“A partire dal 1° luglio, gli strumenti per le raccolte fondi di Meta non saranno più disponibili nella tua zona…”
Con questa secca comunicazione Facebook e Meta (un bel nome da sostanza stupefacente) ci informano che non sarà più possibile organizzare raccolta fondi per la nostra associazione di volontariato.
Da sempre quando un’impresa piena di soldi scrive cose del genere, mi viene spontaneo immaginare un contrappasso. In questo caso non ci vuole davvero molto immaginazione se consideriamo che Facebook è più vicina al tracollo che alla fase di lancio. Ormai è schifata dai giovani che, a torto o a ragione, preferiscono social dove si scrive poco o niente, dove le immagini sono predominanti e i video durano pochi secondi (poi qualcuno si chiede il perché di certe scelte superficiali o della scarsa capacità di analisi).
Le associazioni del Terzo Settore in Italia sono pressoché abbandonate a sé stesse stante che ricevono pochi o nessun finanziamento pubblico, se accade per lo più parliamo di fondi appena sufficienti per resta a galla.
Per fare un esempio la città di Berlino ha deciso di investire un milione di euro in tre anni per la start-up del suo BLN Checkpoint. Berlino è una sorta di città stato con una popolazione paragonabile a quella della regione Emilia-Romagna che per il BLQ Checkpoint ha deciso di investire 50.000 euro all’anno, che arrivano pure in ritardo di solito… all’associazione ne arrivano 35.000 per l’esattezza, con i quali dobbiamo pagare le bollette in particolare luce e gas che raddoppiano ogni anno, inclusa la TARI che il Comune non ci ha mai abbonato nonostante il centro svolga de facto un servizio pubblico. Da qualche anno in qua, con quei fondi ci dobbiamo pure pagare i test per sifilide perché USL ha semplicemente deciso di smettere di acquistarli adducendo ridicole motivazioni su test utilizzati da metà dei checkpoint europei. A questa spesa si aggiungono i materiali sanitari anche di consumo, i test che utilizziamo per il PrEP Point, ecc. per un totale di 70.000€ che Plus deve trovare per altre vie e altri porti…. questo solo per darvi un’idea di cosa significa tenere aperto un servizio “pubblico” per un’associazione. Onestamente io sono stupito che il BLQ Checkpoint sia ancora aperto dopo tanti anni e lo è solo grazie al contributo dei volontari che sono sempre disponibili e ai fondi donati da imprese private, senza le quali non sarebbe possibile fare niente. Oggi viene meno anche quel poco che arrivava via Facebook.
La conferenza ICAR si è svolta a Roma dal 19 al 21 giugno nella splendida cornice dell’Università Cattolica, circondati dai simboli di quel potere italico che ci discrimina da secoli e che ha la responsabilità di migliaia di infezioni da HIV grazie alle follie di numerosi illustri esponenti della gerarchia e di ben due papi con le loro dichiarazioni sui preservativi, per anni l’unico strumento di protezione contro il contagio, ma a più riprese declassato a cosa sostanzialmente inutile, per tacere della colpevolizzazione delle persone con HIV ree di non aver rispettato la morale cattolica. Spiace che nessuno ci abbia fatto caso, incluse le associazioni di lotta contro HIV che pur dovrebbero sapere cosa ha significato l’influenza della gerarchia cattolica sul mondo della politica e le enormi difficoltà che questo Paese si trova ancora oggi ad affrontare su questa infezione a trasmissione sessuale.
Tuttavia, a ben vedere qualcosa si è mosso. Durante la serata inaugurale, durante i saluti delle autorità, un folto gruppo di attivistə è salito sul palco e ha esposto un banner con la scritta “PrEP Universale – basta barriere”. Nata da un’idea di Plus, l’iniziativa ha visto la collaborazione e la partecipazione di pressoché tutte le associazioni. L’esposizione del banner è stata accolta da un forte applauso ed è stata supportata anche dall’ospite principale della serata: la dott.ssa Sheena McCormack, la ricercatrice che, con il suo studio PROUD, nel 2015 ha portato in Europa la PrEP. Quando le ho parlato della situazione italiana sulla PrEP, dell’incredibile ritardo della sua implementazione in Italia (che per la cronaca ha significato migliaia di diagnosi di HIV!) dettato verosimilmente da disinteresse, ignoranza, calcolo economico da bottegai, la ricercatrice si è detta stupita e ci ha assicurato il suo totale sostegno. Mi ha confermato quello che penso da tempo, ossia che all’estero molti ricercatori hanno una visione idealizzata del nostro Paese, non sanno quanto siamo arretrati sul piano sociale ancorché molto ben piazzati su quello scientifico.
Quindi la protesta è andata bene ed è stata supportata anche dalla bellissima seconda lecture tenuta da Daniele Calzavara di Milano Checkpoint. La sua lettura magistrale, dedicata al nostro Giulio Maria Corbelli, è stata di alto profilo. Daniele ha dato una lettura della situazione orientata alle mutazioni sociali imposte dall’epidemia di HIV, ma ha descritto anche il ritorno di una società nuova, forse plasmata da HIV, ma che sicuramente è in cerca di un riscatto. Una nuova società fatta di identità di genere nuove, di fluidità sessuale. Una società alla ricerca di strumenti altri e che cerca di crescere, sperimentare, anche grazie ai molti strumenti che oggi la prevenzione offre.
Da parte mia, avrei dovuto ricordare Giulio Maria Corbelli e introdurre Daniele in 1 minuto secondo la scaletta… in effetti temo che mi sia fatto prendere la mano e ho finito per fare un intervento di almeno 6/7 minuti. Si certo ho ricordato Giulio, quando durante ICAR 2018 sempre a Roma, come chair della plenaria introdusse la protesta delle associazioni che interruppero la conferenza chiedendo la PrEP per tutti (non solo per chi ha i soldi per potersela pagare!). Giulio iniziò il suo intervento ricordando come la PrEP fosse giunta in Italia con colpevole ritardo, fatto di rinvii, di pregiudizi e stigma che, del resto, ancora oggi subiamo anche dall’interno della nostra comunità MSM che, sia pur un po’ meno rispetto ai primi anni, ancora oggi addita, giudica le persone che scelgono di proteggersi con la profilassi pre-esposizione. Ricordare il Giulio attivista per la PrEP ovviamente mi ha consentito di parlare della situazione attuale sulla PrEP riprendendo le parole del nostro striscione.
Gli ostacoli che oggi deve superare una persona che in PrEP sembrerebbero più orientati a contenere i costi della prevenzione che non alla salute degli utenti. Nessuno dei vari passacarte delle Regioni che hanno optato per ostacolare la prevenzione, ha verosimilmente pensato al costo che affronteranno per ogni diagnosi di HIV. Ma si sa: la politica preferisce spendere per i farmaci e ottenere un risultato immediato, più che spendere (meno) per la prevenzione e ottenere dei risultati in tempi medio-lunghi che andranno ad avvantaggiare altri.
Passi in avanti ne sono stati fatti, sia pur con colpevole ritardo. Oggi la PrEP in Italia è autorizzata e in carico al servizio sanitario nazionale. Tuttavia per ottenerla ogni persona deve andare in un ospedale, farsi visitare da un medico infettivologo (l’unico che può prescriverla sulla scheda prescrittiva di AIFA, giustamente solo cartacea e esclusa da qualsiasi sistema elettronico. Così sarà sicuramente più facile monitorare i costi!); ottenuta la prescrizione, che ha validità di 3 mesi, ogni utente andrà nella farmacia ospedaliera dell’ospedale dove lavora quel medico (non in altri!) e potrà avere fino a 3 flaconi del farmaco preventivo. Inoltre ogni utente dovrà sottoporti ad esami di controllo per diverse IST, funzionalità renale, ecc. Ricapitolando: 4 volte all’anno in visita, 4 volte dal farmacista ospedaliero, 4 volte in ambulatorio MTS/malattie infettive (spesso in entrambi perché molti ambulatori malattie infettive si rifiutano di effettuare i tamponi per clamidia e gonorrea). Un tour de france che non solo è impegnativo per l’utente per esempio in termini di permessi sul lavoro (a cui nessun passacarte delle Regioni sembra aver pensato), ma è impegnativo anche per il personale sanitario che, già saturo per la gestione delle persone con HIV e altre infezioni virali, ora si trova a dover gestire il follow up anche di persone sane che vorrebbero restare tali.
Mi chiedo quanto tempo passerà prima che qualcuno si renda conto che tutto questo giro porterà, verosimilmente, ad un incremento della cosiddetta PrEP sauvage, ossia senza controllo medico, che già sta prendendo piede secondo i nostri dati.
La conferenza è proseguita senza particolari problemi, almeno che io sappia, se escludiamo una furente riunione della CsC dove fra veti e poca onestà intellettuale, non siamo riusciti a nominare il Presidente del prossimo Icar che si terrà a Padova nel maggio del prossimo anno. Stendiamo un velo pietoso.
Restano i problemi economici che, per esempio, hanno portato a chiedere che gli attivisti romani non partecipassero alla cena della community che ogni anno viene organizzata dal provider Effetti. Ogni anno. In effetti non posso fare a meno di chiedermi perché, stante che i fondi sono sempre meno, ICAR continua ad essere organizzata come 10 anni fa: 1 volta all’anno, quando altre conferenze anche internazionali non hanno questa cadenza, sempre in location differenti, sempre con lo stesso provider sicuramente in gamba, ma non si vede perché non valutarne altri in periodi di “vacche magre“. Del resto dicono che i fondi sono sempre meno, ma noi non abbiamo mai visto un bilancio di Icar né abbiamo mai ricevuto risposte quando richiesto. Quindi, dopo tutto, ha senso continuare così.
Gli attivistidi Plus sono stati, lasciatemelo dire, fantastici. Sempre presenti alle sessioni a dimostrazione di serietà, ma anche con una gran voglia di fare baldoria insieme. Ammetto che quei ritmi mi avrebbero ucciso in mezza giornata. Sono stati anche bravi a sopportare il caldo nella zona “villaggio della community” ossia dove allestiamo i nostri banchetti, quest’anno piazzati in un ballatoio alto dove non passava nessuno, speriamo che a Padova gli spazi scelti per la community siano più adeguati. Se finalmente riusciremo ad avere un Presidente lato community, mi auguro che vorrà prestare attenzione anche a questi aspetti per noi importanti.
Stefano Pieralli è scomparso l’anno scorso a soli 57 anni, di cui oltre 40 dedicati all’attivismo LGBT e sieropositivo. È stato uno dei sette fondatori di Plus, di cui è stato vicepresidente e membro del Direttivo pressoché sempre, fin dall’inizio. È stato lo “zoccolo duro” di Plus e ha contribuito a costruirne l’impostazione politica, è stato una figura cruciale non solo nella storia di Plus ma nella lotta alla HIV e alla sierofobia in Italia. Intitolargli la sede nazionale di Plus non è che un riconoscimento minimo per una persona che ha dedicato la sua vita all’attivismo, contribuendo a creare condizioni di vita migliori per centinaia di persone LGBT che vivono con HIV o sierocoinvolte.
Stefano ha dato a Plus un’impostazione politica tesa all’equidistanza dai partiti, preferendo il colloquio istituzionale al rischio di lasciare che questo o quel partito mettesse il cappello sul nostro lavoro. Ci ha insegnato ad avere una serie di attenzioni verso il mondo della politica, da un lato vitale per il sostegno al nostro lavoro e dall’altro spesso poco interessato alla prevenzione. Ci ha insegnato a guardare oltre le parole anche nel mondo delle associazioni, ed è stato proprio grazie a queste osservazioni che abbiamo deciso di fondare Plus in risposta alle carenze dell’associazionismo LGBT nella lotta all’HIV e nell’investimento di fondi nella salute queer.
Il 16 aprile, ad un anno dalla sua morte, Plus ha deciso quindi di ricordare Stefano Pieralli e di intitolare a Stefano la sede in via San Carlo 42/C, un luogo che lui stesso ha contribuito a costruire e che negli anni ha accolto migliaia di persone.
È stato emozionante vedere presenti le istituzioni, l’associazionismo bolognese e tanta gente che ha conosciuto Stefano e ne ha apprezzato il valore. Altrettanto emozionante ripercorrere la storia e la figura di Stefano, l’impegno per Plus fortemente voluta da Stefano proprio perché era giunto il momento di scuotere la comunità LGBT che da troppo tempo non si occupava più del tema, pur a fronte delle alte percentuali di nuove diagnosi fra gli MSM (maschi che fanno sesso con maschi). Oltre alla necessità di invertire il trend delle nuove diagnosi, Plus nasce, come ci spiega Pieralli nella breve intervista che abbiamo mostrato durante la cerimonia, Plus viene creata per intervenire contro lo stigma sociale, anche interno alla comunità LGBT, nonché sul tema della qualità della vita delle persone sieropositive che oggi, grazie alle terapie, hanno un’aspettativa di vita simile a quella della popolazione generale ed è, pertanto, necessario affrontare il tema della qualità della vita, gli aspetti relazionali e sociali, il lavoro, ecc. per tacere della necessità di rompere una serie di pregiudizi sulla trasmissione dell’infezione, sulla possibilità di avere relazioni con le persone sieropositive. In sintesi, un’azione culturale forte, sia all’interno della comunità LGBT che all’esterno di essa.
Azioni oggi più che mai necessarie e rese possibili grazie all’incredibile avanzamento scientifico che ha portato a un consistente allungamento dell’aspettativa di vita delle persone con HIV.
Tuttavia deve essere chiaro che questo non vuol dire che il problema HIV si può considerare risolto, se non addirittura superato, come sentiamo spesso dire anche da alcuni attivisti. Tutt’altro.
Noi non abbiamo un vaccino preventivo e siamo ben lontani dall’ottenere una cura contro HIV.
Pertanto il virus ad oggi rimane nel nostro corpo e continua a fare il suo lavoro anche se non rilevabile. Non tutti sanno che, sul piano patogenetico, il percorso di HIV prevede due tipi di azioni. Una, la più nota, è la distruzione progressiva del sistema immunitario che ci rende vulnerabili agli attacchi di altri agenti patogeni, crea danni d’organo e agevola la formazione di neoplasia; su questo abbiamo potuto porre un freno grazie ai farmaci sempre più potenti e ben tollerati.
L’altra, meno nota, consiste nell’attivazione del sistema immunitario che, a sua volta, attiva un processo infiammatorio generale e tendenzialmente cronico. Un’azione che avviene anche in caso di viremia non rilevabile. HIV è in sé un elemento di disturbo per l’organismo e il perdurare dello stato infiammatorio, nel tempo porta egualmente a danni d’organo, rischio cardiovascolare, disturbi cognitivi, formazione di neoplasie.
Quello dell’attivazione immunitaria è un tema rispetto al quale siamo ancora sostanzialmente disarmati. È appunto questa azione pluriennale di HIV che ha aiutato la formazione del cancro che ci ha portato via Stefano, così come altri esponenti di Plus, attivisti e tante persone sieropositive.
Quindi no! HIV non è affatto risolto anche se, sicuramente, abbiamo reso più difficile la sua azione tanto è vero che oggi possiamo vivere bene molti anni, invece dei pochi mesi di aspettativa di vita di 30 anni fa. Tuttavia, il problema sia risolto, dobbiamo continuare a svolgere un’opera di pressione politica e sociale affinché la politica investa, la ricerca trovi finalmente il bandolo della matassa, la società sia più attenta e cessi di discriminare le persone che vivono con HIV.
Dopo che un rinomato virologo italiano mi ha detto di non aver nessuna fiducia sull’editing del genoma umano per trovare una cura definitiva contro HIV (ossia guarire), considerando la tutt’altro che remota possibilità che costui mi piazzasse li la solita “opinione d’esperto” invece di un parere basato su risultanze scientifiche, ho provato a cercare online qualcosa… e in effetti qualcosa si sta muovendo su questa linea.
Francamente mi viene da dire, qualcosa di più interessante delle solite ricerche tese a lasciare HIV nel nostro corpo ancorché tenuto sotto controllo. Qualcosa che ha ottenuto un premio Nobel per la chimica.
La sempre ottima associazione EATG ha pubblicato l’articolo che ho provato a tradurvi, sia pur in modo rapido.
L’editing genetico è ancora all’inizio del suo percorso, siamo ancora agli esperimenti nel brodo cellulare per cui campa cavallo, tuttavia a me sembra molto interessante e promettente… quest’ultimo aggettivo in parte indotto dalla mia voglia di guarire… un obiettivo che dovrebbe essere marchiato a fuoco sulla fronte di tutti gli attivisti, ma purtroppo non è sempre così, non in Italia almeno.
Sandro Mattioli Plus aps
L’HIV nella coltura cellulare può essere completamente eliminato utilizzando la tecnologia di editing genetico CRISPR-Cas, aumentando le speranze di cura
Una nuova ricerca presentata Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (ECCMID 2024, Barcellona, 27-30 aprile) da un team di ricercatori nei Paesi Bassi mostra come la più recente tecnologia di editing genetico CRISPR-Cas può essere utilizzata per eliminare tutte le tracce di HIV provenienti da cellule infette in laboratorio, alimentando le speranze di una cura.
Gli studi, condotti dalla Dott.ssa Elena Herrera-Carrillo e da parte del suo team (Yuanling Bao, Zhenghao Yu e Pascal Kroon) all’UMC di Amsterdam, Paesi Bassi, rappresentano un passo avanti significativo nella ricerca di una cura per l’HIV.
La tecnologia di editing genetico CRISPR-Cas è un metodo rivoluzionario nella biologia molecolare che consente alterazioni precise ai genomi degli organismi viventi. Questa tecnica rivoluzionaria, che ha fruttato ai suoi inventori, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, il Premio Nobel per la Chimica nel 2020, consente agli scienziati di individuare e modificare con precisione segmenti specifici del DNA di un organismo (codice genetico).
Funzionando come forbici molecolari con la guida dell’RNA guida (gRNA), CRISPR-Cas può tagliare il DNA in punti designati. Questa azione facilita la cancellazione di geni indesiderati o l’introduzione di nuovo materiale genetico nelle cellule di un organismo, aprendo la strada a terapie avanzate.
Una delle sfide più significative nel trattamento dell’HIV è la capacità del virus di integrare il proprio genoma nel DNA dell’ospite, rendendone estremamente difficile l’eliminazione. Numerosi potenti farmaci antivirali sono attualmente in uso per il trattamento dell’infezione da HIV. Tuttavia, nonostante la loro efficacia, la terapia antivirale deve essere assunta per tutta la vita, poiché l’HIV può ricomparire dai serbatoi esistenti quando il trattamento viene interrotto. Gli autori spiegano che lo strumento di modifica del genoma CRISPR-Cas fornisce un nuovo mezzo per colpire il DNA dell’HIV.
“Il nostro obiettivo è sviluppare un regime combinatorio CRISPR-Cas robusto e sicuro, cercando una “cura per l’HIV per tutti” inclusiva che possa inattivare diversi ceppi di HIV in vari contesti cellulari”. L’HIV può infettare diversi tipi di cellule e tessuti del corpo, ciascuno con il proprio ambiente e caratteristiche uniche. I ricercatori stanno quindi cercando un modo per colpire l’HIV in tutte queste situazioni.
In questa ricerca, gli autori hanno utilizzato delle forbici molecolari (CRISPR-Cas) e due gRNA contro le sequenze “conservate” dell’HIV, nel senso che si sono concentrati su parti del genoma del virus che rimangono le stesse in tutti i ceppi di HIV conosciuti, e hanno ottenuto l’eliminazione di HIV dalle cellule T infette. Concentrandosi su queste sezioni conservate, l’approccio mira a fornire una terapia ad ampio spettro in grado di combattere efficacemente molteplici varianti dell’HIV.
Tuttavia, spiegano che le dimensioni del veicolo (noto come “vettore”), utilizzato per trasportare la cassetta che codifica i reagenti terapeutici CRISPR-Cas nelle cellule, presentano sfide logistiche, poiché sono troppo grandi. Pertanto, gli autori hanno sperimentato varie tecniche per ridurre le dimensioni della cassetta e quindi del sistema vettoriale stesso.
In termini più semplici, stanno tentando di caricare bagagli di grandi dimensioni in un’auto compatta per un viaggio verso la cellula infetta, portandoli a trovare modi per ridimensionare il “bagaglio” (cassetta) per un trasporto più semplice. Un altro problema che gli autori volevano superare era il raggiungimento delle cellule serbatoio dell’HIV che “rimbalzano” quando il trattamento antiretrovirale per l’HIV viene interrotto.
Gli autori hanno valutato ulteriormente vari sistemi CRISPR-Cas di diversi batteri per determinarne l’efficacia e la sicurezza nel trattamento delle cellule T CD4+ infette dall’HIV. Hanno condiviso i risultati di due sistemi, saCas9 e cjCas. SaCas9 ha mostrato prestazioni antivirali eccezionali, riuscendo a inattivare completamente l’HIV con un singolo RNA guida (gRNA) e ad asportare (tagliare fuori) il DNA virale con due gRNA.
La strategia di ridurre al minimo le dimensioni del vettore ha avuto successo, migliorandone la consegna alle cellule infette da HIV. Inoltre, sono stati in grado di prendere di mira le cellule serbatoio dell’HIV “nascoste” concentrandosi su proteine specifiche presenti sulla superficie di queste cellule (CD4+ e CD32a+).
Gli autori affermano: “Abbiamo sviluppato un efficiente attacco CRISPR combinatorio sul virus HIV in varie cellule e sui luoghi in cui può essere nascosto nei serbatoi, e abbiamo dimostrato che le terapie possono essere somministrate specificamente alle cellule di interesse. Questi risultati rappresentano un progresso fondamentale verso la progettazione di una strategia di cura”.
Gli autori sottolineano che il loro lavoro rappresenta una prova di concetto e non diventerà domani una cura per l’HIV. Inoltre: “I nostri prossimi passi riguardano l’ottimizzazione del percorso di consegna per colpire la maggior parte delle cellule serbatoio dell’HIV. Combineremo le terapie CRISPR e i reagenti mirati ai recettori e passeremo a modelli preclinici per studiare in dettaglio gli aspetti di efficacia e sicurezza di una strategia di cura combinata. Ciò sarà determinante per ottenere un rilascio preferenziale di CRISPR-Cas alle cellule serbatoio ed evitare il rilascio in cellule non serbatoio.
“Questa strategia è quella di rendere questo sistema il più sicuro possibile per le future applicazioni cliniche. Ci auguriamo di raggiungere il giusto equilibrio tra efficacia e sicurezza di questa strategia CURE. Solo allora potremo prendere in considerazione sperimentazioni cliniche di “cura” negli esseri umani per disattivare il serbatoio dell’HIV. Sebbene questi risultati preliminari siano molto incoraggianti, è prematuro dichiarare che esiste una cura efficace per l’HIV all’orizzonte”.
Sapevi che, anche se non devi fare il 730, puoi comunque decidere a chi destinare il tuo 5 per 1000?
Anche i contribuenti che non devono presentare la dichiarazione dei redditi possono scegliere di destinare l’otto, il cinque e il due per mille dell’IRPEF utilizzando l’apposita scheda.
Per destinare il tuo 5×1000 è necessario porre la propria firma in uno dei cinque riquadri che figurano sui modelli di dichiarazione e scrivere il codice fiscale dello specifico ente scelto.
Ad esempio, se scegli di devolvere il tuo 5×1000 a Plus aps e sostenere il PrEP Point e il BLQ Checkpoint, dovrai firmare il riquadro che riporta la dicitura “Sostegno delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, delle associazioni di promozione sociale…” e scrivere il nostro codice fiscale: 91341670379.
Scarica il modello di scheda per la scelta della destinazione del 5 per mille (MODELLO AGENZIA DELLE ENTRATE) e consegnalo in busta chiusa presso lo sportello di un ufficio postale, tramite un intermediario (Caf o professionista) o attraverso il servizio telematico dell’Agenzia delle Entrate.
Basta una firma e il nostro codice fiscale per donare il tuo 5×1000 e per aiutarci a costruire un futuro senza HIV.
La plenaria di oggi era una cosa stranissima, difficilissima per virologi. Quasi sicuramente non avrei capito niente, per cui ho deciso di usare questo tempo per farmi qualche chilometro nella sala dei poster. Quest’anno, infatti, i poster – che sono abstract degli studi accettati, non cartelloni promozionali di qualcuno – sono tornati ad essere cartacei, qualcuno ha decido di usare una specie di stoffa sintetica al posto della carta, oltre a inviare un pdf per chi preferisce leggerli dal laptop.
Ognuno degli abstract inviati alla conferenza, sono sottoposti al giudizio di 10 revisori e, ciò nonostante, alcuni lavori sono decisamente insoliti… almeno per un attivista italiano. Ho trovato diversi abstract interessanti, notizie buone e altre meno. Quindi cominciamo con le buone, giusto?
Lo studio Cannabis use enhances mucosal immunity and and the microbiome in individuals with HIV, presentato dalla facoltà di medicina dell’università del Minnesota riguarda la cannabis e il buon lavoro che fa nel proteggere il microbioma e l’immunità delle mucose. Quindi, cari amici con HIV, ok che abbiamo avuto questa sfiga ma possiamo spararci canne come se piovesse. Sembra infatti che la cannabis abbia proprietà di ridurre lo stato infiammatorio e le alterazione del microbioma.
Uno studio importante e che va nella giusta direzione rispetto a quanto già detto sull’uso della doxy come pep per le IST, è Impact of Doxycycline as STI PEP on the gut microbiome, che cerca di capire cosa succede al nostro intestino assumendo quell’antibiotico. Il follow up è di circa 6 mesi per cui serviranno altri studi, ma per ora sembra non alteri in maniera significativa la flora batterica intestinale, tuttavia anche questo studio pone il dubbio perché accomuna le dosi di doxy PEP a un accumulo di ARG (antibiotic resistance genes) pur dicendo anche che servono ulteriori studi… insomma occhio a non fare troppo gli americani: funziona, lo uso.
Lo studio della Johns Hopkins su MSM sexworker (sic!), Optimizing PrEP outcomes for MSM who sell sex: the role of stigma, violence and menthal health, ci dice che in questa popolazione lo stigma è associato a un calo di aderenza nella PrEP orale daily, ma anche all’incremento di interesse per la PrEP long acting iniettiva. Quindi lo stigma è una barriera per l’accesso ai servizi sanitari. Aggiungo che una delle principali Università al mondo fa studi su prostituti maschi… la mente va alla persistente ignoranza cogliona presente nel nostro Paese dove non vengono neppure presi in considerazione… se e no si parla di sexworker donne, possibilmente cis.
Declines in HIV testing and diagnosis: unanticipated consequences of the Trump administrations’ 2019 sicuramente ha attirato la mia attenzione. Sta a vedere che Trump ha causato problemi anche in questo campo, nel caso stupirebbe quel “conseguenze inattese…”. Il programma di Trump sulla salute sessuale e riproduttiva era ben centrato sull’impedire l’aborto, da quel che ricordo. A quanto pare tutte le sue tirate sui valori della famiglia e bla bla bla hanno ottenuto una ripresa della corsa di HIV a seguito di un calo di test e un aumento di diagnosi. Fidatevi di questi esaltati conservatori!
Lo studio Long acting ART in a community Health Center, parla già da solo. Come ho letto il poster ho commentato ad alta voce “si può fare allora!”, si basta avere un sistema sanitario collaborativo e non chiuso a riccio sulla conservazione del proprio potere. Infatti lo studio evidenzia una collaborazione multidisciplinare che ha ottenuto un buon risultato. In sintesi i pazienti con HIV hanno fatto le iniezioni di cabotegravir e rilpivirina long acting in un centro di comunità. Lo studio rileva un alto tasso di mantenimento della soppressione virale e, cosa che preoccupa gli ospedali, un alto tasso di puntualità da parte dei pazienti.
Meno bello lo studio Older adult living with HIV have low expectation regarding aging, despite improved survival, mette il dito nella piaga e conferma quello che vado dicendo da tempo. E’ vero che viviamo più a lungo ma avremo una vita meno in salute dei pari età senza HIV. Per cui mi sembra ipocrita parlare oggi di aspettativa di vita – che ovviamente è un dato positivo – sarebbe più etico e corretto fare valutazioni sulla qualità della vita dopo anni che HIV ci gira dentro. Anzi lo studio lascia chiaramente intendere che il problema prescinde il numero di anni dalla diagnosi. Per cui sono necessari interventi relativi alla salute fisica e mentale di persone che spesso devono fronteggiare sindromi depressive, mancanza di supporto familiare o sociale, ecc.
Lo studio Effects of recent air pollution exposure on cognition, inflammation and neurodegeneration in HIV penso che parli da solo. Questo studio associa il comune inquinamento dell’aria all’incremento di marker infiammatori e al decadimento cognitivo, induce una risposta immunitaria nelle persone con HIV. Quindi rega tutti a Gran Canaria dove l’aria oceanica è più pulita e gli uccelli volano.
C’è poi lo studio, molto meno bello, Residual HIV viremia double CVD incidence indipendent of classical risk factor, dove, in pratica, si sostiene un’altra cosa che dico in giro da tempo: HIV è un rischio cardio vascolare in sé, che si aggiunge agli altri fattori di rischio. Anche con una viremia residuale comunemente detta non rilevabile. Infatti lo studio ha trovato marker infiammatori specifici alcuni dei quali sono presenti anche in popolazione senza HIV che ha avuto malattie cardio vascolari. Lo studio individua nella viremia residua il problema.
Da ultimo cito un case study relativo a un ragazzo di 23 anni in PrEP con i long acting iniettivi, ovviamente HIV negativo che ha dovuto interrompere le iniezioni alla quinta somministrazione a causa della perdita della tutela assicurativa. Dopo sei mesi si ripresenta in clinica per riprendere la PrEP iniettiva, fa un test anticorpale che risulta negativo e, dopo 20 giorni, riprende il trattamento. Dopo i soliti 28 giorni il ragazzo di ripresenta per il secondo set di iniezioni e ovviamente rifà il test per HIV che, poco dopo, viene restituito dal laboratorio con esito reattivo agli anticorpi e positivo al test HIV RNA con 451 copie/ml. Due giorni dopo inzia la ART. Chiaramente lo hanno rivoltato come un calzino, esami su esami anche per studiare la sua situazione per futuro visto che, per fortuna, è molto rara. Esami sulla concentrazione del farmaco nel plasma, esami sulle resistenze che sono purtroppo arrivate, di farmacocinetica. Che dire… sappiamo tutti che il sistema sanitario USA fa acqua da tutte le parti ma questi non si rassegnano, che le assicurazioni così come gli ospedali antepongono il profitto alla salute, ecc. però è sempre qualcosa che fa resta basiti.
Di seguito trovate le foto che ho fatto ai poster, così potete darci un’occhiata anche voi.
Dopo questa vado al Bubba Gump Shrimp Co e urlo io mi chiamo Forrest Gump.
Nota di colore: stanotte ho dormito poco e male fra jet leg e allergia, per cui ho avuto la bella idea di andare presto al centro congressi. Niente di meglio di una bella passeggiata a -3 per svegliarsi… anche l’orso blu sembra darmi del pirla.
In questo tipo di conferenze le plenarie sono verosimilmente organizzate in modo oculato dalla direzione scientifica, la scelta degli argomenti ci da anche idea dell’orientamento che prende la conferenza, in termini scientifici e non solo.
La plenaria di oggi ha visto di nuovo al primo posto i vaccini. Chiunque con un minimo di esperienza ha ormai capito quanto scocci agli istituti di ricerca statunitensi il disastro degli ultimi studi sui vaccini contro HIV e, soprattutto, quanto siano preoccupati per la più che probabile perdita di finanziamenti.
Il mio inglese è lontano dalla perfezione, ma giurerei che la dott.ssa McElrath che ha inaugurato la plenaria con una lettura dal titolo “what’s new in HIV vaccines”, ha iniziato mostrando una slide con una lunga serie di studi inefficaci ed ha detto che sono studi di successo anche se poi sono andati male in termini di efficacia, il motivo è che hanno imparato moltissimo. Ripeto spero di aver capito male, ma è una mentalità “driven by money” che sembra non tener conto che i “topi da laboratorio” erano persone per lo più di Paesi in via di sviluppo. Senza nulla togliere all’importanza delle nuove conoscenze acquisite, a me sembra un modo di pensare davvero lontano dalla mia sensibilità. Detto questo a che punto siamo coi vaccini? Siamo a quello di sempre: uno dopo l’altro falliscono tutti, non funzionano ma impariamo nuove cose. Continuiamo a sperare e a studiare è ovvio, ma vorrei vedere meno titoli sensazionalistici in giro e stare su un dato di realtà perché abbiamo a che fare con delle vite. Grazie a quello che abbiamo imparato ora sono al vaglio diverse strategie, percorsi alternativi che hanno guidato la ricerca verso altri studi su nuovi vaccini. Incrociamo le dita e speriamo che vada meglio, ma è chiaro che al momento siamo ancora alle sfide e alla necessità di invogliare i giovani ricercatori a raccogliere la sfida.
Negli ultimi 20 anni ho sentito molte volte richieste di questo tenore, in genere vuol dire che ci sono delle difficoltà e sui vaccini è palese che ci sono.
La seconda lettura è stata tenuta dalla kenyana Nelly Mungo sul tema scottante del HPV. Ci ha parlato quasi esclusivamente di cancro cervicale, dichiarando con disinvoltura che si gli MSM hanno un serissimo problema di cancro anale HPV derivato, ma meno persistente per cui non ne avrebbe parlato. Io sono assolutamente favorevole alla medicina di genere e ancora più favorevole a che si parli di cancro cervicale perché è una vera piaga, ma questo non giustifica tale precisazione che denota mancanza di professionalità e serietà scientifica. Non capisco che senso ha farci vedere una slide come quella che pubblico qui a lato, per poi dire io non ne parlo. Non farla vedere e non parlarne avrebbe avuto più senso.
Detto questo, resta il fatto indiscutibile che il cancro da HPV è fra le patologie più frequenti con oltre 2 milioni di casi all’anno (dati del 2018) e, tanto per cambiare, l’Africa sub-sahariana di distingue per numero di casi e disuguaglianze nell’accesso alle vaccinazioni e ai trattamenti. Geograficamente parlando l’area di azione di HPV è pressoché sovrapponibile a quella di HIV, infatti alcuni studi citati dalla Mungo ci fanno pensare che la presenza di una infezione da HPV correli con una incrementata possibilità di contagio con HIV.
Tuttavia Nelly Mungo ci fa anche notare che il cancro alla cervice uterina è uno dei pochi dove la prevenzione è possibile ed efficace grazie agli screening sulle lesioni pre-cancerose, alla vaccinazione efficace già con una sola dose (presenta diversi studi a sostegno della tesi), ecc. Tuttavia sono ancora molte le sfide che vanno dall’implementazione della dose singola, all’incremento dei test di screening e cita soprattutto le donne che vivono con HIV.
Chiude dicendo che le comunità non devono ignorare le malattie derivate dall’azione di HPV, il che è buffo stante lei ha deciso di ignorare gli MSM. Mah…
Ho deciso di seguire una sessione sulla prevenzione perché sono stati presentati i dati relativi a un primo studio sul TAF (Tenofovir alafenamide) su impianto sottocutaneo annuale di silicone. I dati preclinici su modelli animali erano buoni, ma lo studio – tenuto in Sud Africa su donne cis – non è andato ugualmente bene. Il numero relativamente esiguo di arruolate, 36, denota che si tratta di un primo approccio al tema, ma resta il fatto che il 31% non ha tollerato l’impianto che è stato rimosso prima della fine dello studio, in aggiunta numerose donne hanno avuto problemi cutanei nella zona di inserimento pertanto il risultato finale – poor tolerability – non è stato un successo.
A seguire sono stati presentati diversi studi sulla famosa doxypep ossia la profilassi post esposizione con un antibiotico (la doxiciclina) che sembrava dare buoni risultati contro gonorrea, clamidia e sifilide. Purtroppo non è così semplice.
Forse ricorderete che in un post sulla conferenza EACS avevo descritto i dati preliminari dello studio di Molina – il papà della PrEP on demand – su doxypep e vaccino contro meningococco B (menB). A questo CROI hanno presentato i dati finali dai quali è emerso che il menB sembra meno efficace del previsto contro gonorrea, pur nella necessità di altri studi non mi sembra un dato da prendere sottogamba. Doxy è si efficace contro clamidia e sifilide, ma visibilmente meno contro gonorrea dove si registra lo sviluppo di resistenze nel 35% dei casi.
Gli studi americani presentati partono da un presupposto diverso. In estrema sintesi: c’è un background di crescita di IST che la doxy abbatte, dunque la diamo a tutti poi l’utente deciderà quando usarla. Nessun accenno a counselling almeno di ordine medico, immagino che venga fatto. Trovo sconcertante questo modus operandi non foss’altro per il fatto che la strategia test and treat sappiamo che funziona e che può essere utilizzata e promossa nel mentre che cerchiamo di capire se è il caso di rischiare di giocarci un antibiotico importante, rispetto alla cui azione qualcuno pone dubbi sul comportamento degli altri batteri che ospitiamo nel nostro corpo. Tanto è vero che nelle conclusioni si richiama la necessità di studi di più lunga durata, ma nel frattempo la usiamo. OK.
Come sapete Plus ha sempre basato le sue decisioni e le sue battaglie partendo dall’evidenza scientifica. Su doxypep non mi sembra proprio che ci siano tali evidenze, il fatto che funzioni contro clamidia è un dato che sembra chiaro, ma è sufficiente rispetto a ciò che ancora non sappiamo per certo. Inoltre, piccolo dato di natura burocratica, in Italia non ci sono linee guida sul tema. Visto che non siamo disarmati, che non parliamo di patologie letali, che abbiamo già strategie che funzionano, non vedo la necessità di affrettare decisioni senza avere dati definitivi.
Nelle grandi conferenze le “opening session” comprendono i saluti del/dei presidenti della conferenza che mostrano una serie di dati positivi, seguono le letture magistrali utili, a chi non è proprio invornito, a indicare la direzione verso cui la conferenza si orienta o, quantomeno, a denotare quali sono i punti salienti nella lotta contro HIV e altre infezioni che la direzione scientifica ha ritenuto importante sottolineare.
CROI ha seguito questa “tradizione”. Il Presidente del CROI ci ha mostrato i dati della conferenza:
3.635 partecipanti in presenza, più 438 virtuali, in rappresentanza di 73 Paesi. Il 38% dei partecipanti non è statunitense e costoro hanno presentato 359 abstract. Poi dicono che è la più importante conferenza al mondo. In totali gli abstract sono stati 1.682, accettati 966. Infatti ogni abstract subisce la review di 10 esperti interni e esterni. Sono state erogate 261 scholarship a giovani ricercatori (42 internazionali), 22 community educator (ricordo che è una conferenza medica, ma che comunque trova il modo di collaborare con la comunità dei pazienti). La conferenza si tiene nella cornice del Colorado Convention Center caratterizzata dalla presenza di una gigantesca statua che rappresenta un orso blu che sembra voler entrare.
Sono state presentate 3 letture magistrali. Come avviene anche in Italia, sia pur con qualche insistenza, le 3 letture sono dedicate a personaggi che hanno profondamente segnato la storia della lotta contro HIV, e sono la Bernard Field lecture che ha visto la presentazione di B. S. Graham (Vaccine Research Center NIAID, USA), la N’Galy-Mann lecture con la presentazione di D. M’bori-Ngacha (UN Children’s Fund, Kenya) e la Martin Delaney trattata da F. Mugisha, un bravissimo attivista di Sexual Minorities Uganda (SMUG), Uganda.
Con il titolo “Modern Vaccinology: a legacy of HIV research”, Barney Graham ha ampiamente parlato di vaccini. Dopo l’ennesimo insuccesso degli studi Mosaico e Imbodoko, era atteso che la comunità scientifica USA ponesse l’accento sull’importanza di insistere a cercare un modo per vaccinare la popolazione mondiale contro HIV, con buona pace degli indubbi risultati ottenuti coi farmaci. Tutta la presentazione è stata incentrata sui successi “altri” in questo campo, covid incluso perché, con buona pace degli scettici, in breve tempo la scienza ha trovato il modo di limitare fortemente i contagi… sempre che si nasca nel posto “giusto”, ovviamente. Buona parte della presentazione è stata usata per dimostrare come le nuove tecnologie, pressoché tutte sviluppate per cercare un vaccino contro HIV, hanno potuto accelerare in modo impressionate lo sviluppo e la produzione di vaccini. In poche parole con le tecnologie del 20simo secolo ci sono voluti anni per sviluppare i vaccini, in qualche caso decadi. Il 21esimo secolo ha visto uno sviluppo impressionante delle tecnologie vaccinali, tecnologie che ci consentono di individuare e produrre vaccini in pochi anni se non addirittura mesi. Il virus del covid, che ha contagiato 800 milioni di persone e si stima che ne abbia uccise 30, è stato messo sotto controllo nel giro di un paio di anni grazie alle vaccinazioni … in Africa meno del 5% della popolazione era stata immunizzata a fine 2021, ma si sa che prima viene chi ha soldi.
In conclusione l’anziano ricercatore spara tutte le sue cartucce: stiamo vivendo una nuova era per la scienza dei vaccini grazie alle nuove tecnologie derivate dalla ricerca su HIV. La progettazione precisa dell’antigene con la produzione rapida di piattaforme fornisce una soluzione ingegneristica per ottenere approcci vaccinali generalizzabili e, quindi, stigmatizza il fatto che dopo Mosaico sono crollati gli investimenti su sul vaccino per HIV che, del resto, ancora non sappiamo come fermare.
Dorothy M’bori-Ngacha ha ci ha offerto uno spaccato dei problemi sulla ricerca relativa all’allattamento al seno, in particolare in Africa ma non solo. Come è facile immaginare non è il nostro campo di azione, ma comunque va citata perché per molti paesi del cosiddetto terzo mondo questo è l’unico modo per non far morire di fame i neonati il che ci porta agli oltre 3 milioni di bambini contagiati per questa via. Un dato in calo negli ultimi anni, ma pur sempre con numeri inimmaginabili per le possibilità che abbiamo oggi. Del resto le possibilità di accesso alla terapia per le madri cambiano profondamente da regione a regione in Africa e sul piano globale l’incidenza dell’infezione da HIV fra le donne incinte e che allattano al seno resta una importante fonte di infezioni pediatriche da HIV.
Come già scritto, la presentazione di Frank Mugisha dal titolo “Unveiling the power of Uganda’s LGBTIQ advocacy in shaping HIV response and health care”, è stata la più emozionante della apertura. Mugisha con la prima slide ci mostra re Mwanga II che in epoca pre-coloniale, riconosceva il valore delle coppie dello stesso sesso tanto che era cosa nota che avesse un consorte maschio. Tuttavia con l’avvento del colonialismo, l’influenza britannica portò a criminalizzare e stigmatizzare gli omosessuali. Oggi dei 55 stati africani, in ben 33 l’omosessualità è un crimine punito con il carcere. Visioni alternative su sessualità e genere sono sempre esistente nei vari paesi africani, tuttavia oggi è in atto una criminalizzazione estesa: Kenya, Ghana Namibia, Niger, Tanzania a Uganda hanno fatto passi per finalizzare leggi anti omosessualità. Anche nei Paesi dove ci sono stati alcuni progressi nei diritti LGBTQ+, stanno venendo avanti situazioni stigmatizzanti. Per esempio nel Sud Africa che pure offre una importante protezione legale, continuano a verificarsi scontri contro le persone LGBT tanto che nel 2021 almeno 24 persone sono state uccise a causa di attacchi motivati da pregiudizi. Nelle Seycelles, che nel 2016 hanno decriminalizzato il sesso gay, persistono ambiguità normative sui diritti delle persone LGBTQ+ che li lasciano vulnerabili e senza protezione legale in vari aspetti della vita. Peraltro, l’Uganda non è nuovo a questo approccio: già nel 1950 un nuovo articolo del codice penale – penale! – mette fuorilegge le relazioni fra persone dello stesso sesso. Similmente all’Italia, anche in Uganda parlare di sesso è un tabu così come le è essere identificati come gay. In generale grazie a queste manovre normative, si è dato la stura a una disapprovazione sociale verso gli omosessuali che vengono rifiutati, ostracizzati.
Ovviamente le cose non succedono per caso. Come accade anche in Italia, da tempo in Uganda gruppi religiosi anti gay e anti gender lavorano per radicalizzare nel paese sentimenti di odio inventando miti e cospirazioni che portano a equiparare gli omosessuali ai pedofili o che reclutano giovani per trasformarli in gay, ecc. Queste idiozie compaiono da anni su tutte le piattaforme social anche attraverso interviste sensazionalistiche con ex attivisti gay. Situazione che non solo creano timori negli ugandesi, ma anche odio che, a sua volta, porta a molestie e violenze.
L’associazione di Frank, SMUG, è stata chiusa d’autorità nel 2022 dal Governo che, allo stesso tempo, ha prodotto una lista di 22 NGO da chiudere perché promuovono l’omosessualità. A maggio 2023 il presidente ha firmato una legge anti omosessualità. Del resto è la seconda volta che accade: nel 2009 venne firmata una legge denominata “Kill the Gay”. Attualmente Frank e altri attivisti si sono rivolti ai tribunali perché blocchino la legge del 2023 e a breve dovrebbe esserci la sentenza.
La nuova legge introduce il reato di omosessualità aggravata che prevede la pena di morte. Per esempio l’aggravante è fare sesso consensuale con una persona HIV+ dello stesso sesso. Inoltre introduce il reato di promozione dell’omosessualità, mettendo di fatto fuori legge tutti gli attivisti che rischiano fino a 20 anni di prigione. I medici, i datori di lavoro e perfino i familiari sono tenuti a denunciare chiunque sia sospettato di essere omosessuale.
In altre parole, i servizi sanitari, soprattutto in ambito sessuale, per le persone LGBT sono diventati irregolari e inadeguati.
La legge è arrivata al culmine di una lunga serie di violenze e abusi. Oltre 300 casi sono i casi di violazione dei diritti umani, abusi e violenze motivati dall’omofobia che SMUG ha documentato quali sfratti, trasferimenti forzati così come casi di tortura, trattamento degradante, aggressioni commessi da privato o dallo stato. Le conseguenze, come era facile immaginare, vedono un palese incremento di problemi di salute mentale così come traumi. Gay esiliati dentro e fuori il Paese, aumento dei senza tetto, violenze sessuali, esami anale forzati. Abusi amplificati dai media con arresti sensazionalistici (mi ricorda qualcosa accaduto anche da noi). Lo scorso gennaio un attivista amico di Frank è stato attaccato e accoltellato per la strada, al punto che ha dovuto subire un delicato intervento chirurgico.
Una norma, quindi, che finirà per incidere anche sull’epidemia da HIV che pur l’Uganda era riuscito a gestire meglio di altri. La discriminazione genera un sentimento di paura che scoraggia le persone LGBT+ dal rivolgersi ai centri per il test HIV, ai servizi di prevenzione e trattamento perché temono di essere giudicati, discriminati, di subire violenze e ripercussioni legali. Nonostante che il Ministero della salute ugandese abbia emanato 2 circolari con l’invito al personale sanitario a non discriminare (maledetti ipocriti), il numero di persone LGBT+ che si rivolte ai servizi sanitari continua a calare appunto a motivo della legge discriminatoria che erode la fiducia verso i servizi sanitari pubblici e rende più complicato l’accesso e ricevere servizi adeguati.
Frank è molto educato ma è evidente che assegna buona parte della responsabilità della situazione ai leader anti gay e anti gender, per lo più occidentali, che li ritrova a fianco dei politici e dei leader religiosi africani a minare i diritti LGBTQ+, a promuovere le terapie di conversione come cura per l’omosessualità ecc. e cita Open Democracy per l’Uganda come uno di questi influenti gruppi foraggiati da gruppi cristiani oltranzisti occidentali.
Qualcosa di simile viene tentato anche in Europa e in USA ma con importanti battute d’arresto, forse grazie a una società civile forte che, in molti casi, reagisce. Per cui l’Africa è percepita come il campo di battaglia finale da alcuni gruppi cristiani estremisti che diffondono sentimenti di odio contro i gay attraverso la “promozione dei valori della famiglia”. A ben vedere, conclude Frank, è l’omofobia, non l’omosessualità, che è estranea all’Africa.
Non è solo un suo parere, ci sono evidenze: nel 2023 il Parlamento ugandese ha organizzato la conferenza “family values”, i contenuti della conferenza erano totalmente anti gay e anti gender (pure questo mi ricorda qualcosa), gli invitati erano tutti attivisti anti gay/gender di altri stati africani, nel comunicato finale la conferenza (organizzato da un organo dello Stato, lo ricordo) invitata tutti gli stati africani a dotarsi di leggi simili, un parlamentare kenyano, che era presente, ha poi portato in Parlamento un progetto di legge anti gay. Questo è un po’ il trend che si sta verificando in Africa.
Il dato positivo è che davanti a questa legge molti stakeholder si stanno muovendo, è stato perfino organizzato un Pride in Uganda. Gli USA usano la Pepfar come sanzione, hanno posto il visto d’ingresso, avvisi per chi viaggia in Uganda, le banche internazionali hanno bloccato i prestiti. Le grandi aziende multinazionali (Google, Amex, AT&T, Microsoft, ecc.) si sono espresse contro questa legge dando la stura ad un effetto negativo su alcuni interessi economici, la comunità LGBTQ+ locale e internazionale sta agendo. Frank chiude chiedendo anche la solidarietà dei clinici presenti, perché la situazione sanitaria sta peggiorando in particolare su HIV.
Una relazione forte e commovente allo stesso tempo che la platea ha salutato con un lungo applauso, al quale, spero, seguano azioni della IAS con contrastare questa assurda situazione.
Devo dire la verità: ho fortemente voluto partecipare a questa conferenza CROI (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infection) perché, oltre ovviamente ad essere una delle principali al mondo, è a Denver.
Denver (Colorado, USA) è il luogo dove nel 1983 un gruppo di attivisti delle primissime battaglie contro la discriminazione delle persone sieropositive, scrissero e pubblicarono una carta di principi che sono stati e sono ancora oggi basilari per qualunque attività di advocate su HIV e che sono il fulcro della mia azione di attivista HIV positivo.
Buona parte del lavoro che facciamo oggi nel CTS, nelle commissioni regionali AIDS (cambiare nome, no?), nelle associazioni di pazienti e di lotta contro HIV, con e per le persone che vivono con HIV si basa sulla carta di Denver, sul lavoro che ci hanno lasciato dei ragazzi prima di morire di HIV.
Pur nella loro condizione, queste persone hanno scritto dell’importanza dell’empowerment di chi vive con HIV (perché l’ignoranza e la non accettazione ci fanno morire prima), dell’importanza di essere trattati con dignità (in un periodo in cui le persone con HIV venivano abbandonate a loro stesse, anche dalle famiglie, per la vergogna); dell’importanza di essere inclusi sulle decisioni che ci riguardano (nothing on us without us) cosa che ancora oggi in Italia è pochissimo rispettata spesso per assurde posizioni burocratiche praticate da chi, sanità pubblica o multinazionali per esempio, tende ad anteporre le procedure agli interessi dei pazienti; l’importanza del linguaggio e la condanna di ogni tentativo di pietismo e di relegarci in una condizione di sottomissione, di vergogna, di passività. “People living with HIV/AIDS”, che ho usato anche qui sopra, è una definizione che risale ai principi.
Queste persone non si sono rassegnate e sono un esempio per tutti coloro che vivono con HIV.
Per me è un onore calpestare le stesse strade che li hanno visti in azione, quando in Italia il Ministro della Salute prendeva sottogamba l’epidemia e pretendeva di combatterla con l’etica e la morale cattolica, quando gli omosessuali, che ora chiamiamo MSM, vivevano ancora troppo nascosti e le statistiche si concentravano falsamente altrove, quando perfino il movimento decise che di questo tema se ne sarebbero occupati altri per paura della discriminazione o dell’eccesso di impegno per i quattro gatti che si davano da fare allora. Poi si chiedono perché mi inalbero quando gli MSM, pur essendo una popolazione chiave in UE, non vengono presi in considerazione a livello di strategie di prevenzione e ci dobbiamo sbattere con i Checkpoint per colmare le difficoltà del Sistema Sanitario. E ciò nonostante, ancora oggi c’è una minoranza della popolazione italiana che produce il 40% delle nuove diagnosi, ma non sembra che la cosa sia di grande interesse. Ecco… capite perché il principio di Denver sull’empowerment è così importante? Se non pensiamo noi a noi stessi, non lo farà nessuno incluso il cosiddetto movimento LGBTQ+, tanto attento a mille sfaccettature umane, ma distratto e distante dalla discriminazione multipla subita dalle persone MSM che vivono con HIV. Una discriminazione radicata e, spesso, interiorizzata, a tal punto da essere comunemente accettata, ma è proprio in questa condizione passivamente subita dalla community LGBT+ che HIV trova spazio di azione.
Sono stati fatti molti passi in avanti nella lotta contro l’epidemia da HIV. I ragazzi di Denver lottavano per le loro vite, noi oggi lottiamo per la qualità della vita che, in estrema sintesi, significa cercare di non morire per quelle patologie che HIV aiuta a svilupparsi, cancro e problemi cardiovascolari in primis. Detto questo, rispetto agli attivisti di Denver noi viviamo molto più a lungo, noi possiamo ragionare in termini di decenni non di mesi e sicuramente non è poco. Tuttavia, chi crede che la lotta contro HIV sia finita commette un errore clamoroso. Non è un caso che non abbiamo una cura eradicante e che i ricercatori ammettano, a denti stretti, che non abbiamo gli strumenti per trovarla. Il vaccino, a ben vedere, non gode di miglior salute stante che tutti gli studi tentati fino ad oggi sono clamorosamente falliti, incluso il Mosaica sul quale c’erano molte attese e speranze. Tuttavia molti pensano che HIV non sia un grosso problema. In Italia molti pensano che sia un problema del Continente africano o dei gay e mettono la testa sotto la sabbia.
In questi giorni, alla conferenza CROI potremo fare il punto della situazione su tutto ciò che riguarda questo virus che ci accompagna da troppo tempo e che nel mio Paese è ancora causa di stigma e discriminazione nei confronti delle persone omosessuali.
La mamma di Enrico ha scritto questo testo che pubblichiamo volentieri su richiesta di suo figlio, con la speranza che aiuti anche altri nel coming out sierologico in famiglia.
Enrico mi ha chiesto di testimoniare come ho vissuto la “cosa” dentro di me. La “cosa” è sapere che mio figlio ha contratto l’HIV.
Ero tornata dal mare e sapevo che avrebbe fatto il test. L’ho raggiunto nella sua camera e me l’ha detto nascondendosi il volto. Ma questo riguarda lui. Io devo parlare di me.
Come molti studiosi dicono, le emozioni si distinguono in fondamentali e complesse. Le emozioni più frequentemente classificate come fondamentali sono gioia, rabbia, ansia, tristezza e paura.
La rabbiaè la reazione alla frustrazione.
L’ansia si manifesta con la preoccupazione che qualcosa di negativo accadrà.
La tristezzasi manifesta a causa della perdita di qualcuno o qualcosa.
La paura è la risposta ad un pericolo.
La mia prima emozione è stata la paura. Paura di perdere mio figlio. La paura di vederlo soffrire. La paura di vederlo isolato. La paura che non potesse avere relazioni con altre persone. A un tratto mi sono passati davanti agli occhi le immagini degli anni ‘80, il film “Philadelphia”, Freddy Mercury e tanti altri personaggi famosi e/o persone che conoscevo. Ho pensato “Dio mio, mio figlio no”.
Mio figlio poi mi ha spiegato che esistono terapie efficaci e che si era già rivolto a un centro specializzato. Il contrario della paura è il coraggio. E mio figlio mi ha dato prova di averne tanto. E mi sono sentita orgogliosa di lui. E allora mi sono riecheggiate le parole di Battiato “E guarirai da tutte le malattie. Perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te” e ho pensato che come madre, potevo solo stare al suo fianco e mettere da parte la mia paura per lasciare invece emergere le sue emozioni, per trasmettergli quel “hey, sono qui con te. Affronteremo insieme anche questo!”.
L’ho abbracciato, lui piangeva, e continuava a dire “mi sento in colpa”. Il “senso di colpa” è un’emozione secondaria (come l’invidia, la vergogna) che, secondo sempre gli studiosi, dipende dallo stile culturale di appartenenza o da un eccessivo senso di responsabilità. E ho pensato che ancora una volta non avevo capito nulla. Non avevo capito che il rischio di contrarre l’HIV è reale e che può colpire tutti indipendentemente dallo stile di vita, dall’orientamento sessuale ecc. e ho riflettuto sul tipo di educazione che gli avevo dato e soprattutto al “modello” educativo permeato sempre dal mio (mio!) finto mito della “normalità”. E ho anche capito che non potevo lasciargli la responsabilità di preoccuparsi che io non fossi preoccupata perché era lui al “centro” della questione, era lui a dover ricevere prima la “cura” (il significato della parola cura è Interessamento attento e sollecito; riguardo, attenzione) ancor prima della giusta “terapia”.
L’ho tenuto stretto stretto e gli ho detto che non capivo il perché si sentisse in colpa visto che l’aveva contratto sicuramente facendo l’amore e anche qualora non fosse stato “amore” poco importava perché non aveva fatto del male a nessuno. Cercare il piacere non è sbagliato. Imprevidente? Forse. Aveva aspettato troppo a farsi gli esami? Forse. Ma sono onesta, al suo posto avrei fatto lo stesso. Io faccio fatica ad andare dal dentista per la paura che mi dica che ho un dente cariato.
Ora quello che potevamo fare era di affrontare tutto, un passo alla volta e insieme.
Il giorno dopo ricordo di essermi alzata e di aver ripensato al tutto con un’altra emozione: la sorpresa. Sorpresa che si fosse realizzato ciò che tanti anni fa avevo temuto. Enrico è nato nel 1986. Alla nascita gli fecero 3 trasfusioni di sangue e come molti sanno in quegli anni il sangue non era “controllato”. Dopo alcuni anni ebbe i primi problemi ai bronchi e nonostante le molteplici visite non trovavano le cause e quindi gli fecero anche il test dell’HIV. Risultò negativo.
Ricordo di averlo abbracciato quando si è alzato e di aver pensato che la paura di allora era identica a quella di oggi e che anche se ora era un giovane uomo e non un bambino (emblema dell’”innocenza”) quella stessa paura era del tutto fisiologica e assolutamente priva di giudizio.
Io e mio figlio ridiamo spesso sulle disgrazie, abbiamo questo umorismo strano per superarle…e quindi, e concludo, ridemmo della battuta che feci a mia nonna. Mia nonna sempre a fine anni ’80 (aveva poco più di 70 anni) subì un’operazione molto invasiva all’intestino e dunque fu trasfusa diverse volte. Aveva il terrore di contrarre l’HIV e io e mia sorella ridendo le dicemmo “nonna, se viene fuori che hai l’HIV di’ che l’hai contratto con un rapporto a rischio …farai invidia!”.