A Nairobi c’è una zona chiamata slum, la bidonville. Nello slum c’è il quartiere Ngomongo (nella galleria in basso vi aggiungo alcune vedute caratteristiche), forse il più disastrato dell’intera area. A Ngomongo dentro a una baracca di lamiera c’è la chiesa di St. Peter che, a sua volta, dal lunedì al venerdì ospita la “scuola di Diego”: la Life’s Hope School. Al sabato e alla domenica si svolgono le funzioni religiose, ma da lunedì a venerdì la chiesa affitta la baracca di lamiera alla scuola… (quando si dice lo spirito cristiano!). Pertanto ogni venerdì tutti i banchi e gli arredi scolastici vengono spostati in un angolo della baracca coperto da una tenda, per poi essere risistemati ogni lunedì.
La scuola supportata da Diego Stellino che, oltre a essere un nostro iscritto, presiede l’associazione Slum Child con base in Italia (ma lavora nelle bidonville di Nairobi ormai da diversi anni) e sta collaborando con Plus per l’apertura del Checkpoint di Nairobi.
A Ngomongo a maggio 2023 hanno asfaltato un pezzo di terreno sassoso: ora c’è la strada asfaltata (ci siamo quasi arrivati con l’Uber… l’autista locale non era molto convinto di entrare in quel posto); qualche tempo fa una charity cinese ha costruito le fogne, ossia dei canali a cielo aperto a lato della strada, ed è già un passo avanti perché prima non c’erano neppure quelle. I più “fortunati” abitano/lavorano ai margini della strada asfaltata in piena eau de mer(de). Gli altri abitano in stradine strette, sterrate, sempre in piena eau de mer(de) ma senza un filo d’aria.
Nella “scuola di Diego” non c’è elettricità, né acqua corrente, c’è una porta da cui entra la luce (e le mosche). Volendo l’elettricità si potrebbe allacciare ma, nel caso l’affitto passerebbe da 2500 a 2800 scellini (circa 18€) al mese e il gestore non sa come trovarli anche perché le famiglie che dovrebbero pagare 600 scellini al mese (3,80€) non li hanno e non pagano.
Come ho accennato prima, la baracca che vedete nelle foto non è della scuola infatti, ma della chiesa anzi, è la chiesa,
Nel fornello che vedete nelle foto c’è il pranzo che si stava cuocendo e, nel contempo, contribuiva a mantenere il tepore interno tipico delle baracche di metallo in pieno sole.
Nella scuola trovano spazio 8 classi (elementari e medie) più una prescolare.
Dimenticavo: il baracco con scritto choo è il gabinetto. Costa 10 scellini a cagata che vanno a una associazione che lo “pulisce”, nel senso che lo svuota perché è un buco e le fogne non ci sono.
Io ho deciso che supporterò almeno l’affitto della scuola personalmente. Plus ovviamente è disponibile a fare da collettore per supportare altre spese come il materiale scolastico (dai gessetti ai banchi hanno bisogno di tutto). Vediamo se riusciamo a far sedere quei bimbi su sedie integre, a studiare sui banchi invece che uno sopra all’altro, magari perfino ad allacciare la corrente.
Proprio perché viviamo l’isolamento sociale, la discriminazione, l’incertezza per il futuro, ecc. sono certo che sapremo fare del nostro meglio per dare una mano.
In quest’area del Kenya le persone si danno da fare a ben vedere, ma vivono in una situazione di estrema povertà. Un’economia di sussistenza dove lo scopo primario del lavoro è riuscire a mangiare la sera. Senza futuro, senza speranze, questa gente lavora così mangia… ogni tanto. La sola possibilità che hanno per uscire da questo stallo è studiare: elementari, medie, superiori, magari l’università, così da trovare un lavoro che possa dare stabilità, un futuro che per questi bambini significa mangiare, vivere in un appartamento con, ma si esageriamo, l’elettricità e l’acqua corrente.
Verso la fine del 2005, assistetti a una riunione convocata dal Centro Operativo Aids, durante la quale la dott.ssa Suligoi illustrò la situazione relativa ai casi di HIV, di Aids e le prospettive future. In quegli anni in Italia la maggior parte dei casi di HIV erano appannaggio dei “tossicodipendenti”, come venivano definiti allora, per via dell’uso di scambiarsi la medesima siringa. Tuttavia la dott.ssa Suligoi intuì che le cose iniziavano a cambiare e ci fece notare un incremento dei casi fra gli “omo-bisessuali”, altro termine coevo. Ricordo che alzai la mano e chiesi qualche informazione in più. Mi venne risposto di non preoccuparmi perché eravamo nella media europea in quanto ad incremento di casi fra gli omo-bisessuali.
L’informazione non mi lasciò particolarmente sereno, infatti decisi di controllare i dati ufficiali dell’Unione Europea e scoprii che l’Italia era esattamente a metà della media europea: 12 Paesi meno bravi di noi e 12 più bravi. Incominciai quindi a cercare di capire cosa facessero quelli più bravi di noi, mi interessò soprattutto notare che non c’erano solo i “soliti” Paesi del Nord Europa, ma c’erano anche Paesi dell’area mediterranea fra i più bravi. Pochi mesi dopo, durante una conferenza di ILGA Europe, assistetti a una presentazione di Ferran Pujol sul Checkpoint di Barcellona aperto appena un anno prima. Il metodo checkpoint anche se nato in Olanda, poteva essere applicato anche in un Paese a noi vicino come la Catalogna.
Inizia così la storia del BLQ Checkpoint, quando chi scrive era ancora responsabile salute del Cassero.
Ci sono voluti sette anni di advocacy per arrivare a convincere la Regione, ma anche l’associazionismo locale, che il checkpoint come modello d’intervento era assolutamente necessario in una città e una regione che da sempre ha un problema importante con le diagnosi tardive di HIV.
Nel 2013 la Regione Emilia-Romagna fa un atto di importante riconoscimento politico: con il DGR 768/2013 con il quale riconosce il lavoro di Plus che viene definito soggetto attuatore del progetto di interesse regionale BLQ Checkpoint. Un atto pubblico coraggioso, che nessun’altra Regione ha avuto il fegato di fare, a dimostrazione che il lavoro di tessitura politica e anche tecnica alla fine paga. I tempi lunghi si spiegano con la difficoltà, in parte insita nella Pubblica Amministrazione, ad accettare i progetti innovativi soprattutto se difficilmente inquadrabili nelle regole e nelle procedure in essere. In effetti un checkpoint non si inquadra in nessuna di esse perché non è un ambulatorio ma esegue test di screening, non è un centro associativo ma svolge attività per la community. In effetti svicoliamo, probabilmente la Regione dovrebbe oggi pensare a un altro gesto coraggioso realizzando delle regole per i Checkpoint, condivise e trasparenti. Ma questo si vedrà.
Il Comune di Bologna si dimostra subito collaborativo e mette a disposizione una dirigente per strutturare una convenzione, che diventerà a tre con l’aggiunta di Azienda Sanitaria di Bologna. Sarà un processo abbastanza faticoso appunto per gli aspetti innovativi di un centro che mal si adatta alle regole esistenti. Ma alla fine ce la facciamo e viene firmata una convenzione trina: Plus, Comune di Bologna e Azienda Sanitaria.
Il Comune ci trova una sede, i locali che occupiamo attualmente, non propriamente una sede meravigliosa perché si trattava di un ex ristorante chiuso da sette anni, pertanto completamente fuori norma e da ristrutturare. Cosa a cui ha dovuto pensare Plus. Posso dire con orgoglio che siamo riusciti a trovare oltre 300.000€ con i quali abbiamo ristrutturato e allestito una sede che, anche grazie al progetto di ben due architetti (Andrea Adriatico e Nino Tammaro), è oggettivamente un bel posto, molto lontano dalla tipica struttura ambulatoriale alienante. Un luogo in sé accogliente, fermo restando che l’accoglienza vera e propria la fa il personale volontario dedicato a questo scopo che non sbaglia un colpo, agisce sempre in modo molto professionale. Visto l’ammontare speso, concordiamo con il Comune una convenzione di 15 anni che non prevede il pagamento di un affitto.
Il terzo ente firmatario è l’Azienda Sanitaria di Bologna. Grazie all’insostituibile lavoro della dott.ssa Venturi, responsabile del Centro C.A.S.A., forse l’unica responsabile genuinamente interessata al progetto, otteniamo una convenzione della durata di quattro anni, credo che sia il massimo per USL. In questa fase iniziale l’Azienda si impegna a fornire gli infermieri per l’esecuzione dei test (anzi, del test perché all’epoca abbiamo iniziato con il solo test di screening per HIV), ad occuparsi dell’acquisto del test, della gestione del materiale di consumo e dello smaltimento dei rifiuti speciali. Inoltre USL si sarebbe occupata, in collaborazione con Plus, della formazione del personale volontario dell’associazione. La disponibilità del personale infermieristico viene fissata in sei ore alla settimana, per cui decidemmo di aprire martedì e giovedì dalle 18 alle 21. Dopo otto anni siamo ancora fermi a questa fase di start-up.
Dopo poche settimane dall’apertura, l’Ospedale S. Raffaele di Milano ci coinvolge in uno studio sull’esecuzione di test di screening a risposta rapida su HCV (epatite C). Di li a poco verranno aggiunti anche i test per sifilide.
Alla scadenza della convenzione lato USL, dopo vari solleciti per un incontro teso a rinnovo ovviamente, per tutta risposta ci arriva una mail con la convenzione già rinnovata, in peior, e già firmata dalla dott.ssa Gibertoni allora direttrice generale dell’Azienda Sanitaria di Bologna. La convenzione passa da 4 anni a uno, si mette così una pietra tombale sulle reali possibilità di sviluppo del BLQ Checkpoint… come se questo non fosse sufficiente, quest’anno (2023) il rinnovo annuale della convenzione ha subito un ritardo di ben sei mesi. Per cui siamo nelle condizioni di ipotizzare programmi di sviluppo senza la collaborazione di USL, che manco risponde alle mail e si fa negare al telefono, della durata massima di 12 mesi, quest’anno ridotti a sei.
Poi si chiedono perché chiudere.
Per riprendere l’esempio del Checkpoint di Barcellona, i cui abitanti sono più o meno come quelli della nostra regione, quel centro è aperto 12 ore al giorno, il personale interno riceve uno stipendio, hanno comunque decine di giovani volontari che promuovono il servizio nelle discoteche, ai Pride e così via. Il centro distribuisce la PrEP gratuitamente mentre noi dovremo impazzire. Un centro che ha aperto 17 anni fa in puro volontariato, che oggi offre un’opportunità di lavoro e segue oltre 2.000 persone. Questo significa sviluppo.
A Bologna invece da alcuni anni ci dobbiamo pagare i test per sifilide per motivi burocratici ma mai confermati ufficialmente, non abbiamo contezza di chi sia il nostro medico di riferimento perché dal giorno in cui la dott.ssa Venturi è andata in pensione semplicemente questo passaggio è saltato, siamo stati spostati dal Dipartimento cure primarie a quello di salute mentale senza alcuna spiegazione. Chissà, forse qualcuno ha ipotizzato che i gay possano avere problemi in tal senso. A ben vedere siamo riusciti ad andare avanti in questi ultimi 4 anni solo grazie all’appoggio della Responsabile infermieristica che ci segue, anche meglio di un medico, dott.ssa Assueri.
Va da sé che Plus non ha alcun preconcetto ideologico, pertanto a fronte di un impegno serio della Pubblica Amministrazione e dell’Azienda Sanitaria nello specifico, un impegno che vada nella direzione logica che ha portato il Sindaco Lepore a firmare il protocollo Fast Track City e che, quindi, metta il BLQ Checkpoint nelle condizioni di uscire dalla fase di start-up e dare un serio contributo al raggiungimento degli obiettivi di UNAids prima del 2030, non abbiamo nessun problema a fare marcia indietro.
Ma al momento resta in essere la decisione di chiudere il BLQ Checkpoint a partire dal 1 luglio 2023. Di seguito il comunicato stampa.
Sembra proprio che anche l’ultima commissione di AIFA abbia dato parere favorevole al rimborso della PrEP da parte del Sistema Sanitario Nazionale. Abbiamo finalmente fatto un passo in avanti con quasi 10 anni di ritardo (!), che vuol dire che tante persone si sono contagiate per l’ignoranza, la burocrazia e la supponenza di questo Paese.
Ci è bastato leggere la grassa ignoranza con cui troppi giornalisti hanno dato la notizia per renderci conto del livello di interesse o, forse, della stupidità. Ad ogni modo la parte tecnica pare abbia finalmente deciso ma, ovviamente, questo non vuol dire che domani mattina troveremo i flaconi gratis in farmacia.
Ora attendiamo la determina, poi la pubblicazione in gazzetta ufficiale. Poi, presumo, un passaggio in conferenza Stato Regioni. Poi ogni Regione dovrà pur deliberare qualcosa per far entrare il farmaco in prontuario o modificarlo, un budget dovrà essere definito e quello del 2023 già è fatto.
È ipotizzabile che qualche Regione opti per passare al 2024?
Resta sulla porta il problema delle prescrizioni solo erogabili dall’infettivologo dopo una visita che, qua e là, si paga. Poi ci sono i test di controllo che, qua e là, si pagano.
Poi ci sono i deliri di onnipotenza di questo o quel primario che decide che nei “suoi” ambulatori “quella roba li” non si prescrive, come del resto già accade.
Ovviamente nessuno sta pensando a coinvolgere i Checkpoint, o più correttamente, i PrEP Point che, dove presenti, potrebbero svolgere un ruolo importante, non sia mai che dei centri community based defraudino un clinico di un qualche potere.
Speriamo almeno che non obblighino le persone in PrEP a recarsi solo presso le farmacie ospedaliere che, per diffusione e orari di apertura, non offrono un servizio paragonabile alle farmacie private.
Inoltre, se proprio deve essere l’infettivologo a prescrivere il farmaco per la PrEP, almeno che sia in fascia A e sulla base di un pianoterapeutico di 12 mesi, così che, nel caso, il farmaco possa essere prescritto anche dal medico di medicina generale.
Nel frattempo, gli italiani acquistano la PrEP online a prezzi competitivi, spesso senza alcun controllo medico, grazie agli ostacoli dei burocrati, agli interessi politici, ecc.
Ma non è tutto, dobbiamo anche aggiungere gli ostacoli piazzati per anni da diversi esponenti del movimento LGBT. Alcuni di maggiore peso, come Giovanni Dall’Orto che nel 2017 pontificò su Pride (evidentemente uno spazio LGBT su cui fare affidamento), o altri decisamente meno influenti ma comunque con un seguito, come il sig. Mangiacapra che dalla Campania da anni tuona contro Plus e contro il sottoscritto più o meno direttamente, per tacere del Cassero che, ancorché circolo LGBT storico bolognese per anni all’avanguardia sul tema diritti, su PrEP ha sempre avuto una posizione guardinga, quando non nettamente contraria, soprattutto nelle precedenti gestioni, con buona pace dell’indiscusso impegno del responsabile salute di Arcigay nazionale. Fa ben sperare la nuova Presidente del Cassero, Camilla Ranauro, che giusto ieri ha annunciato la decisione di AIFA con molto entusiasmo.
In sintesi, non è tutta colpa di Aifa se PrEP in Italia è ancora così controversa, non alla portata di tutti, ecc. Di questo HIV da anni sta ringraziando.
In questo delirio di assurdità ascientifiche, per fortuna molti gay italiani pensano che assumere un farmaco che previene HIV non fa mica schifo! Ormai diverse migliaia di persone in Italia sono in PrEP e i costumi, la mentalità, la cultura stanno pian piano cambiando, anche grazie – lo dico con orgoglio – al lavoro di Plus su PrEP iniziato nel 2013 (bel prima che EMA la autorizzasse).
Oggi si muovono i primi prepster in Italia e, una volta di più, i gay italiani hanno sopravanzato i falsi profeti e cercano e usano tutti gli strumenti che la scienza mette a disposizione con HIV.
Un passo nella giusta direzione. Il lavoro non è finito. Dobbiamo recuperare il ritardo, smettere di considerare le varie forme di prevenzione come alternative una all’altra (vanno usate tutte e poche storie), guardare con fiducia ai passi in avanti della ricerca su PrEP a partire dall’iniezione di Cabotegravir con copertura bimestrale che è già una realtà negli USA.
Difficile dire qualcosa di sensato su Stefano Tallulah Pieralli che, poco fa, ci ha lasciati.
Difficile perché Stefano ha fatto davvero tanto. Nello sconforto della perdita, ho provato a leggere i commenti sui social che, pur avendo postato la notizia da poche ore, sono già moltissimi. Alcuni mi fanno tornare alla mente tanti episodi di un’amicizia pluridecennale. Altri, per fortuna uno o due, avrebbero dovuto collegare i neuroni prima scrivere.
Stefano ha fatto tutto e anche disfatto tutto ma, come sa chi lo conosceva bene, “conteneva moltitudini”. In 40 anni di attivismo ha contribuito a fondare l’Arcigay e a criticarla aspramente; ci sono foto che testimoniano di un ragazzino biondo e riccioluto che partecipava alle prime attività del Cassero. Irriconoscibile se non per la tipica smorfia di quando si accendeva una sigaretta, rimasta intatta per i successivi 40 anni. Tra i fondatori di Arcigay a Reggio Emilia, che gli varrà il secondo nome d’arte di Granduchessa. L’unico circolo che, ancora oggi, riteneva degno della sua idea di associazionismo militante, politico ma poco o per niente ideologico, anzi, molto concreto.
Una concretezza che lo ha portato da subito allo scontro con quel sistema sociale che voleva i gay tristi e sfigati, mentre Stefano tutto era tranne che triste e sicuramente non sfigato. Rompere gli schemi, diceva ogni tanto, lo stesso pensiero che porta il giovane Pieralli a travestirsi e a battere il marciapiede (ma gratis, facendo incazzare le professioniste e rischiando anche le botte in un paio di occasioni), o ad appostarsi nei pressi delle caserme per adescare i militari che, del resto, non vedevano l’ora secondo le cronache dell’epoca. Ancora fino pochi mesi fa, il tema della riappropriazione del piacere lo vedeva fervido sostenitore, insieme all’altro pilastro di Plus, Giulio Maria Corbelli, scomparso pochi mesi or sono.
Stefano è stato dirigente del PCI, qualcuno lo ricorda online, ma ha sempre rifiutato proposte di carriera politica legate al suo orientamento sessuale, “io non faccio il gay del partito”. Tutti ricordano i racconti di Frattochie, dell’esperienza in URSS, ecc. Stefano era una delle poche persone del movimento con una chiara visione politica e ancor più chiara capacità di analisi dei quadri politici che si sono succeduti negli anni, per tacere dell’invidiabile capacità di inquadrare al volo le persone. Quante volte mi sono sentito dire “te l’avevo detto che era un idiota”. Fra i vari commenti online ho letto “aristocratico”, vero. Un marxista aristocratico con una punta di monarchia illuminata (dalla sua luce ovviamente). Trovatene un altro in grado di contenere queste moltitudini.
Stefano, come scrive nelle righe di presentazione del Direttivo di Plus, lavorava come educatore nelle dipendenze patologiche, quindi riduzione del danno, pene alternative, ecc. Anche li in contro tendenza alla logica dei “poverini”, semmai seguendo la logica del vaffa alternato all’ascolto e alla comprensione. Ho potuto constatare di persona quanto bene gli volessero “i suoi ragazzi” – come li chiamava.
E poi Plus. Da sempre, da prima della fondazione. Fu Stefano a mettermi sotto al naso il bilancio del Cassero – ovviamente gestione di oltre 10 anni fa – e a farmi notare che con una previsione di spesa di pochi euro per il settore salute “non si fa un checkpoint, torna sulla terra”. Non per caso, è stato il MIT a offrirci spazi per i nostri primi test per HIV.
Qualcuno online lo definisce testardo. Non lo conosceva bene o, più facilmente, non era in grado di argomentare al suo livello. Stefano difendeva le sue posizioni che neanche un fante della prima guerra mondiale in trincea. Ma ascoltava, rifletteva e cambiava idea se il confronto era sufficientemente di alto profilo e le motivazioni di pari valore. Di certo non era quello che ti dava ragione per farti contento. La via più facile, una moda diffusa in Italia alla quale possiamo far risalire l’arretratezza in cui versa il nostro Paese, non era il modus operandi di Stefano e, guarda caso, non è neppure quello di Plus, un’associazione che ha fatto scelte in controtendenza, articolate, spesso non semplici, sulle quali Stefano ha avuto un’influenza importante. Un’influenza, un insegnamento, una impostazione che ci ha consentito di reggere colpi durissimi come la morte di Giulio, e che oggi ci mette nelle condizioni di andare avanti nonostante non ci sia più Stefano in Direttivo. Queste cose accadono quando i grandi uomini lasciano grandi insegnamenti in eredità. La strada è li, basta camminarci sopra. Possibilmente su quegli stessi tacchi favolosi indossati da Tallulah, le uniche scarpe sulle quali non zoppicava.
Ebbene si: ho barato. C’è ancora un pezzo di relazione che mancava e riguarda i poster, ossia quegli studi i cui abstract sono stati accettati e pubblicati in forma di cartelloni nella sede della conferenza, un enorme salone dedicato agli abstract. Naturalmente erano oltre 1000 gli studi pubblicati, io ne ho selezionati solo alcuni. I poster sono linkati, se cliccate è possibile vederli in un formato sostenibile.
Incomincio con i nostri colleghi/”rivali” del Checkpoint di Milano, che sono bravi a valorizzare i dati che raccolgono. CROI ha accettato il loro lavoro: Mpox: Sexual behavior reduction do not explain decreased Mpox incidence among prep users. In sintesi i milanesi hanno notato che i ragazzi in PrEP che seguono, non hanno minimamente cambiato le abitudini sessuali durante l’epidemia di Mpox e non si spiegano come mai i casi siano calati. Ricordo che il cluster milanese da solo copriva il 50% dei casi nazionali. Non è spiegabile con vaccino che è arrivato tardi rispetto ai tempi della statistica, tantomeno con la lentezza con cui il vaiolo delle scimmie replica, perché secondo il dott. Rossotti (il secondo da sinistra nella foto) sostiene che i dati clinici in suo possesso mostrano un’accelerazione nell’incubazione scesa a 3 giorni. Volendo cavarcela con una battuta, anche perché con i dati attuali non ci sono spiegazioni scientifiche, forse mpox non è riuscito a tenere il ritmo degli MSM di Milano.
Lo studio Burden of coronary disease in transgender women with and without HIV invece, ipotizza una relazione fra la terapia ormonale in donne trans e problemi cardiovascolari. Non è tanto per lo studio in sé che non è di particolare peso, ma per il fatto che finalmente qualcuno pubblica studi sulle persone trans.
Lo studio olandese Sexual behavior and sti incidence during the first 4 years of prep use among MSM, riporta alcune considerazioni sugli MSM in PrEP. Durante i primi 4 anni di utilizzo della PrEP, l’incidenza complessiva di IST è stata elevata e stabile. L’incidenza di clamidia e gonorrea è leggermente diminuita negli utenti daily ma, al di la di questo la linea di tendenza vede un incremento di casi di IST per poi stabilizzarsi. I test regolari e il trattamento delle IST rimangono una priorità tra gli utenti in PrEP. La prevenzione biomedica delle malattie sessualmente trasmissibili può essere esaminata in questo contesto.
Il simpatico studio PEP-in-pocket (PIP): long-term follow-up of on demand HIV post-exposure prophylaxis probabilmente farebbe venire un ictus agli infettivologi restii a concedere al PrEP (soprattutto ai gay). La PIP, in italiano sarebbe PEP in tasca, si rivolge a persone che hanno un alto rischio di contagio ma non molto spesso. La PIP consiste nel fornire a queste persone 4 settimane complete di PEP, il counselling perché abbiano chiaro quando iniziare il trattamento e dove recarsi in caso di bisogno. Le conclusioni vanno oltre proponendo la PIP il passaggio da PIP a PrEP in base all’evoluzione del rischio delle persone. Inoltre, è suggerito di includere la PIP, insieme a PEP e PrEP, nelle opzioni biomediche di prevenzione dell’HIV per gli individui HIV-negativi a rischio di infezione.
Dalla terrazza esterna del nuovo centro congressi di Seattle, dove c’è voluto tutto il mio coraggio per sedermi (soffro un po’ di vertigini) inizio l’ultima relazione… penultima va… che è proprio su un tema che mi è caro, per ovvi motivi: l’ageing. L’invecchiamento. La plenaria di oggi è stata molto interessante perché un geriatra – George A. Kuchel, University of Connecticut – con una evidente propensione per l’infettivologia ha tenuto finalmente una relazione dove sono stati messi a confronti modelli e dati relativi all’invecchiamento con e senza HIV.
Quella che a troppi medici infettivologi italiani sembra poco più che una seccatura su cui fare battute sportive, al Croi viene presa così sul serio da trovargli spazio in una plenaria davanti ad alcune migliaia di medici (e alcuni attivisti).
Lo studio di Greene pubblicato su JAIDS 2015, ha arruolato una coorte di persone con HIV adulte. Come si vede dall’immagine vengono descritti problemi che portano alla diagnosi di sindrome geriatrica che normalmente il medico riscontra in persone intorno agli 80 anni, se non che i dati fanno riferimento a persone con HIV di 60 anni o più giovani.
Che è, in sostanza, quello che sostiene il prof. Guaraldi in Italia basandosi sui dati raccolti dalla coorte di Modena. La presentazione prosegue con altri due studi del 2013 e del 2015 dove si spiega come HIV acceleri o accentui l’invecchiamento. Detto questo il geriatra spiega che il processo invecchiamento è multifattoriale, ossia non è un solo elemento che va in on e si incomincia ad invecchiare. I fattori sono molti, per esempio la metilazione del DNA, e HIV interviene a favorire o bloccare alcuni di essi provocando una accelerazione.
Con l’invecchiamento precoce avviene quella che Kuchel definisce, forse in modo un po’ avventuroso, un altro tipo di crisi AIDS ossia l’insorgenza di co-patologie, “un numero crescente di pazienti con HIV vive più a lungo ma invecchiano più velocemente mostrando precocemente segni di demenza e fragilità ossea che solitamente si vedono in pazienti più anziani (tradotto da David France, published nov. 1, 2009). E il punto non sta nel non voler invecchiare o pensavate di vivere per sempre, come mi sono sentito rispondere anche di recente da pregiati infettivologi in Italia.
Il punto è che questi temi vanni tenuti presente e alcuni problemi possono essere diagnosticati precocemente in modo da rendere meno penosa e più in salute le persone con HIV. Ovvio che invecchiare è un processo naturale, dovrebbe essere altrettanto ovvio per dei clinici seri collaborare con i colleghi che si occupano di geriatria e portare dati a supporto invece di canzonare o fare battutine. Il dott. Kuchel infatti cita quello che sembra essere un problema anche negli USA: le barriere istituzionali. Siamo tutti così chiusi nei nostri settori che ci risulta difficile collaborare con altri. E con “settori” intende quelle che in Italia si chiamano società scientifiche e anche le istituzioni sanitarie che, a suo dire, dovrebbe essere meno concentrate sui propri obiettivi, più collaborative.
No, reservoir non è una elegante parola francese che indica la scorta di champagne del duca di Guermantes, bensì il motivo per cui non riusciamo a liberarci di HIV. Il serbatoio del virus, quello che è già bello abbondante dopo solo un anno di replicazione virale senza trattamento. Figuriamoci cosa può essere quello dei late presenter con 7/8 anni di replicazione non trattata.
Stamattina c’è stata una bellissima presentazione su questo tema. Bella quanto complicata. Quello del virus latente è davvero un tema complesso. La presentazione è stata tenuta da Janet M. Siliciano, The Johns Hopkins University School of Medicine dal titolo: HIV Reservoirs: Obstacles to a Cure.
La ricercatrice accenna con una slide ai “bei tempi andati” quando finalmente arrivarono i primi farmaci e si pensò evviva, è fatta: HIV viene ridotto ai minimi termini dal trattamento, poi si potrà interrompere quando HIV non replica più. Presto ci si rese conto che poco dopo l’interruzione del trattamento avveniva il cosiddetto rebound, ossia HIV riprendeva vita e tornava rapidamente ai livelli pre-ART. Ci si rese conto rapidamente che HIV resta latente e invisibile al sistema immunitario, un po’ come le spie russe in occidente nei film, pronto a tornare in lizza al primo accenno di calo della pressione farmacologica. Ma possono restare in stasi per sempre? Quasi.
Queste cellule degradano certo ma molto lentamente, al punto che se i reservoir sono pieni le latenti te le tieni tutta la vita. Diversi studi ormai hanno dimostrato una persistenza almeno ventennale delle latenze. Il tema non cambia nelle persone in terapia anche da molti anni, anche undetectable. I farmaci, infatti, aggrediscono i virus in fase di replicazione ma nulla possono contro i serbatoi. Le motivazioni sono molto tecniche e ovviamente non mi addentro, ma gioca un ruolo la proliferazione delle cellule infette, la viremia residuale e così via. C’è niente che si possa fare? La ricercatrice sembra storcere il naso. Sembra di si: varie combinazioni di immunizzazione terapeutica, agenti slatentizzanti, così come gli anticorpi neutralizzanti, possono portare a un certo grado di controllo immunitario. Tuttavia siamo ancora lontani dalla soluzione definitiva.
Fra le varie possibili sessioni contemporanee, ho scelto quella del covid e Mpox. Forse scelta non brillante. Ne ho tratto una sensazione di déjà-vu, come quando anni fa si tentava l’utilizzo di questo o quel farmaco contro HIV. Oggi è la volta di sars-cov-2. La presentazione più interessante è stata, forse, quella di Takeki Uehara della Shionogi, quella del Crestor per intenderci, che ha presentato l’abstract: Ensitrelvir for mild-to-moderate covid-19. Lo studio, in fase, 3, si propone di valutare efficacia e sicurezza di Ensitrelvir (ma chi inventa i nomi delle molecole?), una volta al giorno, per 5 giorni di trattamento orale, in persone con covid definito lieve/moderato, in persone fra i 12 e i 69 anni, con o senza vaccinazione ma con un rischio che la malattia passi a severa.
Come endpoint primario lo studio si propone di valutare la risoluzione dei sintomi di covid-19, mentre come endpoint secondario principale di valutare la quantità di RNA virale al quarto giorno di somministrazione, i tempi per giungere a un esito negativo e la sicurezza. C’è anche un endpoint esplorativo relativo alla presenza di sintomi caratteristici del “long covid”.
Devo dire che le caratteristiche dei pazienti mi danno l’idea che anche i giapponesi selezionano pazienti perfetti: maschi, ovviamente, età mediana 35 anni, la gran parte vaccinati contro il virus del covid, etnia asiatica, quasi tutti con la variante omicron, con o senza rischio di malattia severa.
In questo quadro il farmaco antivirale pare abbia dato ottimi risultati:
rapida risoluzione dei sintomi potente attività antivirale 87% di riduzione del virus rispetto al braccio placebo
Ben tollerato e pare che riduca anche i sintomi del long covid. Detto questo non posso fare a meno di chiedermi che dati avreste avuto su pazienti di 60 anni ma il ricercatore sembra un samurai in giacca e cravatta, vorrei evitare di perdere una mano per cui evito di scrivere la domanda sul Q&A della piattaforma della conferenza.
Altri studi propongono di agire contro covid con interferone pegilato, altro déjà-vu, che sembra dia buoni risultati, o gli anticorpi monoclonali amubarvimab e romlusevimab che porterebbero a una riduzione molto consistente delle ospedalizzazioni.
La presentazione sul vaiolo delle scimmie, recentemente ribattezzato MPox per ragioni etiche, è stata sicuramente la più interessante della sessione. Con il titolo Mpox in people living with hiv and cd4 counts <350 cells/mm3 – a global case series, Chloe Orkin del Queen Mary University Hospital di Londra, ha fatto inorridire e preoccupare tutti. Si è trattato di una raccolta di dati, a cui ha partecipato anche l’Italia, in tutto il mondo.
Degli 85.000 casi di Mpox rilevati in 111 Paesi, fra il 38 e il 50% avevano l’HIV, la maggior parte in trattamento ARV, con più di 500 CD4 e quindi con una situazione al basale sovrapponibile a quella delle persone senza HIV. Lo studio, che ha coinvolto 19 Paesi prevalentemente in Europa e Americhe, è andato a cercare i casi di persone particolari. Infatti uno dei criteri di ammissione voleva un numero di CD4 > 350 che, come sapete, è indice di un sistema immunitario già compromesso da HIV e i partecipanti alla ricerca registravano una situazione immunitaria molto problematica nella quale Mpox ha sguazzato replicando in tutta tranquillità e massacrando cute e organi del paziente. Vi risparmio le immagini che sono state mostrate. Per altro, farmaci specifici per Mpox sono stati resi disponibili solo in USA e Europa, mi è facile pensare UE. Gli altri arrangiarsi, per cui ecco i pazienti con complicazioni con lesioni necrotiche severe alla cute, con sintomi respiratori, complicazioni rettali, orofaringee, oculari, al sistema nervoso centrale, arresto cardiaco – respiratorio. Insomma, la epidemia di Mpox si è rivelata essere tutt’altro che una sciocchezza per chi vive, viveva, con HIV e aveva meno di 350 CD4. Infatti le conclusioni della ricercatrice sono drammatiche nell’evidenza scientifica: tutte le 27 persone morte per l’azione di Mpox avevano meno di 200 CD4. La severità delle complicazioni correla con i CD4 e la carica virale. Questo porta a dire anche che:
Mpox è un’infezione patogena opportunistica che correla con la definizione di Aids. Cosa di cui CDC e OMS dovrebbero tenere conto nella classificazione internazionale delle patologie e, addirittura in caso di CD <200 c’è la raccomandazione clinica di una vigilanza come nel caso di sepsi e, ovviamente, di diffondere maggiormente i farmaci e di prevenire con i vaccini la diffusione di Mpox, in particolare in quei Paesi che non hanno accesso a queste risorse.
Forse perché è stato l’ultimo lavoro di Giulio, forse perché Plus ha collaborato inviando persone al Policlinico di Modena per l’arruolamento, ma ho deciso di partecipare all’ultima sessione di oggi dedicata allo studio Mosaico. È quello del vaccino contro HIV pensato per gli MSM che, per chi ancora non lo sapesse, è stato interrotto perché non efficace. Il titolo della sessione è “Results from the Mosaico HIV vaccine trial and future directions for HIV vaccines”.
La sessione è iniziata con la rapidissima illustrazione dello studio da parte di Susan Buchbinder del San Francisco Dep. Of Public Heath, che ha spiegato il razionale del vaccino che, come ricorderete, cercava di mettere insieme vari pezzetti del virus per stimolare la risposta immunitaria al netto delle varianti, ha descritto la distribuzione in effetti i centri di sperimentazione sono stati molti alcuni anche in Italia. Ricordo anche che Plus ha collaborato con il Policlinico di Modena inviando diverse decine di arruolandi. La particolarità dell’arruolamento consisteva nel fatto che gli utenti in PrEP non potevano partecipare allo studio. Tuttavia gli arruolati durante il trial se cambiavano idea potevano entrare in PrEP, restando nel trial ma va detto che in pochi hanno accettato la PrEP.
Apparentemente sembra una cosa molto buona e in effetti lo è. Tuttavia non mi sfugge il fatto che chi ha optato per tentare la via del vaccino, lo ha fatto perché non era in PrEP e probabilmente non voleva neppure entrare in quel trip fatto – anche – di visite, test, prescrizioni, così come giudizi, pregiudizi e ignoranza assortita. Col senno di poi sono tutti dei fenomeni, ma forse sarebbe stato utile un coinvolgimento della community MSM che andasse oltre il semplice invio, o forse una volta per tutte, possiamo dire che parlare con un medico non è counselling ma è colloquio medico-paziente e sappiamo tutti come sono quelle dinamiche, per quello che vale generalizzare.
La Buchbinder ha proseguito con le caratteristiche dei partecipanti – in gran parte MSM con un 6% di donne trans e persone non binarie – la retention in care è stata altissima evidentemente c’era fiducia nella sperimentazione, la safety ossia sicurezza è stata dimostrata, ma il numero di contagi nel braccio di sperimentazione e in quello col placebo erano sovrapponibili come si vede anche nell’immagine. L’ultima slide della Buchbinder ci dice che, nonostante non ci siano stati problemi con la sicurezza del prodotto, il regime non è stato efficace per prevenire il contagio da HIV.
Punto.
Ovviamente stiamo parlando di una ricerca che poteva andare bene come male. Tutti i partecipanti erano stati largamente avvisati che c’erano dei rischi. Ma i dati della partecipazione soprattutto in America Latina e della retention mi fanno pensare che ci fosse una grande speranza, una grande attesa che è stata delusa.
Dietro ai numeri della slide della Buchbinder, ci sono delle persone che hanno messo in gioco i loro corpi, le loro speranze di un mondo senza HIV, qualcuno si è anche giocato la salute al di là delle buone intenzioni.
Per questa ragione, mi sarei aspettato un we feel sorry for all the people who were enrolled in the study. Invece niente, anzi, quasi il fastidio di dover parlare del Mosaico quando c’era un altro relatore che doveva parlare di scienza vaccinale. Qualcosa del genere la Buchbinder lo ha anche detto.
Nel grafico gli esiti di Imbodoko e Mosaico, le curve delle infezioni del braccio di sperimentazione e del placebo sono sovrapponibili per cui i vaccini sperimentali non hanno fatto la differenza.
L’altro relatore, Lawrence Corey del Cancer Research Center di Seattle, ha fatto una overview sugli studi sui vaccini, su Imbodoko (lo studio “gemello” africano su persone eterosessuali pure lui fallito), ha descritto le capacità tecniche che occorrono per realizzare un vaccino, capacità che il centro possiede, ha detto con orgoglio: “we have a rich scientific portfolio in approaches and our approaches and our scientific challenge is to put these different approaches into a coherent vaccine regimen”. La sensazione è che fosse più preoccupato per i soldi di Jannsen, che ovviamente non arriveranno più, che per altro.
E con queste ci hanno salutato e via. Non una parola su cosa credono sia successo, se lo hanno capito, non una possibilità al numerosissimo pubblico intervenuto di interloquire.
Siamo negli Stati Uniti è vero, la patria del dio denaro al quale non può fregare di meno di quei creduloni dei peruviani o dei messicani che si sono arruolati in massa, ma comunque è stato un brutto modo di chiudere una pagina che aveva suscitato attese e speranze.
Con una piccola citazione dal film di Pedro Almodóvar, parto con la relazione di oggi.
La plenaria di oggi ha celebrato i 30 anni della Pepfar.
The U.S. President’s Emergency Plan for AIDS Relief (PEPFAR), un impegno oggettivamente molto alto degli Stati Uniti che dal 2003 ha investito qualcosa come 100 miliardi di dollari in una singola malattia. Di questo ha parlato il direttore del programma Pepfar per l’Africa John Nkngasong di cui ho apprezzato la chiarezza espositiva con la quale ha mostrato i passi in avanti fatti grazie al programma.
Come vedete dall’immagine, la situazione in Africa prima del 2003 era davvero pessima, c’è da dire che lo si sapeva almeno dal 1990, con crollo dell’aspettativa di vita fino al 35% in Zimbabwe, non che gli altri Stati fossero messi molto meglio. L’impatto di HIV/AIDS ha sconvolto la vita di milioni di africani nel disinteresse generale, diciamolo. Nel dicembre 2002 i membri afroamericani del Congresso indirizzarono una richiesta d’aiuto al Presidente Bush che prese l’impegno di sostenere le richieste contenute e già a gennaio 2003 annunciò l’impegno dell’amministrazione per un piano straordinario di aiuti per “the people of Africa”. Al di la di questi aspetti un po’ lecchini, i fondi non solo sono arrivati ma, grazie a una serie di controlli, sono stati usati davvero per cercare di porre rimedio alla situazione in Africa, sia pur con colpevole ritardo.
Il relatore cita i dati di 30 anni di interventi, progetti, azioni in vari Stati del Continente resi possibili grazie ai fondi Pepfar:
E per fortuna verrebbe da dire perché l’Africa da sola raccoglie il 60% delle infezioni da HIV del pianeta e il 65% delle morti aids correlate. Tuttavia la cosa incredibile è nonostante questa situazione molti Stati africani hanno raggiunto gli obiettivi UNAids (i tre 90) e sono addirittura vicini a raggiungere i tre 95 previsti per il 2030. Parlo del 95% delle persone con HIV diagnosticate, il 95% delle persone diagnosticate in terapia, il 95% delle persone in terapia undetectable. Quegli stessi obiettivi che il Sindaco di Bologna si è impegnato a ottenere prima del 2030 aderendo a Fast Track City. Speriamo di essere più bravi del Botwana che, secondo i dati presentati, è a un passo da raggiungere i tre 95.
20,1 di persone in trattamento 5,5 milioni di bambini nati senza HIV 70.000 strutture realizzate 340.000 operatori sanitari formati 3.000 laboratori in funzione.
Gli investimenti hanno infatti consentito vaste campagne di testing che hanno portato alla luce dati già noti – come i numeri incredibilmente alti di donne contagiate – ma anche dati non noti come il boom di casi fra giovani uomini cresciuto del 33%, è evidente che non facevano i test.
Inoltre, l’impegno di questi anni ha reso possibile il dispiegamento di personale formato anche contro covid (vaccinazioni, test, raccolta dati). Alla fine quella Pepfar si è dimostrata una piattaforma utile anche per contrastare altre infezioni emergenti.
Ovviamente ora, per citare il relatore, l’Africa vuole andare avanti e sono previsti investimenti nella direzione dei long acting come PrEP, in laboratorio e progetti di ricerca per la cura contro HIV. Progetti ambiziosi che fanno impallidire la coscienza dei politici italiani, se ne avessero una, in perenne ritardo su qualunque tema innovativo in questo campo.
Ho partecipato anche ad alcune sessioni interessanti su un tema di cui in Italia si vocifera da tempo ma non si prende nessuna decisione ufficiale: la doxiciclina come profilassi post esposizione per le IST batteriche, principalmente gonorrea, clamidia, sifilide. Infezioni molto comuni fra i nostri utenti in PrEP, test che potremmo effettuare anche al Checkpoint se non fosse per inedia dell’Azienda Sanitaria, ma anche considerando solo i dati del PrEP-Point sarebbe interessante ragionarci su questa forma di PEP.
Nella sezione Hiv And Sti Prevention: New Tools Approaches sono stati presentati numerosi studi sia pur non con grandi numeri, i cui risultati vanno tutti nella direzione di un consistente calo di incidenza di IST.
Lo studio più strutturato, anche se open label, è quello presentato da Molina, il papà della PrEP francese ricercatore principale dello studio Ipergay che ha portato la PrEP on demand nelle nostre case. Gli studi sostanzialmente convergono sulla concentrazione efficiente e persistente della doxy nelle mucose, in particolare quelle rettali (il che spiega l’efficacia osservata negli MSM, dice la ricercatrice con un tono più vicino all’invidia che alla sorpresa) quindi per funzionare funziona ma ci sono ancora perplessità rispetto al dosaggio e, soprattutto sulla possibilità di creare ceppi resistenti.
Tornando a Molina e il suo studio “Doxyvac”, che è particolare perché i partecipanti – tutti MSM – sono stati inizialmente divisi in 4 gruppi: 1 gruppo con DoxyPEP e uno senza, un gruppo con il vaccino contro meningite B e uno senza, il tutto con numeri consistenti (fra i 170 e i 330 arruolati a seconda dei bracci di sperimentazione). I dati sono molto buoni in particolare su clamidia e sifilide che hanno visto un calo di incidenza fino all’80%, ma anche su gonorrea 55% direi che non ci possiamo lamentare. L’evidenza sostenuta da questi dati ha convinto l’organo di controllo dello studio a fermare l’arruolamento di nuovi partecipanti e a offrire a tutti doxypep e il vaccino. Come “nota di colore” chiudo con un commento, fra le varie slide che sono state presentate, una che mi ha molto divertito riguarda la valutazione sulle variazioni dei comportamenti sessuali, il sexual behaviour, dei ragazzi gay del campione: nessuno. Come potete vedere dall’immagine, al netto che i ragazzi fossero in doxypep o no, fossero vaccinati o no, non si sono registrate variazioni, il che la dice lunga sulla necessità di questo genere di pep nel campione preso in esame.
Sexual behaviour
Le conclusioni di Molina sono chiare:
la pep con doxy è ben tollerata e vede un alto tasso di aderenza;
i dati mostrano un consistente calo nell’incidenza di IST negli MSM;
il vaccino 4CmenB ha ridotto l’incidenza di un primo episodio di NG fra gli MSM arruolati;
in corso la valutazione del pieno impatto sulla resistenza agli antibiotici (IST, microbioma).
Ovvio che la bacchetta magica non ce l’ha nessuno ma potrebbe essere sulla carta utile un approccio combinato.
Rispetto al tema delle resistenze gli studi non hanno sottolineato ma sembra evidente che serviranno studi mirati di più lunga durata per valutare se questo problema sulla carta consistente si può considerare superato o superabile e comunque credo che sia meglio attendere i dati sulle resistenze dello studio di Molina che mi è sembrato il meglio strutturato.
Come vi ho anticipato nell’introduzione, stamattina si è tenuta una sessione dei workshop precongressuali dove alcuni ricercatori hanno spiegato lo stato dell’arte sul tema HIV e dintorni. Tranquilli, non vi descriverò tutte e sei le relazioni ma solo alcune che so essere di interesse per la comunità dei pazienti così come per chi è HIV negativo e vuole restare tale.
Il primo stato dell’arte riguarda le strategie di trattamento dell’HIV, illustrato da Monica Gandhi, University of California San Francisco che ci ha aggiornato sul tema delle terapie iniziando con i pazienti naïve, ossia quelli che non hanno mai assunto un trattamento, e i pazienti undetectable, per poi passare alle nuove strategie.
Scegliere la terapia per chi deve iniziare così come semplificare per chi è già a viremia soppressa e deve restare tale, non è cosa semplice. La ricercatrice ha sciorinato una lunga serie di studi sulle varie combinazioni di farmaci e la loro efficacia a seconda della tipologia di paziente. Per esempio: molti studi hanno comparato il Bictegravir con DTG+FTC/TAF o DTG/ABC/3TC dove è stato dichiarato non inferiore in paziente naïve, oppure altri studi, come il Solar, che studia i pazienti in trattamento con CAB/RPV che prima era usavano BIC/TAF/FTC o ancora lo studio Calibrate che analizza la somministrazione di LEN ogni 6 mesi o daily in combinazione con altri farmaci ARV in pazienti naïve. Questi studi, ancorché decisamente noiosi da ascoltare, sono estremamente utili per chi prescrive (e magari anche per chi manda giù le pillole) perché aiutano a capire quale combinazione è la più efficace, quale rischia di creare mutazioni e quindi resistenze, quale causa effetti collaterali che possono essere un problema, e così via. Per esempio, una idea emergente è che Efavirenz e Tenofovir sembrano essere “anoretici” mentre Dolutegravir è associato a un incremento di peso. Sono osservazioni che vengono rilevate con questi studi di confronto e di cui i clinici tengono conto quando hanno davanti un paziente.
Il secondo punto della relazione è sui pazienti con resistenze, ossia mutazioni di HIV che rendono vani uno o più farmaci. Inizia proprio con una slide che cita le 12 mutazione che tutti i prescrittori dovrebbero conoscere (una volta fatti i test di resistenza, vorrei aggiungere, vengono fatti?). E anche su questo tema ci propone una lunga serie di studi su varie combinazioni di farmaci ARV che possono essere utili a salvare la vita di chi ha sviluppato resistenze, per esempio lo studio D2EFT su DTG+DRV/r in adulti che hanno fallito la terapia di prima linea e pare proprio aver dato ottimi risultati. Sono stati presentati anche studi sull’utilizzo di Darunavir, Maraviroc ecc. in pazienti con più di 2 mutazioni di HIV, così come un bel studio – Brighte – sul farmaco Fostemsavir su pazienti multi trattati.
Il terzo punto era sulle nuove strategie con l’uso dei long acting in pazienti trattati. La ricercatrice parte in quarta con una bella slide sulla sfida dell’aderenza terapeutica, dove descrive il tasso di aderenza nel mondo: 79% il 1° anno, che scende a 63% entro 3 anni, tassi che scendono della metà se bambini o adolescenti in ART (cfr Han. Lancet HIV 2021) e ci tiene a specificare che negli USA, non nel terzo mondo, il 60% dei pazienti in ART ha un’aderenza subottimale. È chiaro che i Long Acting in tutto questo possono essere una risposta interessante per migliorare i tassi di aderenza e evitare l’incremento delle resistenze.
La seconda relazione riguarda i progressi nella prevenzione biomedicale di HIV, trattata da Raphael J. Landovitz, University of California Los Angeles il quale è partito in quarta con una bella slide sulle molteplici modalità di prevenzione dalle quali ha estratto la PrEP.
Non starò a ripercorrere la storia della PrEP con tutti gli studi degli ultimi 10 anni, cito solo lo studio francese Prevenir che mette a confronto PrEP daily vs on demand in MSM ad alto rischio. I primi dati non sembrano evidenziare differenze significative fra i due bracci. Se capisco bene, lo studio sembra avere anche una parte open label in cui i partecipanti sono invitati a sperimentare una PEP con la doxyciclina per limitare le IST. In sintesi i partecipanti sono stati divisi in 2 bracci, di cui uno ha, preso 200 mg di doxyciclina entro 72 ore dal rapporto senza condom mentre l’altro non ha preso niente. Gli episodi di STI sono stati inferiori nel gruppo con la PEP doxy. Già mi vedo la dott.ssa Gaspari dell’ambulatorio MTS del S. Orsola coi capelli dritti per cui dico subito che bisognerebbe studiare anche il rischio di insorgenza di batteri resistenti, cosa questa che lascia perplesso anche me a dire il vero. Qui e ora penso che sia più pratico controllare frequentemente le persone ad alto rischio e trattare gli esiti positivi. Ma non è detto che non cambi idea.
È stata messa a confronto anche la combinazione della PrEP attuale Emtricitabina/Tenofovir (TDF/FTC) con la sua sorella TAF e Emtricitabina (TAF/FTC). Per ora la bilancia pende più sulla prima sia per una questione di costi, sia perché mancano studi di efficacia sulla popolazione generale. Naturalmente si è parlato di Cabotegravir LA. Gli studi HPTN 083 e HPTN 084 hanno dimostrato che la profilassi pre-esposizione (PrEP) iniettabile a lunga durata d’azione con cabotegravir (CAB-LA) è superiore alla somministrazione giornaliera di tenofovir DF emtricitabina (TDF/FTC) per la prevenzione dell’HIV.
Anche Lenacapavir viene studiato per la PrEP e sta dando buoni risultati sui macachi. Sono stati citati anche studi in sviluppo, tra gli altri mi piace citare HPTN 106 che prevede l’utilizzo di un doccino anale con Tenofovir.
Ultima relazione è quella sullo stato delle ricerche sulla cura di HIV, trattata da John W. Mellors, University of Pittsburgh. Non so se definirlo simpatico, visto il tema, ma inizia chiedendo al pubblico “alzi la mano chi vuole una cura”, tutti alzano una mano. “OK ora alzate anche l’altra e fate ciao ciao” ecco lo stato dell’arte.
Mellors chiarisce, e al contempo rincara la dose, che il termine cura è troppo forte, meglio remissione ma li userà entrambi.
Due sono i modelli:
Eradicazione/sterilizzazione: non restano provirus competenti per la replicazione
Funzionale/non sterilizzante: controllo della replicazione virale con o senza ART.
La slide successiva rappresenta una serie di We need you, abbiamo bisogno di voi, che a me rimanda a quando si sapeva poco o niente di HIV e si cercavano strategie e aiuti anche da altri campi della medicina, forse pure da fuori della medicina. Nella successiva si sofferma sul motivo per cui serve una cura e, per me, è abbastanza sconcertante: “troppe persone hanno bisogno di troppi farmaci per troppo tempo”. Mah… soprassediamo.
L’idea di una cura prende piede già nel 1996 quando la viremia crollava sotto l’azione dei nuovi farmaci, salvo poi scoprire che ricresceva senza ART e, in sostanza, dal 1997 al 2009 c’è stata l’era de “impossibile trovare una cura”. Poi è arrivato il caso di Timothy Brown, sottoposto a trapianto di midollo da parte di un donatore con una mutazione del recettore CCR5 delta 32 (una cosina che ha forse il 5% della popolazione mondiale) e per tutto il resto della sua vita è restato HIV negativo, guarito. Il caso di Brown ha dato modo di pensare a strategie per arrivare ad una cura. Nello specifico con il trapianto anche ad altri è “andata bene”, ma parliamo di appena 4 persone e di queste 1 in realtà ha visto il ritorno dell’infezione.
Alcune persone, gli elite control, hanno la capacità di tenere sotto controllo il virus senza trapianti, 2 persone: una donna di S. Francisco e una in Argentina. Ma anche qui parliamo di casi estremamente rari e non siamo nelle condizioni di riprodurre queste situazioni con le terapie attualmente a disposizione.
Anche le nostre capacità e conoscenze rispetto ai reservoir non sono poi infinite anzi: non siamo ancora in grado di misurare in modo preciso quanto sono pieni questi serbatoi che pur sarebbe importantissimo come valore perché sono proprio queste cellule che contengono DNA parassitato e possono sempre causare un rebound virale se non tenuto pressato dai farmaci. Insomma niente di particolarmente nuovo, siamo ancora alle sfide.
Solo due parole sulla inaugurazione che è stata una delle più noiose a cui abbia mai assistito. Anche la lecture della community tenuta da Yvette Raphael, un’attivista sudafricana, è stata una lunga carrellata di immagini senza commento sul ruolo delle donne africane e del loro essere pronte a prendere in mano la propria vita e a avere un ruolo di primo piano nella società così come nella ricerca. Tutte cose giuste in generale, ma a tratti un po’ fuori contesto, senza contare che il ruolo della community dovrebbe andare più nella direzione di unire le forze, più che esaltarne un pezzo a discapito degli altri. Ad ogni modo è stata una presentazione vigorosa. Per finire l’inossidabile Anthony Fauci ha ricordato il percorso del CROI, che compie 30 anni, dalla nascita ad oggi. Un momento auto celebrativo quando sono anni luce avanti gli Stati Uniti.