al fumo, alle droghe o all’alcol, che mangino bene e facciano esercizio fisico, in modo da restare in salute e vivere a lungo. Molti positivi lo sono di nome e di fatto, vivono la vita con gioia e guardano al futuro. Che motivo hanno di deprimersi? Col progredire delle scoperte scientifiche – ma anche delle infezioni – il numero dei maschi sieropositivi nella società è in aumento. Tanto vale capirli, rispettarli e accettarli invece di impiccarsi a paure antiquate e sciocchi pregiudizi.

10. … E le sorprese non finiscono qui

Molte ricerche in corso sono destinate a migliorare ulteriormente la situazione, rendendo la vita più facile e meno rischiosa tanto per i sieropositivi quanto per i sieronegativi. Stanno testando dei microbicidi rettali (pomate e clisteri che uccidono il virus all’istante), la gamma dei medicinali per la PrEP si sta ampliando e potrebbe includere iniezioni capaci di proteggere dal virus per mesi, evitando così la scocciatura della pillola quotidiana. Anche i profilattici stanno subendo un restyling volto a migliorarne il design e la sensibilità. Nel giro di non molto tempo si potranno eliminare anche i rischi d’infezione più modesti, e i farmaci antiretrovirali diventeranno sempre meno tossici e ancora più efficaci. Si tratta di progressi importanti non solo in termini di statistiche e numeri: di questo passo possiamo davvero colmare quel «viral divide» che ha danneggiato la nostra comunità per decenni, e continua a farlo.

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.


Friends for life
, bordato da un bel fiocco rosso, è il nome di un gruppo Facebook dove si affronta il tema HIV, o, meglio, i vari temi che l’infezione porta con sé.
Si tratta di un gruppo chiuso, manco a dirlo, riservato, ma internazionale. Vi si trovano iscritti e iscritte pressoché da tutti i continenti.

1dicembre2012_plus-02A corollario del norme, troviamo la seguente frase: “... helping people affected by HIV/AIDS live well”, un bell’occhiello perché dice che scopo del gruppo è aiutare i sieropositivi a vivere meglio.

Fantastico vero? La HIV+ community globale riunita per scambiare esperienze e sostenersi a vicenda.

Anche io ho creduto che fosse questo lo scopo, finché una ragazza africana ha postato una domanda che, da sempre, considero la cartina tornasole della reale volontà e apertura mentale della gente:

so friends,what is your view on homosexuality?

Varie risposte ma un paio mi hanno colpito: un’altra ragazza africana ha iniziato la sua risposta scusandosi, ma affermando, nel contempo, che con il suo background culturale cristiano non è possibile che accetti i gay; un’altra ragazza, credo canadese, ha dato una risposta simile, aggiungendo che tutti devono essere liberi di scrivere quello che pensano.
Home Blog_smallLa discriminazione, proprio quell’elemento che è uno dei principali veicoli della diffusione di HIV, è un pensiero legittimo?
E, soprattutto, è legittimo che persone spesso discriminate per la condizione sierologica, si sentano autorizzate a discriminare per via dell’orientamento sessuale altrui?
Ne è nata una discussione lunghissima, in tutto simile a quella che possiamo leggere quando si tratta il tema gay nei post, blog o chat italiane.

Vi servo alcune chicche:
I don’t care about your gay ass that f in the bedroom. No its not about love gay is lust”.
God created Adam and Eve not Adam and Steve…”, questa è una perla… e così via.

Non c’è niente da fare: neppure HIV riesce a far digerire la diversità, neppure HIV riesce a far superare le ideologie razziste inculcate fin da bambini.
Per HIV abbiamo concrete speranze che arrivi un vaccino, ma per l’ignoranza e le posizioni ideologiche (c’è differenza?) temo che non ci sarà mai una terapia adeguata.
Ricordo un breve frammento di “+ o -Il sesso confuso”, un documentario su HIV in Italia diretto da Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli, nel quale una ragazzina di un liceo diceva, vado a memoria, passi per i drogati ma i gay se la vanno a cercare.Bandiera gay
Frase sicuramente ingenua, ma, al contempo, di una verità disarmante. Sono convinto che molti italiani, anche e soprattutto omosessuali, pensino che i sieropositivi sono tali per colpa, e, per evitare sia la colpa che il pensiero, la comunità gay italiana ben raramente si occupa con serietà di HIV.
Come dico di solito, io non mi sento ne colpevole né innocente, cerco solo di sopravvivere. Ma nel farlo, forse per via degli anni che passano, sono sempre meno propenso a tollerare chi mi discrimina per un verso o per l’altro.
Credo che questo abbia inciso nel mio coming out… sta a vedere che più che il convincimento pesa lo stracciamento (di palle).

Fieramente gay alla faccia del mondo.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Chair