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Co-infezione HIV/HCV: un target “difficile”

Uno dei gruppi all’interno del quale pare più difficile eliminare l’infezione da HCV è quello degli MSM che vivono con HIV. In altre parole, la co-infezione di HIV e HCV nei maschi gay, soprattutto nel sottogruppo che fa chemsex e pratiche sessuali – come fisting o condivisione di sex toys – considerate più a rischio per la trasmissione di HCV, è una condizione sulla quale bisogna lavorare.

Partiamo da un recente studio francese che ha esaminato i dati di oltre 50.000 persone con HIV (sia MSM, etero, consumatori di sostanze per via iniettiva, ecc.) seguendole negli anni tra il 2012 e il 2018: durante questo periodo, gli MSM sono diventati il gruppo in cui più frequentemente si registravano casi di epatite C con viremia di HCV rilevabile. Come noto, infatti, l’infezione da HCV può guarire spontaneamente in alcuni casi; quindi, ci possono essere persone che risultano positive agli anticorpi per HCV ma negative alla ricerca del virus. Queste persone, ovviamente, non trasmettono l’infezione perché non hanno più HCV nel loro corpo. Chi invece è viremico per HCV può trasmetterla. Nello studio francese la proporzione di persone HIV-positive con viremia rilevabile per HCV è diminuita dal 67,0% nel 2021 all’8,9% nel 2018. Un risultato raggiunto curando chi ha l’infezione e mettendo in campo adeguate strategie di prevenzione. Questo, ad esempio, è vero per le persone che hanno preso l’HIV attraverso l’uso di droghe per via iniettiva: le persone di questo gruppo (indicato con la sigla IVDU – intravenous drug users) rappresentavano il 55% dei pazienti viremici nel 2012 ma solo il 37% nel 2018. Una dimostrazione che gli interventi di riduzione del danno e la terapia di sostituzione per oppioidi, largamente disponibili in Francia, funzionano. Nello stesso periodo, però, i maschi che fanno sesso con maschi che, nel 2012, rappresentavano il 14,6% delle persone viremiche, sono passati a rappresentare nel 2018 il 37,9% di chi ha una infezione da HCV attiva. Forse, per questo gruppo, non sono state messe in campo adeguate strategie di prevenzione.

Trattare tutti, subito

Come si può ridurre il rischio di trasmissione di HCV tra gli MSM? Innanzitutto, trattando tutti i casi. Anche quelli acquisiti da poco che, nello studio francese, rappresentano il 59,2% degli MSM con viremia da HCV rilevabile nel 2018.

Fino a qualche tempo fa, infatti, si tendeva piuttosto ad aspettare a curare i casi di infezione acquisita da poco tempo per vedere se per caso il paziente guarisse spontaneamente. Ma questo approccio non teneva conto del rischio di ulteriore diffusione dell’infezione. In un contesto come quello dei maschi che fanno chemsex o che praticano il fisting o usano sex toys in sesso di gruppo – cioè quelli in cui diversi studi osservano una maggiore frequenza di casi di epatite C – se una persona è viremica per HCV è facile che lo trasmetta ad altri.

Lo dimostra, tra gli altri, uno studio spagnolo, anche questo recentissimo: analizzando i dati tra il 2016 e il 2019 di 350 pazienti che avevano acquisito l’infezione da HIV attraverso rapporti sessuali e che sono seguiti in quattro cliniche del sud della Spagna, i ricercatori hanno visto che i casi di infezione da HCV acquisita recentemente sono diminuiti tra il 2016 e il 2017 e si sono poi mantenuti stabili. Il gruppo in cui più frequentemente si registravano queste infezioni recenti da HCV era quello degli MSM che condividono droghe chimiche. Secondo i ricercatori, questi casi di infezione recente da HCV potrebbero alimentare l’epidemia da HCV e, di conseguenza, impedire l’eliminazione dell’HCV come programmato dall’Oms.

HCV: testare tutti, spesso

Come si può fermare questa tendenza? Una indicazione viene da uno studio condotto in Scozia che ha esaminato il ricorso al test, la diagnosi e il trattamento per HCV tra le persone con infezione da HIV incrociando i dati del sistema di sorveglianza nazionale e quelli di programmi sentinella fino alla fine del 2017: su 5018 persone con HIV, circa 797 (15%) non erano mai stati testate per l’HCV e 70 (9%) di questi avevano una infezione cronica da HCV non diagnosticata. Questa situazione si registrava più frequentemente in coloro che non erano in trattamento per l’HIV. I ricercatori concludono che l’eliminazione di HCV è fattibile, ma bisogna aumentare gli sforzi per individuare e trattare le persone con co-infezione HIV/HCV, soprattutto coloro che non sono in trattamento per l’HIV.

E tra chi non ha l’infezione da HIV? Un altro studio condotto in Inghilterra ha analizzato i dati clinici e i comportamenti a rischio per la trasmissione di HCV relativi a 40 MSM (HIV positivi o no) che hanno acquisito l’infezione da HCV tra gennaio e settembre 2017. Di questi, 16 erano MSM HIV-negativi e 24 HIV-positivi. Gli MSM HIV-negativi erano più giovani di quelli con HIV, e la maggior parte di loro (81,3%) aveva assunto la PrEP nell’anno precedente. Tra i comportamenti a rischio più frequentemente riportati, l’uso nell’ultimo anno di droghe iniettabili (riferito dal 45% del campione) o non iniettabili (85%). Inoltre, la maggior parte in entrambi i gruppi ha riferito di aver fatto sesso anale senza preservativo, fisting e sesso di gruppo. Dal momento che in pochi avevano dimostrato una consapevolezza rispetto alla prevenzione di HCV, i ricercatori concludono che occorre implementare su più larga scala strategie di riduzione del rischio per HCV – incluso il test HCV – anche tra gli MSM che fanno chemsex, fisting o sesso di gruppo e che non hanno l’HIV, specie tra chi usa la PrEP.

Conclusioni 

In conclusione, la diffusione di HCV si è ridotta sensibilmente ma per eliminarla totalmente bisogna intervenire in quei sottogruppi in cui ancora l’infezione circola. Si tratta, secondo i dati disponibili, soprattutto delle persone MSM, con HIV o in PrEP, che fanno sesso di gruppo, chemsex, fisting e scambio di sex toys. E chiariamo un punto: qualcuno potrebbe pensare che la prevenzione consista nello scoraggiare questi comportamenti sessuali. Non siamo d’accordo: noi riconosciamo a ciascuno il diritto a vivere la propria sessualità come crede. Suggerendo magari alcuni accorgimenti: fare frequentemente (almeno due volte all’anno) il test per HCV e iniziare immediatamente il trattamento in caso di risultato positivo sono misure che, pure in un contesto di comportamenti sessuali a rischio per la trasmissione di epatite C, limitano la diffusione dell’infezione. E consentono di godersi in maniera più piena la propria sessualità.

PLUS, Persone LGBT+ Sieropositive, aps cerca infermieri che vogliano contribuire all’attività di offerta di test per HIV, HCV e altre infezioni sessualmente trasmissibili agli utenti – in massima parte LGBT – del BLQ Checkpoint, il primo centro community based per i servizi di salute sessuale al di fuori dell’ambiente ospedaliero.

Al BLQ Checkpoint opera un gruppo di volontari, composto soprattutto da persone gay con HIV, per portare il tema della salute sessuale al di fuori dell’ambiente ospedaliero, più a contatto con la comunità LGBT con una particolare attenzione ai maschi gay e agli altri maschi che fanno sesso con maschi (MSM). L’azione di Plus è fortemente centrata sul supporto fra pari, ossia la comunità che offre servizi alla comunità stessa, nella logica di rivolgersi ai servizi ospedalieri quando serve. Cerchiamo di portare fuori dall’ospedale tutto quello che può essere gestito dalla community stessa.

Da qui nasce l’idea del BLQ Checkpoint, il primo centro community based condotto da operatori alla pari aperto in Italia nel 2015.

Le attività del BLQ Checkpoint prevedono l’esecuzione di test rapidi per HIV, HCV e altre infezioni sessualmente trasmissibili. I volontari di Plus si occupano dell’accoglienza e della gestione dell’utente durante il test.

Agli infermieri volontari si chiede di eseguire i test rapidi per HIV, HCV e le principali infezioni a trasmissione sessuale, nell’ambito del programma Sex Check.
Gli orari di apertura del centro sono i seguenti:

lunedì e mercoledì dalle 18 alle 21

Il centro si trova in via S. Carlo 42/C a Bologna.
È prevista una formazione con il duplice scopo sia di illustrare le modalità di esecuzione dei test, sia di condivisione dell’approccio alla base dell’attività di Plus e del BLQ Checkpoint.

È richiesta una copertura assicurativa con estensione relativa al contagio HIV/HCV.

Ti chiediamo di regalarci un poco del tuo tempo (basta anche un solo turno al mese!) per consentire il proseguimento della esperienza del BLQ Checkpoint, considerato in tutta Italia un modello di lotta all’HIV da prendere ad esempio. Siamo certi che si rivelerà essere anche per te una esperienza molto appagante.

Per ulteriori informazioni e appuntamento per colloquio, info@plus-aps.it. È gradito l’invio del curriculum vitae.

Ti siamo mancati? Son mesi che non fai un test HIV? È il momento di ripartire: dal 1° giugno al BLQ Checkpoint puoi fare test rapidi per HIV, HCV e sifilide in piena sicurezza.

Dopo quasi tre mesi di chiusura dovuti all’emergenza COVID-19, riapre il BLQ Checkpoint, il servizio extra-ospedaliero gestito da Plus, persone LGBT+ sieropositive, in collaborazione con l’Azienda Sanitaria di Bologna per offrire test HIV, HCV e sifilide sito in via San Carlo 42/C a Bologna.

Il servizio riparte con una apertura straordinaria lunedì 1° giugno per poi riprendere il normale servizio tutti i martedì e giovedì feriali, sempre dalle 18 alle 21. Per effettuare il test, occorre prenotare inviando una email a prenota@blqcheckpoint.it.

Per contenere il rischio di trasmissione per il coronavirus, abbiamo posto in essere numerosi accorgimenti, fra cui pulizie e disinfezione generale periodica, e una diversa procedura di accesso ma sarà comunque possibile effettuare test e counselling nella maniera più simile al servizio originale.

Ecco le indicazioni per accedere al servizio:

Accedi da solo

La presenza di un accompagnatore è autorizzata solo per i minorenni, le persone non autosufficienti e chi necessita di mediazione linguistica.

Mascherina sempre e in maniera corretta

Non togliere mai la mascherina e fai attenzione a indossarla correttamente in modo che ti copra sia il naso, sia la bocca.

Mantieni le distanze

Rispetta le distanze interpersonali anche all’interno del Checkpoint.

Rispondi alle domande sul tuo stato di salute

All’entrata un operatore sanitario o un volontario debitamente formato, potrebbe chiederti alcune informazioni sul tuo stato di salute e misurarti la temperatura.

Igienizza le mani con il gel idroalcolico

Non indossare i guanti e igienizza le mani sia all’entrata, sia all’uscita del centro e ogni volta che tocchi una superficie comune (esempio maniglia del bagno).

Rispetta l’orario

Rimani nel centro il tempo necessario per usufruire della prestazione, per cui non arrivare né con troppo anticipo né in ritardo, per non sovrapporti ai turni degli altri utenti.

Contrariamente alle voci che stanno girando online, le persone che vivono con HIV sono esposte all’infezione Covid-19 come il resto della popolazione generale.

In questo quadro, il periodico approvvigionamento dei farmaci anti retrovirali, prodotti salvavita necessari a mantenere sotto controllo l’infezione, presso la farmacia ospedaliera del S. Orsola di Bologna, espone le persone con HIV a un rischio di infezione nosocomiale.

Pertanto, l’associazione PLUS – Persone LGBT+ Sieropositive – ha deciso di organizzare una squadra di volontari del BLQ Checkpoint per ritirare i farmaci presso il centro clinico bolognese e recapitarli direttamente a casa dei pazienti.

Per usufruire del servizio è necessario prenotarsi o scrivendo all’indirizzo e-mail

info@plus-aps.it

o telefonando dalle 18 alle 21 da lunedì a giovedì al numero verde di PLUS:

051.4211857

Attualmente è possibile ritirare i farmaci solo con delega del paziente. Sarà quindi cura dei volontari effettuare un primo passaggio per il ritiro della delega firmata, cui farà seguito il ritiro e la consegna dei farmaci.

La scomparsa avvenuta ieri di Fernando Aiuti segna la fine di un’epoca. L’immunologo 83enne deceduto precipitando per le scale del policlinico Gemelli dove era ricoverato per una grave cardiopatia ischemica è stato l’uomo simbolo dell’“era Aids”, quegli anni 90 in cui lo spettro della peste del secolo dominava le paure della popolazione mondiale. Uno spettro che, però, non possiamo considerare del tutto relegato a quegli anni: la paura dell’Aids ancora oggi domina la mentalità della maggior parte delle persone.

Tutti i giornali e i social network ricordano Aiuti con l’immagine del bacio dato a Rosaria Iardino nel 1991 per smentire con un gesto mediaticamente eclatante l’ipotesi che l’Hiv si potesse trasmettere con un bacio. Quella immagine fece il giro del mondo e in qualche modo effettivamente rappresenta una delle principali capacità di Aiuti, quella di usare l’interesse mediatico sollecitato dall’Aids negli anni Novanta per diffondere informazioni e raccogliere sostegno.

Chi lo aveva conosciuto da vicino ricorda anche il carattere decisionista, con esplosioni colleriche e l’atteggiamento da guerriero. In poche parole, sicuramente non un uomo mite. Anche in questo, si allontana decisamente da quell’altro “mostro sacro” dell’Aids italiano scomparso nel 2015 che era Mauro Moroni. Se l’immunologo scomparso ieri viene ricordato soprattutto per la sua attività comunicativa (e questo spiega anche perché la sua morte fosse tra le prime notizie del Tg1 di ieri), la fama dell’infettivologo milanese copriva più che altro l’ambito medico-scientifico e soprattutto era diffusa tra le tante persone con Hiv che aveva visitato nel corso degli anni, nella stragrande maggioranza dei casi senza richiedere alcun compenso. Entrambi avevano fondato l’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids nel 1985; Aiuti la diresse – a parte brevi pause – fino al 2007, Moroni si occupò della sede milanese per prendere la direzione nazionale solo qualche anno dopo l’uscita di scena di Aiuti (in particolare dopo la presidenza affidata a quella donna straordinaria che è Fiore Crespi). Anlaids è stata per anni la principale organizzazione di lotta all’Aids italiana, qualche anno più tardi affiancata – o, in certi casi, bisognerebbe dire fronteggiata – dalla Lila che rappresentò l’animo “antagonista” dell’attivismo. In quegli anni Novanta, Anlaids era una associazione fondata e a lungo diretta da medici, mentre la Lila si presentò con le azioni di protesta degli attivisti. Accanto alla voce della scienza rappresentata dall’organizzazione presieduta da Aiuti, le persone sieropositive cercavano di farsi sentire attraverso le azioni dimostrative della Lila. Questo contrasto fu una peculiarità del mondo dell’associazionismo italiano. Come mi disse un giorno una grande attivista, forse l’esistenza di Anlaids in Italia (e l’attenzione che gli hanno dato i media) ha reso difficile la nascita di un vero movimento dal basso, generato e diretto dalle persone sieropositive. Il fatto che la principale associazione anti-Hiv italiana fosse principalmente una associazione di medici e scienziati aveva messo in secondo piano quello che in tanti altri paesi al mondo conquistava invece la ribalta: il protagonismo delle persone sieropositive che – anche mosse dalla disperazione della loro condizione per la quale in quegli anni non esisteva cura – scendevano nelle piazze e reclamavano la partecipazione alle decisioni riguardanti la loro salute.

In questi giorni viene ricordato come Aiuti sia stato anche un protagonista del contrasto alla discriminazione delle persone con Hiv. L’immagine di quel bacio con Rosaria Iardino rappresenta bene questa sua capacità. Mi chiedo se però non avesse ragione quell’attivista che sosteneva che il protagonismo dell’immunologo fondatore di Anlaids non avesse messo in ombra le persone sieropositive che cercavano di far sentire direttamente la propria voce. Sono convinto che, anche se così è stato, Aiuti abbia agito in perfetta buona fede. Come Moroni, anche lui era consapevole dell’importanza di lasciare spazio alle voci delle persone che vivevano con il virus. Loro, come Dianzani, Bassetti, Dalle Nogare e tanti altri clinici che non ci sono più, facevano parte di una generazione di medici che avevano scelto di occuparsi di Aids in un momento in cui i loro colleghi li consideravano dei pazzi: «ma come, non hai paura di infettarti?», chiedevano a chi prendeva la via del reparto di malattie infettive. Quella generazione di medici comprendeva l’importanza di occuparsi di questa infezione e, soprattutto, aveva ben chiaro quanto insieme alle questioni cliniche e sanitarie bisognasse occuparsi anche degli aspetti sociali, psicologici, esistenziali di chi viveva – e, in quegli anni, troppo spesso moriva – con il virus.

Non tutti quei medici saranno stati eccezionali nella loro capacità di empatia con il paziente. E non è il caso di santificare post-mortem chi in vita non ha avuto un comportamento sempre rispettabile. C’è però da riflettere sul cambio generazionale che è in corso: accanto alle figure di Aiuti, Moroni e gli altri che vengono compiante oggi, molti medici che si sono occupati di Hiv negli anni Novanta stanno andando in pensione. In altre parole, tra breve negli ambulatori e nei reparti di malattie infettive non ci saranno più professionisti sanitari che abbiano conosciuto la realtà dell’“era Aids”. Ma, soprattutto, forse i medici e scienziati che stanno prendendo il loro posto non hanno la stessa consapevolezza che avevano i loro predecessori della necessità di occuparsi delle persone con Hiv in maniera articolata, prendendo in considerazione anche gli aspetti sociali e psicologici di questa infezione che, purtroppo, non sono spariti. Vivere con Hiv oggi è ancora percepito da molti in una maniera non troppo diversa da quello che avveniva nel 1991. Ci sono ancora persone che credono che l’Hiv si prenda con un bacio e che quindi sarebbero scandalizzate come 21 anni fa dall’immagine delle labbra di Aiuti e Iardino unite appassionatamente. Persone che “scapperebbero a gambe levate” se scoprissero che la persona con cui stanno per fare sesso ha l’Hiv.

Se la scomparsa di Aiuti segna o almeno annuncia la fine di un’epoca, questo deve suonare come un segnale di chiamata per tutti noi, persone con Hiv e soprattutto noi che operiamo nelle associazioni. Sta a noi adesso ricordare a chi verrà dopo quei luminari che hanno segnato l’epoca passata l’importanza di ascoltare le nostre voci, di comprendere i nostri bisogni complessi, che vanno oltre la prescrizione delle terapie straordinariamente efficaci che abbiamo oggi a disposizione. Se ci accontenteremo di tenere il virus sotto controllo senza pretendere che cambi anche l’atteggiamento culturale che c’è nei confronti di questa infezione, non riusciremo mai a fermare la diffusione dell’Hiv. Perché, come dimostra l’attenzione mediatica per la scomparsa di Aiuti, ancora oggi l’Hiv non è solo un virus, non appartiene solo all’ambito delle malattie infettive, ma anche e soprattutto a quello della cultura di massa, al mondo dei mass media, all’immaginario collettivo nel quale si forma la nostra società. Ed è lì che va combattuto.

di Giulio Maria Corbelli, vice-presidente Plus onlus

Il titolo scimmiotta immeritatamente quello di un bellissimo articolo scritto da Mark King, noto attivista statunitense, per celebrare la giornata mondiale per la lotta contro l’Aids.
Oggi abbiamo nuove vite in un mondo che non è soffocato dalla malattia, scrive King in chiusura, e sono convinto che la consapevolezza dell’orrore passato sia sua personale che della comunità omosessuale statunitense, rende ancora più vera quella frase. Una frase che, tuttavia, mi ha fatto riflettere sulla situazione attuale in Italia e sulle grandi differenze fra i due paesi.

Sul piano clinico, fra Italia e USA non c’è storia. L’Italia vanta un numero altissimo di persone sieropositive prese in carico dagli ospedali. Persone che seguono correttamente le indicazioni dei medici e che hanno ottenuto una carica virale non più rilevabile e, quindi, non più contagiose. Tutto il contrario degli USA che, probabilmente per vie del sistema sanitario profondamente diverso dal nostro, non ha neanche lontanamente ottenuto i successi italiani. Non possiamo dire lo stesso sul piano sociale, della consapevolezza politica di una comunità che negli USA si è fatta carico della salute dei propri membri fin dall’inizio della pandemia negli anni 80. Oggi quella comunità vanta alcune fra le più grandi associazioni di persone sieropositive e di attivisti nella lotta contro HIV/AIDS. Vanta un percorso fatto di compassione per le sofferenze di amici, amanti, persone vicine che non ci sono più. La nostra comunità ha fatto una scelta diametralmente opposta: ha scelto che fossero altri ad occuparsi di HIV, ha scelto di non farsi carico del tema e di lasciare sole le persone gay sieropositive a gestire l’infezione, lo stigma, il corpo che cambia, il rifiuto di se stessi e l’isolamento da parte degli altri, e tutto quello che comporta essere omosessuali e sieropositivi in una società sessuofobica, giudicante, bigotta di cui anche la comunità LGBT è parte integrante. Si integrante. Lo vediamo ancora oggi.

Nonostante l’associazionismo gay stia cercando di recuperare i decenni perduti, la comunità omosessuale molto – troppo – spesso addita i gay sieropositivi come indegni, indecenti, se hanno HIV chissà cosa hanno combinato, altro da noi. Trovare un “marito” è cosa ben più complicata qui che altrove anche perché ci piace tenere la testa sotto la sabbia, nella convinzione che HIV riguardi gli errori degli altri non noi, e quindi fuggire è la cosa migliore che ci viene in mente, fuggire dalla paura irrazionale, dai giudizi, da quello che anche i migliori giornalisti nazionali chiamano con termini medievali,. Fuggire, non avere contatti meno che mai sessuali, non avere nessuna cognizione dello stigma che viene posto in essere con le stesse dinamiche discriminatorie che alcuni eterosessuali attivano nei confronti dei gay.

Si, c’è una pesante discriminazione dei gay verso una minoranza di gay sieropositivi, uno stigma costruito su mattoni fatti di silenzi, paure, ignoranza. Alla fine della fiera siamo discriminati due volte per il nostro orientamento sessuale e per il nostro stato sierologico. Non c’è compassione, non c’è comprensione, non c’è coscienza storica né collettiva. “Io, me stesso e me” sembra essere il mantra di questa fase storica del movimento italiano che, giustamente, si commuove per i migranti ma isola e respinge parte della sua stessa identità.

Oggi le cose possono essere diverse. Noi, persone sieropositive, abbiamo questo potere. Oggi noi fermiamo l’epidemia.
A 10 anni dal primo studio del prof. Vernazza sulla non contagiosità delle persone sieropositive in trattamento efficace, studio che portò alla dichiarazione svizzera, oggi abbiamo prove scientifiche inconfutabili che le persone sieropositive con carica virale non rilevabile non sono contagiose. Decine e decine di migliaia di rapporti penetrativi senza condom e senza contagio alcuno, stanno li a dimostrarlo.
La Tasp  è prevenzione, grazie alle terapie e soprattutto grazie al nostro impegno nell’assumerle. Quindi si: sono sano.
Sono sano perché ho un’infezione, ma non la trasmetto a nessuno neanche volendo e come me, tutte le persone con carica virale non rilevabile. Sono sano perché posso fermare l’infezione e sono fiero di poterlo fare. Sono sano perché ho la mia salute sotto controllo e non so quante persone dallo stato sierologico ignoto possano dire altrettanto.
Oggi, ci sono nuovi eroi nella battaglia contro HIV.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente

È successo di nuovo. Avevo appena parlato a una conferenza e una attivista trans*, che peraltro stimo molto, ha sentito l’esigenza di ridirlo…
«Ricordiamo a tutti che l’Hiv non riguarda le categorie di persone, ma i comportamenti. Non vorrei che su questo argomento si tornasse a parlare di categorie a rischio…».

Io di ghiaccio.

Cosa c’è di sbagliato in quello che ha detto? Tecnicamente assolutamente nulla. È innegabilmente vero che l’Hiv lo prendi se ti capita di fare sesso senza protezioni con una persona che ce l’ha e non si sta curando (perché ricordiamo se uno è in terapia efficace non lo può trasmettere). Qualunque sia il tuo genere e il genere del tuo partner, indipendentemente dal fatto se ti definisci gay, etero, bisessuale o marziano.

Ma vogliamo farla una riflessione su cosa nasconde l’inattaccabile precisazione della nostra amica attivista? Innanzitutto, c’è un problema “storico” o “politico”, vedete voi: forti di questa sacrosanta puntualizzazione, moltissime organizzazioni LGBT italiane ma anche europee (e credo anche al di fuori del Vecchio continente) hanno pensato bene di smettere di occuparsi di HIV, perché “non è una cosa che riguarda solamente noi, se ne occupino le istituzioni che devono curare la salute pubblica di tutte e tutti”.

Bene. Le istituzioni, ovviamente, hanno adottato lo stesso presupposto: “non dobbiamo presentare l’HIV come un problema dei gay, ma parlare alla popolazione generale”. E così, giù con campagne dal messaggio quanto più vago e “ampio” possibile, con l’ovvio risultato che un messaggio vero, sintetico, efficace non è arrivato a nessuno. Chi se lo ricorda Raul Bova che avvolge il fiocco rosso intorno a persone ignude di tutte le tipologie? Forse solo qualche fan sfegatato (gay, ovviamente…). E se anche vi ricordate dell’avvenente attore, vi ricordate cosa comunicasse quella campagna? Sono pronto a giurare di no.

Oggi, ulteriore ennesimo episodio. Siamo al 1° dicembre e la stampa – vivaddio – decide di parlare di HIV (oddio, spesso vogliono parlare di AIDS, ma vaglielo a spiegare che non sono la stessa cosa…). Vengo contattato da una giornalista del Tg1 per una intervista, un minuto per parlare di come mi sono contagiato, cosa si può fare per fermare l’epidemia. E che ci vuole? Vabbè, acconsento. Aspetto la telefonata di conferma che puntualmente arriva: «Scusa Giulio – mi spiega la scrupolosa e gentilissima collega – ma il direttore mi ha chiesto di trovare una donna. Sai, è anche un modo per far passare il messaggio che l’Aids [sic] non è solo… [momento di imbarazzo] qualcosa che sta in un certo gruppo di persone [froci, dillo, siamo froci!], ma anche le donne si infettano sempre di più».

Ora, io sono felice che si parli di Hiv tra le donne: è doveroso. E non mi interessa nemmeno precisare che le nuove diagnosi di infezione tra le donne sono stabili dal 2010 e non in aumento (a meno che non parliamo delle donne straniere…). L’Hiv tra le donne è sicuramente un argomento trascurato, quindi ben venga che se ne parli!

Però mi viene in mente un dubbio: non è che stiamo “censurando” ciò che accade tra i gay? Forse è solo la mia impressione, ma mi sembra che gli unici a parlare di Hiv tra i gay siano – alcune – associazioni gay. Ovviamente facendo la tara di quella innominabile trasmissione spazzatura che va in onda la domenica e il martedì in prima serata un canale Mediaset e che si diverte a buttare in pasto agli affamati leoni della tastiera gli “untori”(mai conosciuto uno) o la coppia gay sierodiscordante tanto bella perché usano ancora il preservativo (anche se il partner sieropositivo è undetectable e quindi NON PUÒ trasmettere l’Hiv manco con l’aiuto di tutti i santi del Digitale Terrestre, ma questo è ovvio che l’infotainment da discarica non lo dice!). O altre amene avventure pseudo-giornalistiche di questo tipo.

Io non ricordo un Tg1 con un ospite gay che parli della sua vita con Hiv. Non ricordo nessun intervento nella tv cosiddetta generalista che spieghi ai giovani gay quanto sono a rischio di contrarre il virus. Mai. Mi sbaglierò, so di avere una pessima memoria.

Eppure… Eppure, caspita se ce ne sarebbe bisogno! Non me ne vogliate ma qui parte il pippotto epidemiologico. Andiamo a vedere i dati appena pubblicati dall’Istituto superiore di sanità e aggiornati – a meno di quei casi che le regioni non hanno ancora segnalato al centro operativo Aids e che saranno aggiunti da qui a qualche mese – al dicembre 2017. Lo scorso anno sono state segnalate 3.443 nuove diagnosi di infezione da Hiv. Di queste, 2.249 riguardano cittadini italiani. Il problema rappresentato da quelle 1.181 segnalazioni relative a cittadini stranieri è enorme e va affrontato anche quello! Ma io voglio un secondo concentrarmi sugli italiani (pare vada di moda, ultimamente…). Quasi metà di quelle diagnosi (1.061 per l’esattezza) è avvenuta in seguito a rapporti sessuali tra maschi. Sono invece 543 le nuove diagnosi registrate tra i maschi etero e 273 quelle tra le donne.

Questi i numeri assoluti. Ma facciamo una riflessione sulla proporzione di maschi gay che ogni anno si trovano scritto “positivo” sul foglietto del test Hiv? Noi non sappiamo quanti ce ne siano in Italia, di maschi gay. Non è mai stato fatto un censimento o uno studio grande in proposito. Possiamo solo fare stime molto, molto, molto grossolane. Quindi mi perdoneranno gli epidemiologi – che tanto sono sicuro non perdono tempo a leggere questo articolo – ma farò una roba “un tanto al chilo”. Secondo il Censimento del 2012, dei quasi 60 milioni di italiani sono maschi 28.750.000 circa. Se ci limitiamo a quelli che avevano più di 18 anni arriviamo a 22.200.000 circa. Ora, lo sappiamo tutti che forse sono molti di più ma basiamoci sulle statistiche generali e diciamo che anche in Italia un maschio su 20 ha avuto almeno una volta nella vita un rapporto sessuale con un altro maschio: quindi ci sarebbero 1.110.000 italiani di sesso maschile che possiamo definire “gay” (molti dei quali se lo sapessero mi riempirebbero di botte, probabilmente). Se dividiamo il numero di nuove diagnosi tra i maschi gay (1.061) per il numero di maschi gay stimato (1.110.000) otteniamo che quasi un maschio gay su 1.000 ogni anno ha una diagnosi di Hiv. Proviamo a fare la stessa operazione per i maschi etero? Risultato: uno su 38.000. E le donne etero? Siamo quasi a una su 90.000. Per carità, conti grossolani, che più grossolani non si può: ma ci vogliamo rendere conto che l’ordine di grandezza che ne viene fuori è comunque agghiacciante? C’è o non c’è un problema grosso quanto una casa tra i maschi gay rispetto all’Hiv?

Potremmo anche citare l’ottima analisi prodotta dai massimi scienziati mondiali e pubblicata nel 2012 sulla prestigiosa rivista The Lancet (a dire il vero, la più prestigiosa al mondo…) e ricordare che il fatto che l’Hiv sia così diffuso nella comunità gay rappresenta di per sé un rischio, perché è chiaramente molto più facile per un uomo omosessuale incrociare tra i suoi amanti qualcuno con Hiv e con carica virale rilevabile in grado di trasmettergli l’infezione rispetto a quello che accade per gli etero. Non solo: i gay sono gli unici che possono avere sia il ruolo attivo che passivo (vabbè, gli scienziati direbbero insertivo e ricettivo, ma ci siamo capiti), cosa che rende più facile la trasmissione tra chi mi passa l’Hiv e quello a cui lo passo io. Se a questo aggiungiamo il fatto che nel rapporto anale (che però pare anche gli etero possano consumare) è molto più facile la trasmissione di Hiv, abbiamo completato il terzetto di vulnerabilità che rendono gli uomini gay più a rischio di diventare sieropositivi.

Un’ultima riflessione personale: credo sarebbe sbagliato pensare che il gruppo dei maschi gay sia chiuso e che quindi tutto questo “Hiv” che circola là dentro resti lì. Mi risulta che ci siano anche maschi che fanno sesso sia con i maschi che con le donne. Persone che potrebbero – ovviamente sempre involontariamente, non voglio certo colpevolizzare nessuno – contrarre l’Hiv dove è più facile trovarlo, cioè tra i maschi, e trasmetterlo alle donne. Questo solo per dire che intervenire per fermare l’Hiv tra i gay credo che vada a vantaggio anche degli etero e della diffusione generale dell’infezione.

In conclusione, non sto richiamando attenzione sull’Hiv tra i gay per puro narcisismo frocio – dal quale pure potrei non essere esente – né voglio negare l’importanza enorme che hanno anche altre situazioni, come la questione della salute sessuale delle persone straniere o delle donne. Mi viene però il sospetto che qualcuno possa credere che non ci sia più bisogno di parlare dell’Hiv tra i gay. A quel qualcuno vorrei dire che credo proprio che ce ne sia un gran bisogno. Quel “qualcuno” forse non lo sa, ma sta ponendo una censura pericolosa (e, credo, non esente da un odioso moralismo) su un tema che riguarda la salute dei cittadini e di tutte le persone, gay certo ma anche di altri orientamenti sessuali. E davvero l’ultima cosa di cui l’Hiv ha bisogno è di altre censure.

Giulio Maria Corbelli
Plus Onlus

Si è conclusa la 22esima Conferenza Mondiale AIDS che si è tenuta ad Amsterdam davanti a 15.000 delegati, oltre a molti politici, Altezze Reali, Ministri… dunque è ufficiale: la presenza dei Ministri non è vietata nelle conferenze mondiali, continentali, nazionali. L’assenza cronica della politica e delle istituzioni italiane nelle conferenze su HIV/AIDS è imbarazzante.
Amsterdam ha accolto la conferenza da par suo, ovunque in città erano presenti bandiere, scritte di benvenuto, cartelli per promuovere la conferenza. In diverse bandiere le tre X simbolo della città, sono state trasformate in 3 fiocchi rossi, simbolo della lotta contro l’Aids.Penso che qualunque attivista si sia sentito accolto come a casa.

 

La conferenza non è stata caratterizzata da moltissime novità, ma alcune decisamente fondamentali per le persone che vivono con HIV. La più importante, secondo me ovviamente, è la conferma definitiva che le persone con HIV in terapia efficace non sono contagiose, neppure se gay, neppure se fanno sesso anale senza condom con eiaculazione interna. Lo studio Partner2 è stato di fatto un prolungamento dello studio partner1 (studio prospettico osservazionale in 14 Paesi europei inclusa l’Italia), motivato dal fatto che nel precedente studio il numero delle coppie gay arruolate non era stato sufficiente a garantire un dato solido dal punto di vista statistico o, per essere esatti, non era solido quanto quello delle coppie eterosessuali. Allo studio Partner2 hanno partecipato 972 coppie

Studio Partner 2: Conclusioni

gay sierodiscordanti, di cui 779 arruolate. La viremia del partner positivo, doveva essere inferiore alle 200 copie. I criteri di inclusione prevedevano che il sesso praticato nella coppia fosse senza condom, non fosse stato il ricorso a PEP o PrEP, che, per il partner positivo, la carica virale nell’ultimo anno si mantenesse stabilmente al di sotto delle 200 copie/ml. In caso di sieroconversione, era prevista un’analisi filogenetica per mettere a confronto la polimerasi dell’HIV-1 e le sequenze di inviluppo in entrambi i partner per identificare le trasmissioni collegate. Le coppie arruolate aveva una età mediana di 40 anni, dichiaravano di fare sesso senza condom da in media 1 anno. Durante il periodo di osservazione, sono stati dichiarati 74.567 “atti sessuali” senza condom; il 37% dei partner HIV negativi ha dichiarato rapporti sessuali con persone diverse dal partner HIV+ stabile. Ci sono stati 17 casi di diagnosi di HIV nei partner sieronegativi, ma l’analisi filogenetica ha dimostrato che non c’era connessione fra la nuova diagnosi e il virus del partner HIV positivo. In conclusione nonostante i quasi 75.000 rapporti sessuali in coppie sierodiscordanti con il partner positivo con carica virale non rilevabile, ci sono state zero nuove diagnosi interne alla coppia.
Chiamiamolo “positivo non infettivo”, U=U, “Non rilevabile= Non trasmissibile”, chiamiamolo come vogliamo ma ora, finalmente, possiamo dichiarare che una persona HIV positiva in terapia efficace non è contagiosa. A 10 anni da quando ascoltai il professor Vernazza parlare del primo studio alla base della Tasp, finalmente possiamo scientificamente affermare che non siamo untori (termine medievale di merda che non userò più). Per capirci bene: le coppie facevano sesso anale senza condom con eiaculazione interna = nessun contagio.

Un’altra buona notizia per le persone sieropositive, viene dallo studio Gemini sponsorizzato da ViiV. Lo studio ha dimostrato che anche nei pazienti che iniziano per la prima volta la terapia antiretrovirale, una duplice con Dolutegravir+Lamivudina è potente a sufficienza per garantire un risultato equivalente ad una triplice terapia. Sembra una “banalità”, ma significa che possiamo assumere un farmaco in meno senza nulla togliere all’efficacia del trattamento, penso che questa possibilità significhi, nel lungo periodo, meno problemi fisici per le persone che vivono con HIV. Non mi sembra una cosa su cui soprassedere. La relazione era su dati a 48 settimane. I criteri di arruolamento prevedevano l’assenza di infezioni da HBV e HCV (epatite B e epatite C), il virus non doveva presentare evidenti resistenze ai farmaci, il paziente doveva avere meno di 10 giorni di terapia alle spalle ossia pressoché nulla. 21 i Paesi coinvolti in tutto il mondo, inclusa l’Italia. Obiettivo primario a 48 settimane: pazienti con viremia <50 copie/ml. I farmaci a confronto erano, come ho detto, Dolutegravir+Lamivudina – Dolutegravir+Tenofovir-Emtricitabina. Oltre 1400 le persone arruolate divise in due bracci. I risultati a 48 settimane sono equiparabili, forse farei un po’ di attenzione nel caso il paziente abbia meno di 200 CD4 al basale, ma anche li è da valutare. Non ci sono state resistenze-mutazioni, ovviamente i reni e le ossa hanno molti meno problemi con DTG+3TC (Dolutegravis-Lamivudina). Studi di switch, ossia relativi a un cambio di terapia per i pazienti che già sono in trattamento, sono in corso. Ma va detto che si sono numerosi dati clinici a supporto dello switch già in essere oggi.

Il Global Village anche in questa edizione della IAC (International Aids Conference) è stato il vero motore del convegno. L’evento principale è stata, probabilmente, la grande marcia di protesta, alla quale anche chi scrive ha preso parte. Un lungo corteo colorato dove fortissima è stata la presenza degli attivisti MSM. Ogni gruppo ha manifestato portando istanze precise dalla propria esperienza. Noi di Plus abbiamo preso posto, insieme a LILA, nello spezzone di corteo dedicato alla lotta contro la discriminazione al grido di U=U riportato nelle diverse decine di lingue nazionali delle persone presenti alla marcia. Così che U=U è diventato N=N, K=K, e così via ma sempre con la medesima forza per dire basta con lo stigma, non siamo più contagiosi. Il Global Village è stato in particolare animato, quest’anno, dalla vivacità delle associazioni di sex worker. Ad esse si deve il tentativo di boicottare la prossima conferenza che si dovrebbe tenere a San Francisco nel 2020. In effetti, dopo anni di proteste, l’amministrazione Obama tolse il divieto di ingresso negli USA per le persone sieropositive e, a mo di premio, ottenne la Conferenza Mondiale a Washington nel 2012. A dire la verità sia Plus che Lila segnalarono subito l’incongruenza perché il ban per le persone prostitute, per i consumatori di sostanze, ecc. è rimasto ed è tuttora in vigore. Da una eventuale conferenza a San Francisco, salvo consistenti cambiamenti nelle leggi immigratorio statunitensi, buona parte degli attivisti resterebbero esclusi, cosa assurda che non può assolutamente essere. Inoltre l’amministrazione Trump ne combina una ogni giorno anche in campo lotta contro HIV/AIDS per cui non è davvero il caso che un evento importate coma la IAC sia concesso a un Paese che discrimina chi lotta contro HIV. “Niente su di noi senza TUTTI NOI”. Chiarito questo, diciamocelo, il vero evento clou del Global Village è stato “Facing taboo: Drag graphic novel” by Paula Lovely e Luca Baghetta (Conigli Bianchi). Grazie a Paolo Gorgoni – aka Paula Lovely – la presenza di Plus al Global è stata un successo. Un garbato mix di canzoni, video, testi che hanno spinto sul pedale delle emozioni, fra testimonianze personali, advocacy e attivismo politico.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente

 

la partecipazione di Plus Onlus alla IAC 2018, è stata resa possibile grazie ad un contributo non condizionato di ViiV healthcare.

In vista del laboratorio residenziale di Plus, ecco alcune testimonianze scelte fra quelle delle oltre 100 persone gay sieropositive che hanno già partecipato ai laboratori residenziali di Plus (HIVoices, Sono Sieropositivo, +o- Diversi).

“Fatti del bene”

Mi iscrissi al primo residenziale con timori e paure: l’incognita di ciò cui mi accingevo a partecipare, il disagio che avrei potuto incontrare persone che conoscevo ed entrare in confronto con loro, dello sentirmi sporco per via dell’infezione, e dei maestrali cui la vergogna mi aveva dato in pasto. per giorni mi sono chiesto che cosa mai mi era saltato in mente… Dopo, nei giorni successivi, la condivisione di racconti intimi intensi di vite altrui, differenti ma vicine alla mia regalavano una strana energia, una nuova coscienza che via via segretamente mi accompagnava verso il benessere ed allontanava il vuoto della solitudine. Goloso e bisognoso ho frequentato lab. successivi alla ricerca di quiete interiore. la mia vittoria? È stata l’aver saputo raccogliere l’offerta di Plus; di comprendere che non ho colpe e perdonare me stesso… Invito te che mi leggi a farti del bene partecipando, non hai nulla da perdere, anzi.
Michele Degli Esposti. Plussiano Fiero. Sempre.

 

Dieci motivi per i quali partecipare a un Laboratorio Plus.

1. Perché ci fa star meglio. Ci smuove emozioni, sensazioni ed energie che ci aiutano, col tempo, a essere più sereno, consapevole, risolto.
2. Perché c’è un prima e un dopo. Un Laboratorio Plus è un’esperienza forte, che generalmente segna un confine tra un prima e un dopo nelle nostre vite: un punto di vista inaspettato e nuovo, che ci aiuta tanto nel nostro percorso verso la felicità.
3. Perché non siamo soli. I Laboratori sono una palestra eccezionale per capire che non siamo soli. Che ci sono altri ragazzi e uomini HIV+ che conoscono i nostri problemi, le nostre preoccupazioni, che fanno il possibile, proprio come noi, per stare meglio.
4. Per prenderci una pausa. Perché ci fa bene prenderci una pausa per noi stessi. Una piccola parentesi che ci consenta una mini-fuga dalla quotidianità.
5. Perché dietro c’è una regia da Oscar. Dietro i Laboratori Plus c’è un mondo. Ci sono due conduttori preparati ed esperti, c’è un’associazione di persone sieropositive molto forte, presente e coraggiosa: incontrare questo mondo è molto emozionante!
6. Perché il gruppo è una figata! La forza del lupo è nel branco, la forza del branco è nel lupo. I gruppi che si creano sono sempre delle belle casse di risonanza delle energie di ciascuno, uno strumento molto potente, che deve essere sperimentato!
7. Perché il set è magico. Un grande casale immerso nei boschi, nel silenzio, lontano da stress, traffico e quotidianità. Un luogo magico, dove dimenticare il telefono e fermarsi ad asocoltare. Ad ascoltarsi.
8. Per conoscere persone nuove. Ai Laboratori Plus partecipano persone belle: motivate, aperte all’altro, anche capaci di divertirsi quando è il momento per farlo.
9. Perché ce lo meritiamo. I Laboratori sono momenti che ci aiutano a riflettere sulla felicità che ci neghiamo. Sulla fatica che abbiamo fatto e che quotidianamente facciamo, sui pregiudizi che subiamo, sull’impatto che l’HIV ha sulle nostre vite. Ci meritiamo un momento per noi stessi, no? 10. Ciascuno ha il suo perché. Il decimo motivo, scrivilo tu. Ciascuno ha il suo perché. Ciascuno la sua strada, la sua motivazione, il suo percorso. Il tuo qual è?
Roberto

 

“Mettermi a nudo, con piacere”

Non volevo andare ad HIVoices; pensavo che dopo 12 anni di sieropositività e l’attività nell’associazionismo Hiv non avessi bisogno di lavorare sulla mia condizione di Hiv+. Fu il mio ragazzo (sieronegativo) a spingermi: ‘Hai ancora delle cose da risolvere rispetto alla tua diagnosi’. Aveva ragione: HIVoices è stato un modo per guardare da vicino quello che nella vita di tutti i giorni rimane nascosto sotto il tappeto. Ho visto le mie paure e le difese che ho sviluppato, come queste mi limitassero nella mia capacità di vivere la mia vita e incontrare le altre persone. Il lavoro mi ha spinto a mettermi a nudo ma l’ho potuto fare con tranquillità, quasi con piacere, perché mi sono sentito protetto. E tirare fuori cose così profonde davanti ad altre persone crea dei legami straordinari: anche se non ci vediamo spesso, sento con tutte le persone di quel gruppo una intimità e una condivisione straordinarie. E sono loro grato per avermi permesso di tirare fuori quello che sono e di aver condiviso con me quello che sono loro.
Giulio Maria Corbelli

 

“Un ambiente protetto”

Pensavo fosse solo un semplice seminario informativo, ma quello che ho trovai, una volta arrivato, fu un ambiente protetto dove ho potuto sfogarmi e liberarmi di alcune cose che sopprimevo, il laboratorio non solo mi ha aiutato su questo fronte, ma anche grazie alle attività di confronto ho trovato alcuni punti di riflessione, dove ho ricavato i miei strumenti per affrontare al meglio la mia vita da gay sieropositivo.
Golia

 

“Si incrociano gli sguardi”

2 laboratori vissuti : non e’ un impegno, non una vacanza, non un party a luci rosse. Come in un film ripercorro la mia vita, il mondo che mi gira attorno, e per qualche istante si incrociano gli sguardi, le vite di chi in quel momento e’ partecipe, vorresti durasse il più possibile per capire…non rimane che il tempo di tornare a casa.
Emillio P.

 

“I pregiudizi che portavo in me”

Qualche mese fa ho partecipato a un laboratorio residenziale organizzato da Plus e composto da persone sierodiscordanti. Nella mia esperienza di vita ho avuto poche occasioni di confrontarmi col tema Hiv perché si tende a parlarne sempre meno. Ancora meno occasione ho avuto di incontrare l’esperienza di vita ed emotiva di persone hiv+. Ho partecipato con un amico sieropositivo e ho incontrato tante esperienze e storie di vita molto arricchenti. Ho preso contatto con pregiudizi più o meno inconsapevoli che portavo con me e ho approfondito molti aspetti relazionali. Mi sono sentito parte di un percorso di crescita sociale che coinvolge le persone hiv+, sempre più in cammino per una integrazione sociale senza stigmi né senso di diversità (ancora più alla luce delle moderne terapie di azzeramento della viremia). Anche da sieronegativo ho percepito un cammino rilevante per superare una paura antica verso la condizione di sieropositività. Questo apporto di crescita che ho ricevuto è stato ancora più significativo perché, a livello personale, è coinciso con la nascita di una bella relazione sentimentale con una persona sieropositiva. Il lavoro di autoconsapevolezza svolto anche nel laboratorio di plus mi ha sicuramente fornito strumenti di comprensione e mi ha liberato di sovrastrutture mentali nella relazione di incontro del mio compagno. Sono riconoscente nei confronti di Sandro Mattioli che ha saputo immaginare il valore di laboratori così intensi. Grazie. Con affetto,
Daniele

 

“Una persona più serena”

Ho partecipato al laboratorio perché ho avuto la fortuna di conoscere Sandro proprio qualche settimana prima che ne iniziasse uno, e probabilmente il Presidente ha colto il mio stato di depressione di allora, dovuto proprio al fatto che ero in terapia da quasi un anno senza aver avuto mai un supporto psicologico od umano. Per me è stata quindi un’esperienza importantissima, ringrazio ancora infinitamente tutti i volontari che si sono rilevati persone fantastiche e professionali, grazie ai quali ho cambiato la mia visione delle cose, ho capito che posso convivere senza problemi con la malattia, ho trovato un gruppo di amici nuovi che in qualche occasione mi capita di reincontrare, e sempre con grande piacere. Consiglio vivamente a tutti di frequentare un laboratorio e di superare i timori iniziali – io stesso ne avevo molti, per fortuna ho partecipato al primo usandomi una sorta di leggera violenza, ma ora sono una persona più serena; ho ancora alcune cose da risolvere, ma almeno ora conosco la direzione per lavorarci. Grazie ancora agli esperti e ai volontari, la gentilezza e la serietà professionale non sono cose scontate!
Paolo

 

“Condividere relativizza”

Mi sono iscritto al primo laboratorio HIVoices, totalmente inconsapevole di come sarebbe stato strutturato e chi sarebbero stati i miei compagni di corso. Ero fresco di diagnosi e sapevo solo che dolevo fare qualcosa. Volevo essere protagonista della situazione che mi stava capitando e non solo subirla. Avevo bisogno di confronto e di non isolarmi e mi è sembrata subito una grande fortuna avere una possibilità del genere. Ammetto che all’inizio avevo l’ansia per l’assicurazione della privacy e sul grado di riservatezza che un esperienza del genere potevano comportare. L’ansia è totalmente svanita durante il viaggio di andata: 1 ora di strada sterrata per arrivare in un posto isolato, deserto, esclusivo e anche un pochino magico. I risultati sono andati ben oltre le aspettative. non solo mi sono confrontato con storie diverse dalla mia ma ho trovato nuovi amici, suggestioni, consigli pratici oltre a una spinta emotiva verso un futuro che dopo sembra sicuramente meno spaventoso. Insomma, da soli le cose si radicalizzano. Condivise con gli altri si relativizzano.
Matteo.

 

“Un legame ci univa”

Mi chiamo Raffaello gay-sieropositivo da oltre 15 anni – vivo a Milano – ho partecipato ad uno dei primissimi laboratori HIVoices e Sono Sieropositivo. Personalmente non ho avuto dubbio su andarci o no, è stata una esperienza meravigliosa che porterò sempre dentro di me. Già il luogo del seminario ci conduceva ad una vicinanza del gruppo dandoci la possibilità di conoscerci di parlarci di confrontarci. Durante le varie sedute impegnative ma belle sentendo altri compagni sulla loro vita e sulle proprie emozioni ad essere sieropositivi e gay ho pianto. Alcune volte sono dovuto uscire dal laboratorio perché l’emozione era troppo forte. Una esperienza stupenda che quando si era sulla strada del ritorno verso Bologna, quasi si voleva che questi tre giorni non finissero mai. Un legame ci univa tutti. Grazie a chi vi lavora a Sandro, a Plus e se mi sentirò e ne avrò l’occasione sicuramente ne farò altri.
Raffaello.

 

“Ne uscirete più forti!”

Non abbiate remore ne uscirete più forti e sereni. Ho partecipato a tutti e tre i laboratori organizzati da Plus: HIVoices, Sono Sieropositivo e +o- Ho impiegato un po’ di tempo a decidermi per il primo, sapevo che sarebbe stato un momento molto forte e avevo timore Poi l’ho fatto e sono state tre esperienze travolgenti che hanno messo in moto un cambiamento con cui mi confronto quotidianamente, chiavi di lettura che partono dalla pancia e poi su, cuore e testa e ritorno, appartenenza e riconoscimento con gli altri partecipanti, consapevolezza di aver condiviso emozioni che restano per la vita. Hiv che diventa risorsa e ti migliora, dare senso e significato al perché sia successo, accettare che può capitare e dopo tanto tempo fare pace Esperienza fondamentale per me, di cui sarò sempre grato a Plus e ai due conduttori.
Marco.

 

“Siamo una comunità”

Frequentavo il BLQ solo come utente e all’ultimo test ho saputo che a breve sarebbe iniziato il corso per volontari. Appartengo alla categoria “gay terrorizzati del contagio HIV”. Così ho deciso di prendere il toro per le corna e mi sono inscritto! Il corso mi ha proposto molti temi per approfondire e studiare il virus dal punto di vista scientifico e sociale. La paura resta sempre, però ora ho più conoscenza dei rischi e sulle diverse forme di prevenzione. Consiglio il corso a tutti: l’HIV ci riguarda, a prescindere dal suffisso + o -. Ora sono un volontario, e accolgo chi viene a fare il test. In qualche occasione mi è capitato di incontrare ragazzi impauriti come lo ero io. Recentemente ad uno ho risposto: “ti capisco, succede, anche a me quando faccio il test” e ci siamo fatti una risata liberatoria. Questa è la magia di quando ci si aiuta “alla pari”. Siamo una comunità, ricordiamocelo!
Guido.

 

“Caricato di speranza”

Era molto tempo che ero incuriosito riguardo a questi Laboratori residenziali. Non ne sapevo molto, a parte che per qualche giorno mi sarei confrontato con altre persone sieropositive. Dopo un anno, riuscii a partecipare al primo step. Non sapevo chi di preciso avrei incontrato o cosa avrei fatto, ma fui tanto colpito, che dopo qualche mese, decisi di andare anche al secondo step. Desideravo fare questa esperienza perché sentivo il bisogno di confrontarmi con altre persone che potevano offrirmi uno scambio di informazioni, di esperienze vissute, di sentimenti forse simili ai miei. Le uniche perplessità che ho avuto sono state le cose da mettere nella scheda di adesione (non sapevo proprio cosa scrivere). Ho avuto occasione di sfogarmi, di conoscermi meglio, e di sforzarmi a capire molte cose a cui non avevo posto il focus : tutto questo insieme agli altri, in un ambiente quasi bucolico,tranquillo e riservato ; anche se ci sono stati dei momenti in cui, la mia tensione emotiva, credo che abbia raggiunto il record (Quanto mi è servito!) L’accoglienza e le coccole, della cucina e della sala, hanno insaporito l’esperienza. Credo che sia stata un ottima occasione di crescita personale. Mi è piaciuto moltissimo : persino durante il viaggio sono riuscito a fare amicizia con delle persone fantastiche. Dopo aver visto il mio test diventare positivo mi sono sentito tremendamente senza via di uscita e solo. Un anno prima di partecipare al HIVoices sul suggerimento di un amico con cui mi ero confidato, avevo preso il primo treno utile per andare a Bologna e incuriosito entrai a Plus. Feci una lunga chiacchierata con un counselor, partecipai a diversi incontri con varie associazioni che trattano il tema HIV e non solo . Partecipai ai 2 step di HIVoices . Tutto questo mi ha caricato di speranza . Tutto questo mi ha fatto vedere che c’è un sacco di gente che si organizza, si industria, si aiuta, vive, lotta giorno per giorno. Ho avuto il desiderio di far parte di questa realtà, ho avuto la voglia di dare il mio piccolissimo contributo, ho avuto la voglia di condividere il mio vissuto e così la mia voce… soprattutto con chi era disposto a darmi ascolto e ricambiare!
Antonio.

 

“La mia paura era il confronto con l’altra persona”

Il mio rapporto con l’HIV è sempre stato molto conflittuale, quindi ho deciso di partecipare al laboratorio +o- in quanto avevo bisogno di affrontare del tutto, sviscerare le mie insicurezze e le mie paure relative a questo tema. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, sapevo bene cosa fosse la sierodiscordanza e teoricamente sapevo anche come affrontarla. Dico teoricamente perché durante il laboratorio è emerso che la sierodiscordanza non esiste, o almeno per me non esiste, cerco di spiegarmi meglio: per me non è assolutamente rilevante, mi sono accorto che il mio problema era il rapportarsi con l’altro indipendentemente dal suo stato sierologico o meno. La mia paura era il confronto con l’altra persona, non certo con HIV. Ritengo il laboratorio estremamente utile e lo consiglio vivamente a tutti.
Massimo Baldini

La conferenza italiana Aids ICAR, che si è tenuta a Roma dal 22 al 24 maggio 2018,  è terminata come è iniziata: fra le proteste delle persone sieropositive e degli attivisti e attiviste nella lotta contro HIV.
Credo di non essere smentito se scrivo che Icar2018 verrà ricordata più per le manifestazioni, che per il suo decimo anniversario.
Ma procediamo con ordine: durante l’inaugurazione della Conferenza, un nutrito gruppo di persone sieropositive e non, ha rumorosamente interrotto [ qui il video della protesta ] la lecture di Filippo von Schloesser, con fischietti, agitando i barattoli dei propri farmaci antiretrovirali, con trombe da stadio, portando la propria preoccupazione per un sistema sanitario che, di taglio in taglio, è sempre meno in grado di garantire una assistenza adeguata alle esigenze delle persone sieropositive.
In ormai numerosi centri clinici è scomparso l’infettivologo di riferimento e ci troviamo ad essere seguiti dal reparto, ossia dal medico che è in turno il giorno della visita. Anche a chi scrive è capitato di trovare personale che non aveva la benché minima idea del mio percorso sanitario, che chiedeva a me il motivo di alcune analisi, rendendo evidente il fatto che non ci fosse nessuna preparazione alla visita di un paziente ignoto.
In alcuni centri clinici sono i pazienti a dover sollecitare analisi e esami per monitorare o prevenire l’insorgenza di problemi clinici aggiuntivi.
Le nuove terapie consentono oggi di sopprimere la carica virale di Hiv rendendoci non infettivi (altro tema che vanta 10 anni di studi, ma su cui Simit latita). Questo può permettere una buona qualità della vita e ha importanti ricadute sul piano della prevenzione. Per ottenere questo risultato, però, devono essere garantiti adeguati standard di assistenza e cura che i tagli imposti alla spesa e la conseguente contrazione dei servizi, rischiano di compromettere.
La risposta italiana a questi problemi sta nel Piano Nazionale Aids.
Approvato dal Ministero della Salute e dalla Conferenza Stato-Regioni, il Piano prevede interventi per rendere il percorso di cura delle persone con Hiv più efficace e in linea con gli obiettivi terapeutici.
Ma non è stato previsto neppure un euro di finanziamento per tale Piano nazionale.
Come associazioni abbiamo chiesto con forza che Piano sia finanziato, come atto dovuto perché questo documento di indirizzo possa essere introdotto nella pratica clinica.
Noi persone con HIV, infatti, siamo portatrici di alte e specifiche esigenze di salute in ragione della complessità della cura, della particolare vulnerabilità sociale a partire dalla discriminazione, del progressivo invecchiamento spesso anticipato dall’azione del virus e della possibile insorgenza di gravi patologie concomitanti.
I tagli rischiano di riportare l’orologio indietro di vent’anni.
Altro tema critico è l’indebolimento del ruolo del medico infettivologo che andrebbe anzi rafforzato e reso protagonista, “regista”, del rapporto con altri specialisti per un approccio multidisciplinare alla salute del paziente.

Ma c’è di più, ed è il motivo della seconda protesta effettuata durante l’ultima plenaria della conferenza Icar [ qui il video della protesta ], alla presenza di un ospite internazionale di assoluto prestigio il dott. Molina, i cui studi hanno portato la Francia all’adozione della PrEP come strumento di prevenzione distribuito gratuitamente, a carico del sistema sanitario, alla popolazione esposta al rischio di contagio.
La PrEP è una realtà con solide basi scientifiche da diversi anni ormai. Purtroppo in Italia abbiamo registrato infiniti ritardi da parte della politica, delle istituzioni di area sanitaria, della stessa classe medica che, come ha confermato il Presidente di Simit, non ha una posizione unitaria sulla PrEP a causa dell’atteggiamento moralista di alcuni suoi componenti… nel frattempo le persone si contagiano.
Abbiamo quindi alzato nuovamente i nostri cartelli, lanciato lo slogan PrEP now, access for all, perché è davvero assurdo respingere uno strumento efficace nella lotta contro HIV, sulla scorta di motivazioni decisamente più vicine allo stigma che alla scienza.
In tutto questo voglio sottolineare l’impegno dei 20 volontari di Plus che sono scesi a Roma, hanno realizzati i cartelli, hanno protestato, uniti. Anche grazie a queste persone, c’è speranza di farla finita con l’Aids entro il 2030, come ha annunciato l’OMS.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente.