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Articoli

No, non è che nella città scozzese c’è più HIV (sicuramente ci sono bovini pelosi), si tratta della conferenza sui farmaci che si tiene a Glasgow ogni 2 anni (sic).

Non è esattamente il luogo più centrale al mondo, fra andare e tornare perderò 4 aerei. Tuttavia è una conferenza internazionale importante e vale sempre la pena di andarci.
Non la frequentavo da prima del Covid, ma devo dire che il centro congressi a forma di armadillo non ha perso il suo fascino.

Come cerco sempre di fare, sono arrivato in tempo per l’inaugurazione ufficiale. Di solito è una plenaria dove, oltre ai saluti istituzionali, con gli interventi scientifici si delineano le linee di indirizzo della conferenza, in pratica ciò che viene ritenuto centrale. Quest’anno l’inaugurazione si è concentrata non già su questo o quel farmaco, ma su qualcosa che limita l’efficacia dei farmaci e lascia spazi di azione a HIV: la discriminazione. Strano vero? Una conferenza scientifica che lascia lo spazio principale a una cosa che passa sotto il microscopio.

Ma andiamo per gradi. La prima cosa che ho fatto, subito dopo la registrazione (senza la quale le guardie non ti fanno entrare) è stato appendere il nostro poster (e fare subito un selfie). E’ curioso come a Icar questo piccolo studio sia entrato per il rotto della cuffia, invece in questa conferenza globale sia stato accettato senza problemi… mah… Lo studio ha cercato di capire il parere delle PLWH in terapia con i long acting iniettivi. Sarà interessante riprendere lo stesso studio fra un paio d’anni quando, verosimilmente, ci saranno più persone che usano quel trattamento.
Numerose imprese stanno disinvestendo su HIV per cui anche in questa conferenza si nota un clima di maggiore povertà rispetto al passato, tuttavia i partecipanti sono oltre 2.300 da 93 Paesi, il 79% di persona, 191 scholarship (fra cui la mia), 388 abstract accettati. I focus della conferenza sono molteplici e vanno dalle sfide sociali come lo stigma, alla ricerca scientifica di avanguardia e le applicazioni cliniche, alle responsabilità sociali come l’etica nella ricerca.

C’è anche una breve relazione via remoto sulla situazione relativa all’Mpox… si quello su cui il Ministero non sembra aver interesse e localmente c’è chi scarica la “colpa” sui pazienti. Come ricorderete lo scorso agosto l’OMS ha dichiarato lo stato di emergenza su questo virus che, per ora, sembra concentrarsi soprattutto sul Congo, ma si sta rapidamente diffondendo nei Paesi limitrofi. Circa il 50% delle persone contagiate è HIV+. Casi sono stati individuati in Nigeria, Uganda perfino Kenya. Nonostante in Italia qualche imbecille di twitter scriva che è in Africa chi se ne frega, è proprio li (dove ci sono 13.000 casi confermati) che va bloccato e benissimo ha fatto l’OMS che, con la sua dichiarazione, implicitamente dice che le epidemie vanno bloccate prima che arrivino in Occidente e che le persone che muoiono grazie a questo nuovo sottotipo sono persone e hanno valore tanto quanto un europeo.

In merito allo stigma, la relazione più interessante riguarda lo studio condotto da ECDC su HIV-related stigma and discrimination in the healthcare setting in Europe and Central Asia (ancora non mi è chiaro perché per la sanità mondiale l’asia centrale viene associata all’Europa, ma è così).

Spesso ci lamentiamo di commenti o atteggiamenti poco professionali dei nostri sanitari, ma vi farà piacere sapere che siamo in linea con il resto d’Europa… mal comune doppia sfiga si potrebbe dire.

Incominciamo col dire che in Europa vivono con HIV 2,3 milioni di persone, di cui 1,4 in Russia e Europa Orientale dove, com’è noto, ci sono solo casi fra eterosessuali perché gli omosessuali o non ci sono o sono perseguitati. Già mi vedo la faccina felice di HIV, libero di agire grazie all’ottusa ignoranza ideologica di 4 governanti.
Lo studio è andato a misurare lo stigma sia nella community che fra i sanitari.

Le domande sono quelle a cui abbiamo risposte diverse volte anche in Italia. Dal 22 al 30% dei rispondenti non hanno detto a nessuno (familiari, amici, partner sessuali) di essere HIV+. Il 45% dichiara di aver subito stigma dai sanitari e il 68% ha rinunciato a dei trattamenti per timore di essere discriminato.

Fra i sanitari la situazione è ancora più incredibile. La commissione che ha analizzato i risultati, era composta da professionisti sanitari e attivisti PLWH. Due terzi dei rispondenti sono donne, quasi il 50% medici, il 20% infermieri, più altre professioni sanitarie. Le domande sulla conoscenza di HIV si sono concentrate su U=U, PEP e PrEP con risultati interessanti. Il 48% non ha nessuna o bassa familiarità con i temi. Il 38% ha conoscenze non corrette di U=U, il 44% su PEP e ben il 59%su PrEP. Ma se esaminiamo le conoscenze corrette fra medici, vediamo che il 69% sa di cosa parla su U=U, il dato va al 67% su PEP e crolla al 49% su PrEP (che è studiata da oltre 10 anni). Le altre professioni sanitarie mediamente vanno peggio. In Europa Occidentale, area a cui per ECDC appartiene anche l’Italia per motivi misteriosi, la situazione è leggermente migliore fra i medici: 72% di conoscenze corrette su U=U, 63% su PEP, 54% su PrEP. Un po’ meglio ma sono comunque valori scandalosamente bassi e in questo credo che aver tenuto per decenni HIV chiuso a chiave nei sancta sanctorum dei reparti di malattie infettive sia stata una scelta tutt’altro che lungimirante.

Ma non finisce qua: c’è ancora un alto livello di timore, 53%, nel trattare pazienti con HIV, e se il 70% degli studenti ha paura (non posso fare a meno di chiedermi cosa viene loro insegnato), il 49% degli infermieri hanno timore nel prendere sangue o trattare ferite: il 26% ritiene giusto indossare 2 guanti. Siamo al ridicolo sia professionalmente che scientificamente. Ma non è tutto! C’è ancora personale sanitario che preferisce non trattare pazienti trans (15%), sex worker (15%), MSM (14%), IDU (25%) a prescindere dallo stato sierologico. Fra le ragioni che motivano queste posizioni ci sono ovviamente la mancanza di formazione, ma c’è chi crede che tali gruppi di popolazione siano pericolosi per la salute del sanitario.

Le conclusioni sono abbastanza ovvie:

  1. È evidente che le PLWHIV temono di essere trattate in modo diverso nei centri clinici. Come risultato tendono ad evitare i servizi sanitari;
  2. C’è un gap di conoscenza fra gli operatori sanitari su U=U, PEP e PrEP
  3. Più è basso il livello di conoscenza più è alto il timore nel trattare le PLHIV e si alza il bisogno di precauzioni eccessive quanto inutili;
  4. Una percentuale notevole di operatori sanitari preferisce non fornire assistenza sanitaria alle popolazioni chiave, soprattutto IDU.

Si tratta di uno studio molto importante perché ci fornisce dati su cui basare le nostre strategie per combattere la discriminazione e l’ignoranza che la supporta.

Sandro Mattioli
Plus aps

Fortissimamente doxy. Si insomma pure qui si è parlato di doxyPEP, a fine giornata ma ne parlo subito.

Non sono state dette chissà quali novità, inoltre il tema è stato inquadrato dal punto di vista degli USA ma comunque i dati fanno spavento. Solo negli USA nel 2022 il CDC ha registrato 1,6 milioni di casi di clamidia (CT), quasi 650.000 casi di gonorrea (NG), 207.000 casi di sifilide. Dal momento che il CDC non è fatto da menomati mentali come da noi, ha chiarito subito che chiunque sia sessualmente attivo può prendersi una IST, ma ci sono alcuni gruppi di popolazione sul piano statistico registrano più contagi: giovani fra i 14 e i 24 anni, MSM, donne incinte, minoranze etniche. Ribadisco: sto scrivendo di dati statistici, ovvia che la clamidia non ha la volontà politica di colpire le donne incinte o gli afro-americani.

Da qui parte il bisogno dei ricercatori statunitensi di trovare uno strumento efficace, con quei numeri è anche comprensibile. Ed ecco che esce la doxyPEP. La dott.ssa Connie Celum, dell’università di Washington, ha presentato i suoi bravi dati sull’efficacia partendo dai primi del 2015, passando per lo studio Ipergay di Molina un open label del 2018 e DoxyVac del 2024, gli studi USA di Luetkemeyer sempre del 2023, di Fredricksen del 2024 che fissano intorno al 65% il calo delle IST usando la doxyPEP. Lo studio di Molina (anche gli altri a ben vedere) denuncia un calo inferiore nei casi di gonorrea. Da ulteriori approfondimenti si nota una propensione di gonorrea a resistere all’azione della doxyciclina questo sia nello studio di Molina del 2024 che in quello di Luetkemeyer del 23. In una slide dal titolo che succede se l’uso di doxyPEP incrementa la resistenza di gonorrea? Vengono fatte alcune ipotesi (nella logica generale del non si sa):

  • Può indurre resistenze anche in altre classi di antibiotici (dati limitati)
  • La doxyPEP smetterà di funzionare contro gonorrea?
    • Secondo lo studio DoxyVac ha continuato a funzionare nonostante il 65% di resistenza in Francia
    • La soglia di resistenza necessaria per avere un impatto su doxyPEP è sconosciuta
  • Compromesso: doxyPEP riduce l’incidenza di gonorrea e l’uso di cefriaxone del 50%

In conclusione:

  • gonorrea: aumento della resistenza alle tetracicline negli studi Doxy PEP e DoxyVacc
    • DoxyPEP può proteggere meno contro i ceppi resistenti
    • La sorveglianza dell’antibiotico resistenza in CG è importante
  • Clamidia: non sono state osservate resistenze
  • Sifilide: doxiciclina è un’alterativa utilizzabile nel trattamento della patologia
    • Nessuna resistenza alle tetracicline osservata su sifilide che invece diventa rapidamente resistenza all’azitromicina
  • diminuzione del tasso di colonizzazione stafilococco aureus. con aumento di resistenza alla doxiciclina
    • nessun aumento di resistenza a stafilococco aureus (MRSA)
  • impatto minimo sul microbioma intestinale, ma si registra un aumento di attivazione dei geni di resistenza alle tetracicline

si segnala la difficoltà di isolare l’impatto di doxyPEP nell’organismo stante che la doxiciclina può arrivare anche per altre vie come un trattamento per clamidia, altre infezioni, cibo. Con questo, e quanto già scritto dal simposio al CROI di Denver, spero di aver chiarito che non ci sono risposte definitive. Molto chiarificatrice l’immagine finale della ricercatrice, che potete vedere qui a fianco, prendi a mazzate una patologia e ne spuntano altre magari proprio a causa della mazzata.
A fine presentazione ho chiesto un parere alla dott.ssa Celum. Io ho l’impressione che i ricercatori USA siano meno preoccupati della gonorrea resistente di quelli europei, e lei ha confermato. Ma ha anche detto che qualcosa si sta muovendo anche in USA perché il problema si sta presentando anche li. Ossia il tema è presente e da monitorare.
Insomma siamo lontani dall’avere uno strumento perfetto ma, se non sbaglio era Voltaire a dire che le mieux est l’ennemi du bien.

A parziale ritrattazione di quanto scritto ieri, segnalo che sull’efficacia degli anticorpi monoclonali ampiamente neutralizzanti ci sono gli studi HVTN 703/HPTN 081 e HVTN 704/HPTN 085. Dovessero andare bene potrebbero essere una via per un vaccino contro HIV con qualche speranza di riuscita.
Potrebbero essere infusi indicativamente 2 volte all’anno. La cosa interessante è che si inizia a ragionare in termini etici sulla necessità di avere un braccio placebo nell’era della PrEP che comunque sarebbe considerata come standard di prevenzione anche in questi studi.

In merito alla PrEP è interessante lo schema di pro e contro proposto anche perché si incomincia a ragionare (preventivamente) di PrEP con gli bNABs (anticorpi neutralizzanti):

PrEP oralePrEP iniettiva(virtuale) PrEP con anticorpi neutralizzanti (bNABs)
ProProPro
– Opzione daily e on demand
– Flessibilità di implementazione
– Monitoraggio clinico minimo per quasi tutti
– Dati di efficacia in tutte le popolazioni
– Test HIV trimestrale
– Costo del TDF/FTC generico basso
– Efficacia superiore
– Aderenza giornaliera non richiesta
– Ogni 6 mesi (LEN) ogni 2 mesi (CAB)
– Discrezione nell’uso: non ci sono pillole in giro
– Efficacia (?)
– Frequenza di infusione (sei mesi?)
– Discrezione nell’uso: non ci sono pillole in giro
– Nessuna preoccupazione per la resistenza agli ARV
ControControContro
– Aderenza giornaliera o regime complesso
– Le pillole potrebbero non essere accettabili o preferite da tutte le persone
– Maggior numero di visite (CAB)
– Requisiti per il test HIV
– Costi e accesso al servizio
– Problemi logistico-organizzativi
– Infezioni da HIV problematiche (CAB)
– Procedure amministrative
– Durata della visita (?)
– Costi e accesso al servizio (?)

Ma intendiamoci, in Italia è utilizzabile solo la PrEP orale. La PrEP iniettiva è stata recentemente approvata da AIFA ma stanno ancora confrontandosi con ViiV per il prezzo. Non so dirvi di più perché da ormai diverso tempo non ci rende partecipe degli obiettivi né degli strumenti per raggiungerli. Speriamo per il meglio. La PrEP con bNABs, come ho scritto, è ancora lontana dall’essere sdoganata sul piano scientifico, figuriamoci su quello regolatorio.
Tuttavia è interessante che nelle conferenze scientifiche internazionali si vedano questo tipo di raffronti.

La sessione sulla situazione dell’America latina nella lotta contro HIV è sintetizzabile con la cascade relativa ai famosi obiettivi di UNaids, l’agenzia dell’ONU che si occupa di HIV, ossia i 95-95-95 (il 95% delle persone con HIV diagnosticate, il 95% in terapia ARV, il 95% undetectable). Tutt’altro che rosea come potete vedere dall’immagine. L’America latina se la gioca con le regioni messe peggio e, naturalmente, le persone più povere, a bassa scolarità, sono quelle più colpite. Capite perché mi sono così infastidito vedendo la protesta delle comunità indigene che IAS non ha fatto entrare nonostante fossero persone decorose e molto gentili anche se ferme nelle loro rivendicazioni.
Per quanto riguarda la PrEP con lenacapavir di Gilead, pare proprio che sia un farmaco fenomenale, con percentuali di successo del 96%, stando ai dati dello studio Purpose2, si è dimostrato superiore alla PrEP orale. Non mi dilungo perché se ho capito bene, ci sarà una sessione dedicata alla conferenza sui farmaci di Glasgow. Se tutto va bene vi racconterò qualcosa di più specifico dalla Scozia.

Una cosa è emersa molto chiaramente e da più relazioni: la PrEP deve essere semplificata. In questa conferenza si parla molto di ampliare la possibilità di prescrizione (chi lo dice ai nostri infettivologi?), agevolarne la distribuzione anche presso i servizi di comunità (come i PrEP Point), integrare la PrEP con altri servizi (per esempio peer-counselling, test per le IST), attivare servizi di tele PrEP o di digital PrEP, erogazione della PrEP nelle farmacie.

Speriamo che questi ragionamenti vengano trasferiti anche ad ICAR, la nostra conferenza su AIDS e ricerca antivirale.

Sandro Mattioli
Plus aps.

HIVR4P, che sta per research for prevention, è una conferenza dedicata alla prevenzione che la IAS organizza ormai da qualche anno. Quest’anno è la volta di Lima che ci ospita nel Westin Congress Center. Un luogo non molto adatto a questo tipo di conferenze che ospitano molte persone, soprattutto dal cosiddetto “terzo mondo” che usa questi eventi per rivedersi, parlarsi, scambiare pareri e best pratices. Il centro congressi è pensato per i contenuti: grandi sale piene di gente e piccoli corridoi o spazi dove parlarsi.
Detto questo le sale sono molto grandi e molto ben organizzate.

Se si parla di prevenzione è ovvio che si cominci con i vaccini. Vi dico subito, niente di eclatante! Del resto se qualcuno avesse scoperto un vaccino, verosimilmente saremmo al CROI non a HIVR4P, perché la scienza vive anche di palcoscenici oltre che di fondi.
Tornando al vaccino, le strategie vaccinali puntano molto sugli anticorpi neutralizzanti. Siamo ancora nella fase che ricerca la conferma della teoria, nella fase delle sfide, dei test su modelli animali, il che vuol dire che abbiamo ormai centinaia di topi transgenici immunizzati che, probabilmente, non si contageranno con HIV… forse. I modelli e gli approcci sono ancora vari, ma da ciò che ho ascoltato e credo di aver capito, sono argomento complicatissimi per un povero attivista, molte speranze sono riposte in questo tipo di anticorpi che, in effetti, iniziano a dare risultati interessanti in termini di immunizzazione. Non per caso hanno preso piede studi per capire quanto a lungo dura tale immunizzazione. Per ora sembra ancora un tasto dolente se devo dar retta alle curve di protezione che potete vedere nella foto: altissime nel periodo immediatamente successivo all’esposizione al vaccino, ma che crollano dopo relativamente poco tempo. Tutti ricordiamo i tempi di vaccinazione del virus del covid, tempistiche hanno innervosito molte persone e fatto perdere fiducia nelle reali capacità di tutela del prodotto. Quindi anche quelli di durata sono studi importanti. Personalmente vorrei vedere prima delle percentuali di immunizzazione più alte.

Ça va sans dire che anche la PrEP è uno dei temi centrali della conferenza e anche in queste fasi iniziali se ne sta parlando molto. In particolare sono state interessanti le esperienze portate da attivisti di Zambia e Perù. Entrambi lamentano ritardi nell’approvazione, difficoltà da parte delle autorità sanitarie nel farsi carico di questa sfida (ma anche opportunità visti i risultati!), ecc. Dal loro punto di vista è assolutamente comprensibile, ma non ho potuto fare a meno di pensare che Zambia e Perù sono Paesi poveri, senza grandi possibilità di investimento in termini di promozione di questo strumento di prevenzione molto efficace ma, ciò nonostante, hanno portato dati spesso più advanced di quelli italiani.

Zambia per esempio, ha introdotto la PrEP orale nel 2017 con uno studio pilota, nel 2018 la PrEP è stata inclusa nelle linee guida del Paese. In Italia PrEP è stata approvata (solo per chi poteva pagarsela a 60€ al mese) a ottobre 2017, non so se notate la similitudine. Nel 2023 è stata posta in carico al SSN.
Nel 2023, Zambia introduce la PrEP long acting iniettiva con Cabotegravir. In Italia credo che sia stata approvata quest’anno (2024) ma in merito al costo Aifa sta ancora discutendone per cui ancora non è disponibile, il tutto nel sostanziale silenzio delle associazioni.
Zambia oggi ha presentato i dati di raffronto fra PrEP orale e iniettiva fra (febbraio-settembre 2024). In effetti “solo” il 17% usa PrEP iniettiva contro l’83% di PrEP orale, ma intanto hanno prodotto dati cosa che in Italia è in carico al Terzo Settore o qualche studio di coorte, niente di ufficiale e comunque solo di PrEP orale ovviamente.

In Perù invece, la situazione è peggiore. L’attivista peruviano ha denunciato problemi di sistema all’accesso alla PrEP ed ha proposto una road map fatta di decentralizzazione dei servizi PrEP, campagne sui social media, formare gli health care provider sulle linee guida della PrEP, incorporare la PrEP iniettiva long acting con cabotegravir… per la serie ormai che ci siamo.

Nuovamente… nel nostro Paese potrebbe avere senso copiare quella road map stante che la PrEP da noi è erogabile (gratuitamente) solo nelle farmacie ospedaliere e solo da medici infettivologi (che poi lamentano il fatto che hanno troppe persone da seguire, ma in molti casi sono i primi ad avere difficoltà con la decentralizzazione), campagne pubbliche sui media non ne ho mai viste… è facile pensare che non ci sia la volontà politica di farla (perché si sa che chi usa la PrEP lo fa per far sesso senza preservativo), le linee guida italiane sono lontane dall’essere aggiornate e la formazione su di essere sarebbe verosimilmente priva di significato.
In sintesi il nostro ricco industrializzato Paese, membro del G7, ecc. se la gioca coi Paesi nella fascia a basso reddito e non certo perché ci mancano i soldi, perché in realtà da noi pesa l’approccio culturale cattolico che vede il sesso, e tutto ciò che gli gira intorno, come un tabù. È sufficiente vedere il livello di discussione sull’interruzione di gravidanza, sui contraccettivi, sulla pillola del giorno dopo, sullo stesso piano dei ragionamenti discriminatori che ancora vediamo su PrEP o su U=U.

A seguire un interessante quanto lungo simposio organizzato da ViiV dove si è parlato di una mezza dozzina di studi di implementazione di cabotegravir long acting (CAB LA) come PrEP. Buona parte degli studi arrivavano dall’Africa, ma anche dall’America Latina così come dagli USA e riguardavano gruppi di popolazione particolari: dalle giovani donne agli uomini che si spostano frequentemente per lavoro. Qualche persona ignorante in Italia avrebbe detto categorie a rischio, ma sono lieto di dire che a nessuno qui sarebbe venuta mai in mente questa favola. Il simposio è stato interessante perché ha mostrato come i vari studi hanno trovato varie soluzioni ai problemi territoriali o delle varie popolazioni coinvolte. Ma, dal mio punto di visto, ha mostrato chiaramente quale sia la politica di ViiV international sul tema della PrEP con CAB LA che viene portato avanti con forza, coinvolgendo le popolazioni esposte al rischio, aiutando e sostenendo i progetti di implementazione del CAB.

Mi chiedo se ViiV Italia sia stata messa a conoscenza di questa impostazione perché mi sembra che segua una logica politica tutta sua. Da qualche tempo in qua infatti, ViiV Italia sembra aver smesso di mettere al centro pazienti e PrEP user, non sembra particolarmente interessata all’aiuto delle associazioni e sta facendo approvare CAB LA come PrEP in totale solitudine, senza nemmeno tenere informate le associazioni dei progressi fin qui fatti, senza sostenere progetti di implementazione portati alla sua attenzione né su CAB LA usato come terapia contro HIV né come prevenzione dell’HIV. La direttrice medica ha semplicemente risposto no o addirittura creato problemi che hanno portato anche noi di Plus a smettere di presentare progetti tesi a implementare CAB LA iniettivo.

Questo modo di comportarsi, completamente al di fuori delle linee politiche di ViiV global ma anche in totale controtendenza rispetto al comportamento tenuto da ViiV Italia fino a pochi anni or sono, non si sta dimostrando efficace ed è servito solo a peggiorare i rapporti con le associazioni o, meglio, con alcune di esse, quelle meno disposte a vedere rovinati anni di buoni rapporti.

Detto questo vorrei anche stigmatizzare un altro fatto: mentre noi delegati brindavamo con il vino offerto da IAS, davanti al palazzo della conferenza la comunità indigena del Perù stava protestando perché Gilead avrebbe escluso il Perù dalle patenti gratis per lenacapavir. Non ho idea di quali siano stati i criteri di scelta di Gilead, in genere si dovrebbe guardare al pil e non mi pare che il Perù sia particolarmente ricco, in compenso la popolazione del Perù ha partecipato a diversi studi sul vaccino mosaico, sugli anticorpi neutralizzanti e anche su lenacapavir e ora viene ripagato in questo modo. Come se non bastasse gli attivisti hanno spiegato a me e a un dirigente della conferenza che la IAS ha chiesto loro di iscriversi per partecipare alla conferenza ad un prezzo di 730 USD, l’equivalente di 3 mesi di stipendio medio di un peruviano. Cifra irraggiungibile per la comunità indigena che vive alla giornata.

A fianco un gruppo di donne trans a protestare per ragioni simili. “mi hanno preso il sangue per tanti studi” – mi da spiegato un’attivista di Lesly dell’associazione Feminas – “ora mi sento come un topo da laboratorio. Abbiamo aiutato e per noi non cambia niente” e verosimilmente finito lo studio non avranno accesso ai farmaci che hanno contribuito a validare.

Tutto questo sull’avenida, per la strada perché non hanno l’autorizzazione di IAS a entrare per protestare sul palco.

Io sono basito! Alla conferenza mondiale AIDS di Montreal la comunità indigena è stata l’anima della conferenza. A quanto sembra per IAS questi sono indigeni meno degni e questo è inaccettabile. So bene di non essere una persona importante, ma sono pur sempre un membro di IAS e farò quello che posso per far si che queste associazioni possano dire la loro dal palco. Del resto è stata Hillary Clinton a dire che non c’è conferenza senza proteste.

La plenaria di inaugurazione ufficiale della conferenza inizia alle 16 e si trascina senza particolare entusiasmo, fino alla presentazione di Anne Philpott dal titolo Put Pleasure into Prevention.

Anne, che ha entusiasmato il pubblico, prima di iniziare la sua lecture tira fuori da una borsetta un femidom e lo apre presentandolo come un nuovo oggetto di piacere sessuale. Lo tira, lo stringe, lo tocca con fare erotico. Ci spiega che può essere inserito nella vagina, per chi ne ha una, o nell’anno. Quando metti la parte interna l’anello incomincia a muoversi e toccare qua e la, anche solo camminare diventa un piacere… si perché può essere inserito alcune ore prima del sesso. E poi c’è la parte esterna che va a toccare la clitoride, nulla vi vieta di toccarla anche voi ovviamente, e ancora di più va toccare la clitoride durante il sesso (con un uomo).

Una promo fantastica di ciò che ci attende con la sua presentazione. Finalmente qualcuno che parla di piacere sessuale, che dice che il sesso si fa principalmente per quello poi si è possibile anche la parte riproduttiva, l’intimità, l’amore, ma principalmente si fa per il piacere.

Ovviamente ha parlato in termini scientifici anche dei problemi che possono arrivare con i rapporti sessuali a partire dalle STI, ma ribaltando completamente la prospettiva appunto perché la base di ragionamento era il piacere. La ricerca del piacere sessuale è una delle basi fondanti di Plus. Il sesso è stato un problema per le persone MSM da decenni terrorizzate dal contagio. Plus fin dall’inizio ha cercato di smontare l’idea vetero cattolica del sesso come qualcosa di brutto, sporco, cattivo e pericoloso e ripartire dall’idea del piacere sessuale. Che è poi quello che abbiamo fatto come movimento di rivoluzione sessuale in epoca pre-HIV. La dottoressa Philpott è stata fenomenale e dobbiamo trovare il modo di farla venire in Italia a rompere qualche schema.

Sandro Mattioli
Plus aps

“È un problema dei gay!”

“È un problema degli africani!”

O peggio ancora: “perché farmi venire l’ansia per il test, nella peggiore delle ipotesi prenderò 1 pillola al giorno come per tante altre malattie. Non è un gran problema.”

Queste sono alcune delle risposte che ci vennero date all’Università di Bologna, quando aiutammo un gruppo di studentesse per una tesi che comprendeva una piccola survey.
Non ne sono particolarmente stupito per vari motivi.
In molti dicono che di HIV non se ne parla più, lo dicono soprattutto coloro che si occupano di informazione e, di conseguenza, di fare cultura sul tema. Ma c’è dell’altro: quando se ne parla in termini “seri”, si tende a normalizzare HIV e tutto ciò che gli gira intorno: i test, le terapie, ecc.

Ma è davvero così?

Una cosa è vera: di HIV non se ne parla molto e, grazie a questo, oggi ci troviamo a sguazzare in una situazione di ignoranza generale. In questo quadro la normalizzazione richiamata spesso dagli stessi specialisti, finisce per essere un danno. Ormai buona parte della popolazione non considera più HIV un problema o al massimo lo relega in ambiti particolari: il mondo omosessuale, chi è promiscuo, ecc.

In altre parole piano piano stiamo tornando alle idiozie che i bravi cattolici sostenevano negli anni ’80 quando addirittura il ministro della sanità dichiarava che l’infezione se la prende chi se la va a cercare. Del resto era in buona compagnia: la gerarchia cattolica non era da meno, fior di cardinali e perfino due papi si sono battuti affinché fosse l’etica cattolica a guidare la lotta contro questa epidemia mondiale, con buona pace delle informazioni scientifiche.
Del resto anche negli Stati Uniti, land of the free, ci fu chi propose al Congresso di chiamare G.R.I.D. (gay related immunodeficiency disease) quello che oggi, per fortuna, si chiama AIDS.

Torniamo al tema ma restiamo negli anni ’80. Keith Haring, uno dei padri della street art e della cultura pop, nel 1989 produsse un’opera diventata il manifesto della lotta contro HIV, dal titolo quanto mai attuale Ignorance = Fear / Silence = Death. La parte “Ignoranza = Paura” ci spiega come la mancanza di conoscenza su HIV fa sì che le persone abbiano paura di questa infezione e delle persone HIV positive, mentre la parte dell’immagine “Silenzio = Morte” rappresenta come la mancanza di consapevolezza e conoscenza porterà a più sofferenza e morte per le persone.
Chissà, forse è per questo che ancora oggi un milione e mezzo di persone ogni anno si contagiano. E non solo in Africa, come sosteneva quello studente ignorante, ma anche in Europa. In termini di contagi la situazione in Europa orientale e in Russia in particolare non ha niente da invidiare all’Africa Sub Sahariana.

Anche solo per il fatto che i contagi non calano nonostante gli indubbi passi in avanti della ricerca, avremmo dovuto capire che HIV non è affatto finito ed è ancora un problema. Ma è proprio grazie alla ricerca che sappiamo qualcosa di più.

Da un punto di vista patogenetico, è cosa nota che HIV cerca di distruggere il nostro sistema immunitario e ci rende attaccabili da patologie molto pericolose. Su questo punto la ricerca ha prodotto farmaci molto potenti che riducono ai minimi termini la replicazione virale bloccando ad HIV la strada verso l’AIDS.

Tuttavia l’azione del virus non è solo questa.

Infatti HIV non solo distrugge il sistema immunitario, ma lo attiva. La solo presenza di HIV, anche residuale, è in grado di attivare il nostro sistema immunitario e, come naturale conseguenza, si attiva anche un processo infiammatorio sistemico e cronico.
In effetti in un organismo sano il sistema immunitario si attiva solo quando necessario, mentre in chi ha HIV è sempre attivo.
Questa attivazione non fa bene al nostro corpo, è come avere un campanello d’allarme che squilla incessantemente in tutto l’organismo. Un campanello che provoca un lento logoramento degli organi, reni, ossa, cervello, ecc. e facilita la formazione di neoplasie. Non è un caso infatti che la popolazione con HIV abbia un’incidenza di problemi oncologici palesemente più alta della popolazione generale e tenda ad invecchiare più rapidamente rispetto ai pari età della popolazione generale. Nella mia esperienza ho potuto ascoltare le relazioni di diversi geriatri che affermano che i problemi che trovano nei loro pazienti nella decade degli 80 anni, come la sindrome geriatrica per esempio, li ritrovano in pazienti con HIV nella decade dei 60 anni, in qualche caso addirittura prima.

Quello che ci serve è una cura che eradichi HIV. Come qualunque paziente di qualunque patologia noi vogliamo guarire, senza se e senza ma.
Purtroppo i ma ci sono eccome perché la ricerca scientifica è ben lontana da questo obiettivo e, stante il fatto che non se ne parla, non sappiamo neppure se si stia occupando del tema.

Quello che sappiamo è che qui e ora non abbiamo né eradicazione né remissione, per tacere del vaccino i cui studi vengono fermati uno dopo l’altro per manifesta inefficacia.

A mio parere l’attivismo, le associazioni, dovrebbero tenete presenti questi temi, tenerli alti e favorire la discussione politica, scientifica e sociale.
In tutto questo fare il test, essere consapevoli del proprio stato di salute è ancora molto importante. Una diagnosi precoce e il conseguente inizio precoce del trattamento è decisamente meglio che arrivare alla diagnosi di HIV quando si è ormai in AIDS o prossimi a diventarlo e quando HIV ha riempito i serbatoi di virus latente.

Il test per HIV è ancora necessario. Fate il test, alla peggio mangiate un ansiolitico, ma fate il test. Fatelo al BLQ Checkpoint, in ospedale, dove volete ma fatelo. Almeno una volta all’anno o con la frequenza adatta alla vostra vita sessuale.

Sandro Mattioli
Plus aps

Per la serie a volte ritornano ecco rispuntare la frase categorie a rischio, questa volta addirittura nel programma di una conferenza sulla salute organizzata da Motore Sanità e, per giunta nella parte su HIV ed epatiti virali dove chi scrive è stato chiamato a parlare. È vero che la conferenza prende le mosse da quello che chiama “pensiero creativo”, ma un limite alla mancanza di conoscenza.
Chiunque si sia minimamente interessato ad HIV e ha messo il naso fuori dai reparti di malattie infettive, dove verrebbe da credere quella frase non ha mai perso di efficacia, dovrebbe cogliere al volo il peso di quella frase.

Chiariamo subito: nessuno studio, scientifico, sociale, psicologico o terrapiattista ha mai dimostrato che HIV ha una volontà politica di colpire questa o quella parte di popolazione.
Semmai sono comportamenti a rischio di contagio. Ma in questo triste e ignorante Paese è chiaramente più comodo dare la colpa dell’infezione a fette di popolazione. Si identifica un “nemico” e ci si mette il cuore in pace.

Così per anni si è creduto che HIV fosse la malattia dei gay, al punto che qualcuno propose di chiare GRID (gay related immunodeficiency disease) quello che poi si sarebbe chiamato AIDS. Poi, guarda un po’, HIV inizio a colpire anche gli injection drug user (IDU), poi tutti e ancora oggi – come è sempre stato del resto – è una patologia che può colpire chiunque sia sessualmente attivo. Ma la paura o l’ignoranza, scegliete voi, è più forte della scienza – soprattutto se anche clinici e ricercatori usano “categorie a rischio” – e quindi ancora oggi, dopo oltre 40 anni di epidemia globale, per buona parte della popolazione italiana HIV è la patologia dei gay, degli africani, dei drogati e la discriminazione prosegue con grande soddisfazione di HIV che può contare su un vasto bacino di diagnosi tardive

In effetti chi non è né gay, né IDU, né africano perché mai dovrebbe farsi un test. Ecco come HIV prosegue la sua corsa in Italia, grazie al pressappochismo di chi dovrebbe prestare attenzione a cosa scrive, e all’ignoranza generalizzata di un Paese dove tutti dicono che di HIV non se ne parla più. Tutti, a partire dai giornalisti che dovrebbero informare al popolazione ma scrivono titoli da inquisizione spagnola o mettono in piazza lo stato sierologico di chiunque, con buona pace delle leggi vigenti a partire dalla 135/90.

Leggere di categorie a rischio nel programma di una conferenza scientifica equivale a mandare indietro la cultura sociale dell’Italia su HIV di decenni e pure a pedate, perché avvalora una sciocchezza ascientifica agli occhi di chi non conosce la materia o è troppo superiore per occuparsi di questioni semantiche (come mi è stato già scritto). In un attimo tutto quello che è stato fatto da grandi attivisti, dai principi di Denver a U=U, viene spazzato via.

Vi do per certo che in molti cercheranno di minimizzare, sta già succedendo. Qualcuno mi ha detto che non è il caso di farne una questione di stato, altri al telefono mi hanno detto “io sono una categoria a rischio”, altri, peggio ancora, hanno cercato di avvalorare la frase dicendomi che, in fin dei conti, è la versione italiana di key population, ossia popolazioni chiave che sono quei gruppi sociali che l’epidemiologia ci indica come più esposti al rischio di contagio perché al loro interno i comportamenti a rischio tendono ad essere più frequenti, spesso proprio a causa della marginalizzazione a cui sono soggetti. È una definizione universalmente accettata se non ché nel resto del mondo a nessuno verrebbe in mente di generalizzare o dire che l’intera popolazione “X” ha l’HIV. Inoltre nel resto del mondo si attivano politiche di prevenzione rivolte a quelle popolazioni per modificare o limitare i comportamenti a rischio. In Italia invece vengono additate e marginalizzate. Del resto negli ultimi 40 anni io non ho mai visto in Italia una campagna di prevenzione rivolta a gay o a sex worker, campagne che altri Paesi anche meno ricchi di noi fanno da anni. Da noi al massimo abbiamo messo un alone viole intorno a qualcuno e, per anni, abbiamo preteso di difendere gli italiani con l’etica cattolica invece che col condom.

Ecco cosa si nasconde dietro la frase categorie a rischio. C’è un Paese che, per quanto sia ai primi posti nella clinica, deve ancora fare molta strada sul piano sociale.
Una strada che periodicamente va riasfaltata perché qualche sciagurato si diverte a farci dei buchi.
Per HIV non esistono né cura né vaccino ed è un’infezione a trasmissione sessuale. Quindi deve essere combattuto sul piano scientifico e su quello sociale, altrimenti fra altri 40 anni saremo ancora qui a chiederci se sia la malattia dei gay.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Anche se la protezione indotta dal vaccino può scemare dopo 36 mesi, il vaccino MenB-4C rimane moderatamente efficace contro la gonorrea.

Il vaccino MenB-4C, un vaccino meningococcico sierogruppo B a membrana vescicale esterna, è moderatamente efficace contro la gonorrea in varie popolazioni, secondo i risultati dello studio pubblicati su The Journal of Infectious Diseases.

I ricercatori hanno condotto una revisione sistematica e una meta-analisi per sintetizzare la letteratura pubblicata sull’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea. Sono stati ricercati nei database manoscritti sottoposti a revisione paritaria pubblicati in inglese tra gennaio 2013 e luglio 2024 che valutassero l’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea e la coinfezione gonorrea/clamidia, nonché la durata della protezione indotta dal vaccino. È stato utilizzato un modello a effetti casuali DerSimonian-Laird per stimare l’efficacia del vaccino combinato contro la gonorrea. Sono stati inclusi nell’analisi 8 articoli in totale, 4 dei quali sono stati condotti negli Stati Uniti, 2 dei quali sono stati condotti in Australia, 1 dei quali è stato condotto in Italia e 1 dei quali è stato condotto in Francia. Le fonti dei dati includevano registri di sorveglianza delle infezioni sessualmente trasmissibili (IST) collegate e registri di sistema informativo di immunizzazione, cartelle cliniche elettroniche e uno studio clinico randomizzato. L’unità di analisi dell’efficacia del vaccino era a livello di persona e di infezione in 5 e 3 studi, rispettivamente.

Le stime dell’efficacia del vaccino contro la gonorrea tra adolescenti e giovani adulti di età compresa tra 15 e 30 anni variavano dal 23% al 47% in 7 studi osservazionali. Due studi hanno dimostrato che 2 dosi di vaccino erano efficaci dal 32% al 33% contro la gonorrea negli adolescenti e nei giovani adulti di età compresa tra 15 e 25 anni. In uno studio su uomini adulti che hanno rapporti sessuali con uomini affetti da HIV e in cura per l’HIV, 2 dosi di vaccino erano efficaci al 44% contro la gonorrea. In un altro studio, 2 dosi contro nessuna dose di vaccino erano efficaci al 40% contro la gonorrea, mentre 1 dose contro nessuna dose di vaccino era efficace al 26%.

Sulla base di 9 stime da 8 studi, l’efficacia complessiva del vaccino contro la gonorrea dopo almeno 1 dose di vaccino era del 32,4% (95% CI, 26,2-38,7). Non è stato osservato alcun bias di pubblicazione o eterogeneità dello studio.

In un’analisi di sensibilità di 7 studi osservazionali, l’efficacia complessiva del vaccino contro la gonorrea dopo almeno 1 dose di vaccino è stata del 33,5% (95% CI, 26,9-40,1). Allo stesso modo, non è stato osservato alcun bias di pubblicazione o eterogeneità dello studio.

Un totale di 4 studi ha valutato l’efficacia del vaccino MenB-4C contro le monoinfezioni gonococciche. Due dosi di vaccino sono state efficaci al 31,6% e al 28,3% contro la monoinfezione secondo 2 studi. Un altro studio ha dimostrato che 2 dosi e 1 dose sono state efficaci rispettivamente al 40% e al 26% contro la monoinfezione. Il quarto studio ha rilevato che almeno 1 dose di vaccino è stata efficace al 23% contro le monoinfezioni.

L’efficacia del vaccino MenB-4C contro la coinfezione da gonorrea/clamidia è stata presa in considerazione in 4 studi. Due studi hanno dimostrato che 2 dosi di vaccino erano efficaci al 32,7% e al 44,7% contro la coinfezione. Altri 2 studi hanno indicato che il vaccino non era efficace contro la coinfezione.

Le limitazioni dello studio includono l’esclusione di articoli non pubblicati in inglese, piccole dimensioni del campione, risultati poco generalizzabili e potenziali bias di segnalazione e classificazione errata.

Secondo 1 studio che ha valutato la durata della protezione di 2 dosi di vaccino contro la gonorrea, l’efficacia contro la gonorrea entro 6-36 mesi dalla vaccinazione rispetto a oltre 36 mesi dalla vaccinazione era significativamente più alta (rispettivamente 34,9% contro 23,2%). Altri due studi con periodi di follow-up mediani di 37 mesi e 45 mesi hanno dimostrato un’efficacia di 2 dosi rispettivamente del 40% e del 44%.

Secondo i ricercatori “Sono urgentemente necessari dati provenienti da studi clinici in corso che stanno valutando l’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea (genitale ed extragenitale) e la coinfezione gonorrea/clamidia e che stanno studiando un correlato di protezione immunitaria”.

articolo tradotto da EATG 1/9/2024

Per la prima volta nella sua storia ormai decennale, il BLQ Checkpoint chiede un contributo economico alla comunità.

E la comunità sta rispondendo bene.

Chi lo desidera contribuire, può farlo donando via:

  • Paypal
  • Eppela
  • oppure via bonifico: Codice Iban: IT57B0623002402000057898117 Crédit Agricole, via Marconi 16 Bologna – Plus aps – causale: erogazione liberale ambulatorio

Questi sono i motivi per cui stiamo coinvolgendo la comunità e tutti gli amici del BLQ Checkpoint.

È difficile riassumere il lungo lavoro che ha portato all’apertura a Bologna del primo Checkpoint italiano nel 2015. Un lavoro di advocacy di quasi 9 anni!
Nove anni spesi a cercare di far capire alle autorità regionali cosa fosse un centro di comunità, quali fossero le potenzialità di un approccio community based nella lotta contro HIV e le altre infezioni a trasmissione sessuale.
Ci siamo infine riusciti con grande fatica… ma forse no in realtà, se è vero che ancora oggi in Regione di fatto non sanno cosa facciamo, nonostante i report che ogni anno sono stati scritti a dimostrazione del lavoro svolto con i 35.000€ che la Regione eroga per il servizio.

9 anni di advocacy preparatoria e 10 anni di attività sempre precaria perché l’accordo con USL Bologna si rinnova di anno in anno, rendendo di fatto impossibile qualunque programmazione che coinvolga l’Azienda Sanitaria.

Nonostante i problemi e lo scarso interesse dell’autorità sanitaria, siamo andati avanti cercando fondi nel privato (che, al contrario, conosce bene il valore dei Checkpoint ben presenti in buona parte dell’Europa comunitaria) grazie ai quali siamo riusciti aprire nel 2018 un servizio PrEP rivolto a persone ad alto rischio di contagio per HIV.

Grazie al PrEP Point abbiamo messo in PrEP 320 persone, di cui abbiamo quasi 170 seguiti direttamente da noi.
Il servizio ha aperto nel 2018 non appena AIFA ha autorizzato il farmaco per la PrEP (Emtricitabina/Tenofovir DF), cosa resa possibile grazie al nostro lavoro preparatorio iniziato nei primi mesi del 2013, subito dopo l’approvazione del farmaco da parte della statunitense FDA.

Grande fatica, ma anche grandi soddisfazioni da parte degli utenti che hanno risposto in tanti, così come per la collaborazione del S. Orsola dott. Badia in primis e tutti i colleghi che ci danno una mano in forma volontaria, come, del resto, è volontario anche il personale infermieristico che ci aiuta con la raccolta dei campioni.

Sembrava che tutto funzionasse e che, per una volta, venisse data importanza alla salute dei cittadini. Nel maggio 2023, AIFA decide di concedere il rimborso della PrEP che passa a carico del SSN, quindi gratis per gli utenti, su prescrizione del medico infettivologo. Con una circolare la nostra Regione specificherà che l’infettivologo potrà prescrivere solo in orario di lavoro, solo nel suo ambulatorio malattie infettive o ambulatorio PrEP, ponendo di fatto il PrEP Point e i suoi utenti in una situazione quanto mai precaria dovuta al fatto che, a causa della circolare, i medici del S. Orsola che vengono da noi non avrebbero più potuto prescrivere la PrEP. Si prospettava un percorso assurdo che avrebbe costretto gli utenti a fare i test da noi, per poi passare in ospedale per la visita e la prescrizione, indi in farmacia ospedaliera per ritirare il farmaco, rendendo il tutto molto farraginoso.

Ovviamente Plus non ha lasciato correre perché c’era in gioco la sieronegatività di utenti ad alto rischio che l’ambulatorio PrEP del S. Orsola, come ci ha spiegato il direttore prof. Viale, non è in grado di assorbire oggi per domani tutti i nostri utenti.

Abbiamo quindi posto il problema all’Assessore Regionale Donini che ha dato disposizioni per risolverlo e la soluzione trovata – senza mai invitare Plus alle riunioni – è stata quella di realizzare un ambulatorio medico all’interno della sede del BLQ Checkpoint.

Sembra una cosa semplice ma non lo è affatto. Ci sono moltissime regole tecniche a cui ottemperare: metri quadri, luce e cubatura aria, lavabilità di muri e pavimenti, ecc., che, verosimilmente, fanno aumentare i costi. Per tacere della nomina di un direttore sanitario che non ci possiamo permettere. Solo per la ristrutturazione, siamo già a circa 20/25.000€ una spesa che, al momento, nessuno si è offerto di sostenere, incluso il Comune di Bologna che è il padrone di casa. L’Assessore Regionale si è detto disponibile a parlarne ma siamo in periodo pre-elettorale e non è chiaro come sia possibile muoversi.

Verosimilmente Plus dovrà cercare i soldi necessari altrove, e abbiamo iniziato con voi.

Un abbraccio.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Dal qualche settimana stiamo assistendo alla presa di posizione dell’ordine dei biologi contro la possibilità di effettuare alcuni test di screening nelle farmacie. In pratica gli stessi test che fa il BLQ Checkpoint e tutti i centri community based italiani, così come tutti i Checkpoint in UE e da molti anni prima di noi.

In generale gli interventi che ho ascoltato sono spudoratamente corporativi e sostanzialmente ignoranti, ovviamente nel senso buono del termine. Nessuno nega che i test ufficiali effettuati nei laboratori di microbiologia siano i più attendibili sul mercato, ma il punto è che – per fare una battuta – non hanno mercato, ossia mediamente le persone fanno fatica ad andare in ospedale, farsi prevelare un campione che poi verrà inviato al laboratorio. Fanno fatica sia per gli orari assurdi degli ambulatori che costringono chi lavora a prendere fior di permessi che, in un mondo del lavoro precarizzato, raramente sono fattibili, sia perché in ospedale ci si entra quando si è malati non per fare prevenzione che, in effetti, dovrebbe essere fatta in altri luoghi. Quindi perché non la farmacia?

I vari tipi di test di screening hanno sicuramente dei limiti che vanno spiegati agli utenti. In genere le spiegazioni vengono comprese dalle persone e sono tali persone che devono essere messe nelle condizioni di scegliere se correre un rischio oppure no. Deve essere chiarito il periodo finestra, si deve tenere conto del periodo di incubazione del patogeno, temi che, del resto, riguardano anche i test di laboratorio… o si crede che in laboratorio un test per sifilide fatto a 2 giorni dal possibile contatto sia attendibile?

Si parla tanto di diffondere i test rapidi in modo da limitare le diagnosi tardive, ancora molto presenti in HIV per esempio, un campo dove l’Italia è fra le peggiori nazioni d’Europa.

Pur tenendo conto dei limiti dei test di screening che, del resto, sono test per i point of care non per gli ospedali, l’aiuto delle farmacie sarebbe perfetto.

Le farmacie sono disseminate lungo l’Italia in modo capillare in una logica di prossimità che potrebbe essere di grande aiuto e, soprattutto, sono tante: il nostro Paese vanta 100.000 farmacie. Se anche solo il 50% di esse accettasse questo nuovo ruolo, potremmo ottenere un incredibile incremento della possibilità di testing nel nostro Paese.

Invece no! Levata di scudi dei biologi tesa a mantenere in casa questo piccolo potere. Non che sia una novità, lo abbiamo visto anche su altri temi come quello della PrEP che potrebbe benissimo essere prescritta da un medico formato e invece chi vuole accedere a questa prevenzione deve ottenere una visita dallo specialista in infettivologia. Chissà come mai.

Con questa logica protezionista da bottega, chi ci andrà a guadagnare sono i batteri e i virus che proseguiranno per la loro strada, già li vedo applaudire e ringraziare per l’aiuto a mantenere lo status quo.

Sandro Mattioli
Plus aps

La conferenza è finita ed è ora di tirare le somme.

È stata la prima conferenza mondiale AIDS tenuta in Europa da anni, l’ultima è stata a Vienna nel 2010 se ben ricordo.
Plus ha deciso di investire con la partecipazione di ben sei attivisti. Immagino che anche gli altri 5 scriveranno due righe per il portale di Plus. Avrei voluto aggiungere uno spazio associativo nel Global Village ma gli affitti dei boot sono davvero stellari e per le associazioni dovrebbero essere decisamente più abbordabili.

Alla conferenza di Montreal due anni fa avevamo notato una contrazione degli spazi del Global, ma l’abbiamo attribuito alla situazione post covid. Oggi è chiaro che il problema sono i fondi, non tutti possono permettersi di spendere tanto per affittare spazi, portare attivisti che li popolino, il materiale necessario ecc. Quest’anno abbiamo fatto il possibile. Fra due anni spero che la IAS riveda il listino prezzi. Capisco che organizza una conferenza planetaria ma c’è un limite all’ingordigia. Limite che si è manifestato anche nella scelta della città, dello Stato ospitante, che ha comportato l’assenza di numerosi partecipanti ai quali la Germania non ha rilasciato il visto. Il Cancelliere Scholz, nel suo intervento, ha sottolineato i due miliardi che il suo Paese dona al fondo per HIV, TB e malaria. È evidente che le due cose combaciano.

Si è decisamente trattato di una conferenza mondiale, il numero esagerato di sessioni parallele sta li a dimostrarlo. Non ho visto grandi comunicazioni sul piano scientifico. Si è parlato molto della nuova molecola di Gilead, il lenacapavir, della quale sono stati comunicati i dati dello studio che ne prevede l’uso come PrEP iniettiva due volte l’anno ma a un prezzo stimato di 40.000 dollari. Si insomma la solita solfa: Gilead greed, l’avidità di Gilead, è stata immediatamente stigmatizzata dalle associazioni di pazienti presenti, anche in modo rumoroso… quest’anno lo stand di Gilead non è stato distrutto ma comunque ha vissuto bei momenti. Voi direte che i miliardi che Gilead investe per la ricerca di queste molecole hanno un peso nella definizione dei prezzi finali dei loro farmaci. Verissimo. Ma resta il fatto che per i due terzi del mondo questi prezzi non sono sostenibili. Verosimilmente questo tipo di PrEP sarebbe risolutiva proprio nei Paesi dove HIV è endemico, dove le donne che assumono la PrEP orale a volte vengono perfino aggredite, dove il rifornimento di pillole – per esempio nelle zone rurali distanti da tutto – non è sempre facile e l’aderenza ne risente. Dal momento che Gilead non iscriverebbe a bilancio neppure 1 centesimo proveniente da queste zone, tutti ci siamo chiesti perché non attuare delle politiche meno stronze e consentire la produzione locale di questo farmaco e, soprattutto, perché ogni volta lo dobbiamo ripetere.

Ci è stata data notizia di un altro paziente guarito da HIV grazie a un trapianto di staminali. Ci fa molto piacere per lui, speriamo di cuore che tutto proceda per il meglio, anche perché si tratta di una persona leucemica per cui i problemi sono molteplici. Detto questo spero che sia chiaro a tutti che non possiamo metterci in fila e farci fare questo tipo di trattamento molto pericoloso sperando di guarire da HIV. Tutti ci stanno dicendo che possono nascere nuove idee per una cura, quando vedrò studi scientifici nati da quelle idee sarò sicuramente più interessato. Il primo paziente guarito da HIV risale al 2007 e, per quello che ci è dato sapere, non mi sembra che le possibilità di cura si siano smosse dal trapianto su persone leucemiche. Nel frattempo purtroppo il primo paziente è morto nel 2020 di leucemia.

Nella conferenza mondiale AIDS di Monaco il dato positivo e di grande valore lo hanno tirato fuori i pazienti, i veri protagonisti di questa conferenza. Presenti sempre sul palco, previsti oppure no, sono stati i pazienti a segnalare le persistenti disuguaglianze che portano morti per AIDS (1 ogni minuto) e 1,3 milioni di nuovi casi di HIV all’anno. Ma stiamo scherzando??
Finalmente una conferenza dove ci siamo raccontati con le nostre speranze e le nostre imperfezioni (cito l’impressionante discorso in chiusura del ragazzo IDU, con le mani quasi paralizzate, grandi speranze nel cuore e parole talmente forti da alzare un monte).

E poi le proteste.

Nella conferenza di Washington, Hillary Clinton disse che senza proteste non c’è conferenza. Monaco non è stata da meno.
Trans rights now,
Sex work is work,
Lives over profit,
Communities are experts
sono stati gli slogan più efficaci.

Dalle proteste rumorose contro l’avidità di big pharma, a quelle arrabbiate per chi non ha ottenuto il visto e perché in pochissimi hanno parlato di Palestina, fino a quella garbata delle due sex worker africane che hanno interrotto la relatrice intonando un canto e coinvolgendo la relatrice in un balletto improvvisato, per poi raccontarci della discriminazione che subiscono le sex worker in un crescendo di toni accorati, fino a gridare che la pazienza è finita: stop discrimination, now!

La contestazione più riuscita ha visto gli attivisti e le attiviste raggiungere il palco centrale indossando camici da medici. Evidentemente qualche attivista a cui non è stato consentito l’accesso deve essersi sentito rispondere che gli esperti sono i clinici, i ricercatori. In effetti noi siamo solo quegli stronzi che vivono tutto questo schifo sulla loro pelle, siamo le comunità che vivono con l’HIV, siamo la spina dorsale della risposta all’HIV negli ultimi 40 anni. Gli attivisti lo hanno chiarito bene: we are expert. Il premio alla miglior scritta sul camice va a I dare you, vi sfido, I dare you to find a problem that communities cannot solve… Communities are expert.

Noi siamo esperti. Noi disegniamo, indirizziamo, partecipiamo agli studi scientifici; noi orientiamo i decisori politici, noi spingiamo affinché i risultati degli studi scientifici entrino nella pratica clinica, nella vita quotidiana delle persone che vivono con HIV; noi lottiamo per sconfiggere l’ignoranza e il silenzio che portano discriminazione, stigma e aumento dei casi di HIV. Noi siamo quelli che la Germania, gli USA e tanti altri stati non vogliono sul loro territorio perché siamo gay, sex worker, IDU, trans, migranti, persone criminalizzate e marginalizzate dalle leggi di Stati che si vantano della loro secolare democrazia sulla quale Pericle, vi do per certo, avrebbe pianto.

Le comunità a Monaco hanno tracciato la strada:

serve un’azione politica radicale, basta con i discorsi teorici, è necessario dare gambe alle parole.
Decriminalizzare l’omosessualità, il lavoro sessuale, il possesso e l’uso di droga, la trasmissione dell’HIV.
Concentrarsi sulla solidarietà tra i movimenti, sulle collettività e sulla giustizia sociale, dove ognuno fa la propria parte e agisce in solidarietà per amplificare gli sforzi degli altri.
Rivedere la governance di aiuti e donazioni secondo un modello di investimento solidale globale, per tutti i paesi di tutti i livelli di reddito, basato sul principio “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Liberare i paesi in via di sviluppo dalle catene del debito: gli aiuti non sono un regalo, ma giustizia dovuta per le devastazioni del colonialismo e dell’imperialismo che sono concausa, se non la causa, dell’impatto sproporzionato di HIV nei paesi in via di sviluppo.
Agire in modo proattivo e fermare i movimenti provita, antigender e così via che sono non già un sostegno ai valori tradizionali, ma una minaccia alla salute.
Finanziare a lungo termine le comunità i cui leaders devono essere posti al centro, coinvolti in ogni tipo di piano, politiche e programmi di lotta contro HIV o che hanno un impatto nella risposta contro HIV. “Niente su di noi senza di noi” (Denver 1983).
Interventi a supporto della salute mentale devono essere previsti in ogni iniziativa, programma nella lotta contro HIV.
Continuare ad esaminare come le determinanti politiche della salute (leggi e loro applicazione) influenzano e determinano situazioni di vulnerabilità rispetto alla salute, all’accesso alla prevenzione, al trattamento e all’aderenza al trattamento.

Troppa roba? Può darsi, ma c’è una speranza, “mio dio, io vivo di speranze”: Beatriz Grinsztejn è la nuova Presidente della IAS. È brasiliana, è lesbica annuncio messo li quasi per caso dalla Presidente, ma accolto con grande entusiasmo dalla platea. Chissà che a garota lésbica do Brasil non cambi le cose.

Sandro Mattioli
Plus aps.

La plenaria di oggi è stata particolare, come si dice di solito quando non ci piace qualcosa. È iniziata con un complesso ma interessante “a che punto siamo” sul tema della remissione che, in estrema sintesi, vuol dire lasciare HIV nel nostro corpo ma controllarne la replicazione. Come questo possa combattere l’attivazione immunitaria e la relativa infiammazione che ci porta ad avere una serie di problemi di salute, non mi è chiaro. Tuttavia, ragionando in direzione di una cura, sempre che la remissione sia l’unico obiettivo non irraggiungibile con le conoscenze attuali. In altre parole di guarire non se ne parla neanche.

La cosa insolita è che ne parlano pochissimo anche i pazienti, gli attivisti, le associazioni di pazienti che pur dovrebbero avere questo ambizioso obiettivo ben presente quantomeno sullo sfondo di ogni decisione politica e di ogni progetto. Mah… siamo strani.

La relatrice, Melania Ott, ci ha informato del fatto che l’HIV nei reservoir anche se silente comunque trascrive. Secondo lei se riuscissimo ad attaccare questa trascrizione raggiungeremmo la remissione. In realtà noi non abbiamo farmaci che bloccano la trascrizione per cui è tutto da inventare. Alcune molecole, che sono in fase di studio, potrebbero fungere da inibitori della trascrizione e prevenire la riattivazione dalla latenza.

La successiva relazione è stata tenuta da Ricardo Leite che ha cercato di convincerci sul valore dell’intelligenza artificiale nei vari campi della lotta contro HIV, prevenzione e gestione del paziente inclusa. Al netto delle potenzialità dello strumento, il dott. Leite sembrava che volesse venderci un qualche prodotto miracoloso con uno stile di vendita molto USA forse utile per vendere auto usate ma fastidioso in una conferenza mondiale. Tuttavia una cosa giusta l’ha detta: ormai gli ospedali sono imprese e ragionano troppo spesso in termini di produttività, neanche fossero la Ford. In effetti sentiamo spessissimo ragionane in termini di numeri di test effettuali, di esami eseguiti ma molto meno spesso osserviamo come stanno i pazienti. Quindi rimettere al centro il paziente… ok non è una cosa nuova, ma la similitudine fra la catena di montaggio di Ford e gli ospedali l’ho trovata molto efficace. Che sia la AI la soluzione non lo so ma sicuramente può essere un aiuto anche senza arrivare a proporre dei bot la posto dei medici.

L’ultima presentazione ce l’ha fatta, credo per la prima volta in una plenaria, Gesine Mayer-Rath di professione economista. In una articolata e francamente noiosa presentazione, ci ha spiegato come misurare l’impatto economico. Per esempio ci si può basare sul “capitale umano” ossia le persone, è possibile aggiungere la produttività, i costi di produzione e distribuzione, ecc. ecc. tutto decisamente al di la delle mie misere capacità, ma continuo a pensare che il fattore umano non possa che travalicare tali calcoli soprattutto quando si tratta di decidere di salvare la vita a qualcuno. Vorrei ricordare che non poi un milione di anni fa, la prestigiosa rivista Forbes sosteneva che trattare HIV non paga. Per cui comprenderete che l’attenzione su certe teorie possa tendere a scemare. Per fortuna la relatrice è dell’altra parrocchia e arriva a calcolare che per ogni dollaro speso nel rispondere alla crisi HIV, ci si guadagna da 1 a 3 dollari in “capitale umano”, che salgono da 2 a 13 dollari se prendiamo in considerazione una serie di fattori. Siamo salvi.

Accenno anche a due sessioni parallele a cui ho partecipato. La prima riguarda il tema della discriminazione. Due le relazioni più interessanti secondo me. Quella di Mario Sanchez del Kock Institute, che ha messo in relazione la discriminazione subita delle persone trans e non binarie in Germania, con la loro capacità di operare scelte di prevenzione. La seconda del dott. Noori di ECDC, che ha descritto cosa è emerso da uno studio realizzato fra gli operatori sanitari in merito ad atteggiamenti discriminatori. Ovviamente mi soffermo sui risultati, il 39% non ha conoscenze corrette su U=U, su PEP il 44%, su PrEP il 59%.

Addentriamoci: il 30% dei medici non ha chiaro cosa sia U=U e PEP, il valore sale al 50% su PrEP. Ovviamente questo è il meglio, le altre figure professionali sanitarie (infermieri, dentisti, ecc.) vanno peggio.

Rispetto al fare assistenza a persone con HIV il 53% ha dubbi, il 57% è preoccupato nel prelevare sangue e il 26% dichiara di indossare 2 guanti. Il 6% degli operatori sanitari non vuole avere a che fare con persone trans, sex worker, MSM; la percentuale sale al 12% se IDU. In merito alle ragioni mi limito a dire che il 50% ritiene gli MSM immorali, il 45% che gli IDU sono pericolosi per la salute degli operatori sanitari.

Il 12% ritiene che gli MSM se hanno HIV è perché hanno avuto molti partner sessuali, come un po’ tutti quelli che hanno HIV (12%), perché hanno tenuto un comportamento irresponsabile 22% e se sono viremici non dovrebbero fare sesso (26%).
Rispetto agli atteggiamenti discriminatori rispetto alle persone con HIV nel posto di lavoro, è stato osservato:

  • riluttanza a prendersi cura delle persone con HIV (22%);
  • rivelare lo stato sierologico di un paziente senza il suo consenso (19%;
  • qualità di assistenza sanitaria inferiore (18%)
  • commenti o linguaggio discriminatorio (30%).

Nelle conclusioni il relatore sottolinea un evidente gap di conoscenza sui temi HIV correlati fra gli operatori sanitari e il fatto che più è bassa la conoscenza, più alto è il rischio di commettere errori professionali come l’uso eccessivo di precauzioni. I due guanti sono certo che ha già mandato in bestia Rita (infermiera al PrEP Point di Plus).
Dallo studio emerge la necessità di interventi mirati sulle varie professionalità sanitarie.

Vi do rapidamente conto della sessione diretta da Sheena McCormack che con le sue ricerche e in particolare lo studio Proud ha grandemente contribuito a sdoganare la PrEP in Europa. Il tema della sessione verteva sulla semplificazione dell’accesso alla PrEP. Oggi le linee guida (e ovviamente anche il nostro protocollo) prevedono una prima visita corredata di test per HIV, HCV, HBV, sifilide, CT, NG e dosaggio della creatinina, seguito da una seconda visita a distanza di 4 settimane dalla prima e poi, a regime, una visita ogni 3 mesi. Per comodità cito il protocollo del nostro centro community based. In ospedale se possibile è anche peggio.

Da molte parti si sostiene che questo sistema non è sostenibile sia sul piano economico, sia per il fatto che terrebbe lontano dall’accesso alla PrEP molte persone. Pressoché l’intero panel era dell’idea di semplificare, alcuni al massimo ossia 1 test HIV e se negativo si prescrive la PrEP. Visita medica 1 volta all’anno, nel caso ci sono gli infermieri dedicati. Test praticamente solo ai sintomatici. A occhio direi che una aurea via di mezzo di da preferire in generale, mentre per quanto riguarda il PrEP Point di Bologna servirà una riflessione approfondita più sul metodo che sul merito, anche perché noi “selezioniamo” persone ad alto rischio di contagio per cui le IST sono molto frequenti, spesso i test ogni 3 mesi non sono del tutto sufficienti.

Sandro Mattioli
Plus aps