Il titolo scimmiotta immeritatamente quello di un bellissimo articolo scritto da Mark King, noto attivista statunitense, per celebrare la giornata mondiale per la lotta contro l’Aids. Oggi abbiamo nuove vite in un mondo che non è soffocato dalla malattia, scrive King in chiusura, e sono convinto che la consapevolezza dell’orrore passato sia sua personale che della comunità omosessuale statunitense, rende ancora più vera quella frase. Una frase che, tuttavia, mi ha fatto riflettere sulla situazione attuale in Italia e sulle grandi differenze fra i due paesi.
Sul piano clinico, fra Italia e USA non c’è storia. L’Italia vanta un numero altissimo di persone sieropositive prese in carico dagli ospedali. Persone che seguono correttamente le indicazioni dei medici e che hanno ottenuto una carica virale non più rilevabile e, quindi, non più contagiose. Tutto il contrario degli USA che, probabilmente per vie del sistema sanitario profondamente diverso dal nostro, non ha neanche lontanamente ottenuto i successi italiani. Non possiamo dire lo stesso sul piano sociale, della consapevolezza politica di una comunità che negli USA si è fatta carico della salute dei propri membri fin dall’inizio della pandemia negli anni 80. Oggi quella comunità vanta alcune fra le più grandi associazioni di persone sieropositive e di attivisti nella lotta contro HIV/AIDS. Vanta un percorso fatto di compassione per le sofferenze di amici, amanti, persone vicine che non ci sono più. La nostra comunità ha fatto una scelta diametralmente opposta: ha scelto che fossero altri ad occuparsi di HIV, ha scelto di non farsi carico del tema e di lasciare sole le persone gay sieropositive a gestire l’infezione, lo stigma, il corpo che cambia, il rifiuto di se stessi e l’isolamento da parte degli altri, e tutto quello che comporta essere omosessuali e sieropositivi in una società sessuofobica, giudicante, bigotta di cui anche la comunità LGBT è parte integrante. Si integrante. Lo vediamo ancora oggi.
Nonostante l’associazionismo gay stia cercando di recuperare i decenni perduti, la comunità omosessuale molto – troppo – spesso addita i gay sieropositivi come indegni, indecenti, se hanno HIV chissà cosa hanno combinato, altro da noi. Trovare un “marito” è cosa ben più complicata qui che altrove anche perché ci piace tenere la testa sotto la sabbia, nella convinzione che HIV riguardi gli errori degli altri non noi, e quindi fuggire è la cosa migliore che ci viene in mente, fuggire dalla paura irrazionale, dai giudizi, da quello che anche i migliori giornalisti nazionali chiamano con termini medievali,. Fuggire, non avere contatti meno che mai sessuali, non avere nessuna cognizione dello stigma che viene posto in essere con le stesse dinamiche discriminatorie che alcuni eterosessuali attivano nei confronti dei gay.
Si, c’è una pesante discriminazione dei gay verso una minoranza di gay sieropositivi, uno stigma costruito su mattoni fatti di silenzi, paure, ignoranza. Alla fine della fiera siamo discriminati due volte per il nostro orientamento sessuale e per il nostro stato sierologico. Non c’è compassione, non c’è comprensione, non c’è coscienza storica né collettiva. “Io, me stesso e me” sembra essere il mantra di questa fase storica del movimento italiano che, giustamente, si commuove per i migranti ma isola e respinge parte della sua stessa identità.
Oggi le cose possono essere diverse. Noi, persone sieropositive, abbiamo questo potere. Oggi noi fermiamo l’epidemia. A 10 anni dal primo studio del prof. Vernazza sulla non contagiosità delle persone sieropositive in trattamento efficace, studio che portò alla dichiarazione svizzera, oggi abbiamo prove scientifiche inconfutabili che le persone sieropositive con carica virale non rilevabile non sono contagiose. Decine e decine di migliaia di rapporti penetrativi senza condom e senza contagio alcuno, stanno li a dimostrarlo. La Tasp è prevenzione, grazie alle terapie e soprattutto grazie al nostro impegno nell’assumerle. Quindi si: sono sano. Sono sano perché ho un’infezione, ma non la trasmetto a nessuno neanche volendo e come me, tutte le persone con carica virale non rilevabile. Sono sano perché posso fermare l’infezione e sono fiero di poterlo fare. Sono sano perché ho la mia salute sotto controllo e non so quante persone dallo stato sierologico ignoto possano dire altrettanto. Oggi, ci sono nuovi eroi nella battaglia contro HIV.
È successo di nuovo. Avevo appena parlato a una conferenza e una attivista trans*, che peraltro stimo molto, ha sentito l’esigenza di ridirlo… «Ricordiamo a tutti che l’Hiv non riguarda le categorie di persone, ma i comportamenti. Non vorrei che su questo argomento si tornasse a parlare di categorie a rischio…».
Io di ghiaccio.
Cosa c’è di sbagliato in quello che ha detto? Tecnicamente assolutamente nulla. È innegabilmente vero che l’Hiv lo prendi se ti capita di fare sesso senza protezioni con una persona che ce l’ha e non si sta curando (perché ricordiamo se uno è in terapia efficace non lo può trasmettere). Qualunque sia il tuo genere e il genere del tuo partner, indipendentemente dal fatto se ti definisci gay, etero, bisessuale o marziano.
Ma vogliamo farla una riflessione su cosa nasconde l’inattaccabile precisazione della nostra amica attivista? Innanzitutto, c’è un problema “storico” o “politico”, vedete voi: forti di questa sacrosanta puntualizzazione, moltissime organizzazioni LGBT italiane ma anche europee (e credo anche al di fuori del Vecchio continente) hanno pensato bene di smettere di occuparsi di HIV, perché “non è una cosa che riguarda solamente noi, se ne occupino le istituzioni che devono curare la salute pubblica di tutte e tutti”.
Bene. Le istituzioni, ovviamente, hanno adottato lo stesso presupposto: “non dobbiamo presentare l’HIV come un problema dei gay, ma parlare alla popolazione generale”. E così, giù con campagne dal messaggio quanto più vago e “ampio” possibile, con l’ovvio risultato che un messaggio vero, sintetico, efficace non è arrivato a nessuno. Chi se lo ricorda Raul Bova che avvolge il fiocco rosso intorno a persone ignude di tutte le tipologie? Forse solo qualche fan sfegatato (gay, ovviamente…). E se anche vi ricordate dell’avvenente attore, vi ricordate cosa comunicasse quella campagna? Sono pronto a giurare di no.
Oggi, ulteriore ennesimo episodio. Siamo al 1° dicembre e la stampa – vivaddio – decide di parlare di HIV (oddio, spesso vogliono parlare di AIDS, ma vaglielo a spiegare che non sono la stessa cosa…). Vengo contattato da una giornalista del Tg1 per una intervista, un minuto per parlare di come mi sono contagiato, cosa si può fare per fermare l’epidemia. E che ci vuole? Vabbè, acconsento. Aspetto la telefonata di conferma che puntualmente arriva: «Scusa Giulio – mi spiega la scrupolosa e gentilissima collega – ma il direttore mi ha chiesto di trovare una donna. Sai, è anche un modo per far passare il messaggio che l’Aids [sic] non è solo… [momento di imbarazzo] qualcosa che sta in un certo gruppo di persone [froci, dillo, siamo froci!], ma anche le donne si infettano sempre di più».
Ora, io sono felice che si parli di Hiv tra le donne: è doveroso. E non mi interessa nemmeno precisare che le nuove diagnosi di infezione tra le donne sono stabili dal 2010 e non in aumento (a meno che non parliamo delle donne straniere…). L’Hiv tra le donne è sicuramente un argomento trascurato, quindi ben venga che se ne parli!
Però mi viene in mente un dubbio: non è che stiamo “censurando” ciò che accade tra i gay? Forse è solo la mia impressione, ma mi sembra che gli unici a parlare di Hiv tra i gay siano – alcune – associazioni gay. Ovviamente facendo la tara di quella innominabile trasmissione spazzatura che va in onda la domenica e il martedì in prima serata un canale Mediaset e che si diverte a buttare in pasto agli affamati leoni della tastiera gli “untori”(mai conosciuto uno) o la coppia gay sierodiscordante tanto bella perché usano ancora il preservativo (anche se il partner sieropositivo è undetectable e quindi NON PUÒ trasmettere l’Hiv manco con l’aiuto di tutti i santi del Digitale Terrestre, ma questo è ovvio che l’infotainment da discarica non lo dice!). O altre amene avventure pseudo-giornalistiche di questo tipo.
Io non ricordo un Tg1 con un ospite gay che parli della sua vita con Hiv. Non ricordo nessun intervento nella tv cosiddetta generalista che spieghi ai giovani gay quanto sono a rischio di contrarre il virus. Mai. Mi sbaglierò, so di avere una pessima memoria.
Eppure… Eppure, caspita se ce ne sarebbe bisogno! Non me ne vogliate ma qui parte il pippotto epidemiologico. Andiamo a vedere i dati appena pubblicati dall’Istituto superiore di sanità e aggiornati – a meno di quei casi che le regioni non hanno ancora segnalato al centro operativo Aids e che saranno aggiunti da qui a qualche mese – al dicembre 2017. Lo scorso anno sono state segnalate 3.443 nuove diagnosi di infezione da Hiv. Di queste, 2.249 riguardano cittadini italiani. Il problema rappresentato da quelle 1.181 segnalazioni relative a cittadini stranieri è enorme e va affrontato anche quello! Ma io voglio un secondo concentrarmi sugli italiani (pare vada di moda, ultimamente…). Quasi metà di quelle diagnosi (1.061 per l’esattezza) è avvenuta in seguito a rapporti sessuali tra maschi. Sono invece 543 le nuove diagnosi registrate tra i maschi etero e 273 quelle tra le donne.
Questi i numeri assoluti. Ma facciamo una riflessione sulla proporzione di maschi gay che ogni anno si trovano scritto “positivo” sul foglietto del test Hiv? Noi non sappiamo quanti ce ne siano in Italia, di maschi gay. Non è mai stato fatto un censimento o uno studio grande in proposito. Possiamo solo fare stime molto, molto, molto grossolane. Quindi mi perdoneranno gli epidemiologi – che tanto sono sicuro non perdono tempo a leggere questo articolo – ma farò una roba “un tanto al chilo”. Secondo il Censimento del 2012, dei quasi 60 milioni di italiani sono maschi 28.750.000 circa. Se ci limitiamo a quelli che avevano più di 18 anni arriviamo a 22.200.000 circa. Ora, lo sappiamo tutti che forse sono molti di più ma basiamoci sulle statistiche generali e diciamo che anche in Italia un maschio su 20 ha avuto almeno una volta nella vita un rapporto sessuale con un altro maschio: quindi ci sarebbero 1.110.000 italiani di sesso maschile che possiamo definire “gay” (molti dei quali se lo sapessero mi riempirebbero di botte, probabilmente). Se dividiamo il numero di nuove diagnosi tra i maschi gay (1.061) per il numero di maschi gay stimato (1.110.000) otteniamo che quasi un maschio gay su 1.000 ogni anno ha una diagnosi di Hiv. Proviamo a fare la stessa operazione per i maschi etero? Risultato: uno su 38.000. E le donne etero? Siamo quasi a una su 90.000. Per carità, conti grossolani, che più grossolani non si può: ma ci vogliamo rendere conto che l’ordine di grandezza che ne viene fuori è comunque agghiacciante? C’è o non c’è un problema grosso quanto una casa tra i maschi gay rispetto all’Hiv?
Potremmo anche citare l’ottima analisi prodotta dai massimi scienziati mondiali e pubblicata nel 2012 sulla prestigiosa rivista The Lancet (a dire il vero, la più prestigiosa al mondo…) e ricordare che il fatto che l’Hiv sia così diffuso nella comunità gay rappresenta di per sé un rischio, perché è chiaramente molto più facile per un uomo omosessuale incrociare tra i suoi amanti qualcuno con Hiv e con carica virale rilevabile in grado di trasmettergli l’infezione rispetto a quello che accade per gli etero. Non solo: i gay sono gli unici che possono avere sia il ruolo attivo che passivo (vabbè, gli scienziati direbbero insertivo e ricettivo, ma ci siamo capiti), cosa che rende più facile la trasmissione tra chi mi passa l’Hiv e quello a cui lo passo io. Se a questo aggiungiamo il fatto che nel rapporto anale (che però pare anche gli etero possano consumare) è molto più facile la trasmissione di Hiv, abbiamo completato il terzetto di vulnerabilità che rendono gli uomini gay più a rischio di diventare sieropositivi.
Un’ultima riflessione personale: credo sarebbe sbagliato pensare che il gruppo dei maschi gay sia chiuso e che quindi tutto questo “Hiv” che circola là dentro resti lì. Mi risulta che ci siano anche maschi che fanno sesso sia con i maschi che con le donne. Persone che potrebbero – ovviamente sempre involontariamente, non voglio certo colpevolizzare nessuno – contrarre l’Hiv dove è più facile trovarlo, cioè tra i maschi, e trasmetterlo alle donne. Questo solo per dire che intervenire per fermare l’Hiv tra i gay credo che vada a vantaggio anche degli etero e della diffusione generale dell’infezione.
In conclusione, non sto richiamando attenzione sull’Hiv tra i gay per puro narcisismo frocio – dal quale pure potrei non essere esente – né voglio negare l’importanza enorme che hanno anche altre situazioni, come la questione della salute sessuale delle persone straniere o delle donne. Mi viene però il sospetto che qualcuno possa credere che non ci sia più bisogno di parlare dell’Hiv tra i gay. A quel qualcuno vorrei dire che credo proprio che ce ne sia un gran bisogno. Quel “qualcuno” forse non lo sa, ma sta ponendo una censura pericolosa (e, credo, non esente da un odioso moralismo) su un tema che riguarda la salute dei cittadini e di tutte le persone, gay certo ma anche di altri orientamenti sessuali. E davvero l’ultima cosa di cui l’Hiv ha bisogno è di altre censure.
Si è conclusa la 22esima Conferenza Mondiale AIDS che si è tenuta ad Amsterdam davanti a 15.000 delegati, oltre a molti politici, Altezze Reali, Ministri… dunque è ufficiale: la presenza dei Ministri non è vietata nelle conferenze mondiali, continentali, nazionali. L’assenza cronica della politica e delle istituzioni italiane nelle conferenze su HIV/AIDS è imbarazzante. Amsterdam ha accolto la conferenza da par suo, ovunque in città erano presenti bandiere, scritte di benvenuto, cartelli per promuovere la conferenza. In diverse bandiere le tre X simbolo della città, sono state trasformate in 3 fiocchi rossi, simbolo della lotta contro l’Aids.Penso che qualunque attivista si sia sentito accolto come a casa.
La conferenza non è stata caratterizzata da moltissime novità, ma alcune decisamente fondamentali per le persone che vivono con HIV. La più importante, secondo me ovviamente, è la conferma definitiva che le persone con HIV in terapia efficace non sono contagiose, neppure se gay, neppure se fanno sesso anale senza condom con eiaculazione interna. Lo studio Partner2 è stato di fatto un prolungamento dello studio partner1 (studio prospettico osservazionale in 14 Paesi europei inclusa l’Italia), motivato dal fatto che nel precedente studio il numero delle coppie gay arruolate non era stato sufficiente a garantire un dato solido dal punto di vista statistico o, per essere esatti, non era solido quanto quello delle coppie eterosessuali. Allo studio Partner2 hanno partecipato 972 coppie
gay sierodiscordanti, di cui 779 arruolate. La viremia del partner positivo, doveva essere inferiore alle 200 copie. I criteri di inclusione prevedevano che il sesso praticato nella coppia fosse senza condom, non fosse stato il ricorso a PEP o PrEP, che, per il partner positivo, la carica virale nell’ultimo anno si mantenesse stabilmente al di sotto delle 200 copie/ml. In caso di sieroconversione, era prevista un’analisi filogenetica per mettere a confronto la polimerasi dell’HIV-1 e le sequenze di inviluppo in entrambi i partner per identificare le trasmissioni collegate. Le coppie arruolate aveva una età mediana di 40 anni, dichiaravano di fare sesso senza condom da in media 1 anno. Durante il periodo di osservazione, sono stati dichiarati 74.567 “atti sessuali” senza condom; il 37% dei partner HIV negativi ha dichiarato rapporti sessuali con persone diverse dal partner HIV+ stabile. Ci sono stati 17 casi di diagnosi di HIV nei partner sieronegativi, ma l’analisi filogenetica ha dimostrato che non c’era connessione fra la nuova diagnosi e il virus del partner HIV positivo. In conclusione nonostante i quasi 75.000 rapporti sessuali in coppie sierodiscordanti con il partner positivo con carica virale non rilevabile, ci sono state zero nuove diagnosi interne alla coppia. Chiamiamolo “positivo non infettivo”, U=U, “Non rilevabile= Non trasmissibile”, chiamiamolo come vogliamo ma ora, finalmente, possiamo dichiarare che una persona HIV positiva in terapia efficace non è contagiosa. A 10 anni da quando ascoltai il professor Vernazza parlare del primo studio alla base della Tasp, finalmente possiamo scientificamente affermare che non siamo untori (termine medievale di merda che non userò più). Per capirci bene: le coppie facevano sesso anale senza condom con eiaculazione interna = nessun contagio.
Un’altra buona notizia per le persone sieropositive, viene dallo studio Gemini sponsorizzato da ViiV. Lo studio ha dimostrato che anche nei pazienti che iniziano per la prima volta la terapia antiretrovirale, una duplice con Dolutegravir+Lamivudina è potente a sufficienza per garantire un risultato equivalente ad una triplice terapia. Sembra una “banalità”, ma significa che possiamo assumere un farmaco in meno senza nulla togliere all’efficacia del trattamento, penso che questa possibilità significhi, nel lungo periodo, meno problemi fisici per le persone che vivono con HIV. Non mi sembra una cosa su cui soprassedere. La relazione era su dati a 48 settimane. I criteri di arruolamento prevedevano l’assenza di infezioni da HBV e HCV (epatite B e epatite C), il virus non doveva presentare evidenti resistenze ai farmaci, il paziente doveva avere meno di 10 giorni di terapia alle spalle ossia pressoché nulla. 21 i Paesi coinvolti in tutto il mondo, inclusa l’Italia. Obiettivo primario a 48 settimane: pazienti con viremia <50 copie/ml. I farmaci a confronto erano, come ho detto, Dolutegravir+Lamivudina – Dolutegravir+Tenofovir-Emtricitabina. Oltre 1400 le persone arruolate divise in due bracci. I risultati a 48 settimane sono equiparabili, forse farei un po’ di attenzione nel caso il paziente abbia meno di 200 CD4 al basale, ma anche li è da valutare. Non ci sono state resistenze-mutazioni, ovviamente i reni e le ossa hanno molti meno problemi con DTG+3TC (Dolutegravis-Lamivudina). Studi di switch, ossia relativi a un cambio di terapia per i pazienti che già sono in trattamento, sono in corso. Ma va detto che si sono numerosi dati clinici a supporto dello switch già in essere oggi.
Il Global Village anche in questa edizione della IAC (International Aids Conference) è stato il vero motore del convegno. L’evento principale è stata, probabilmente, la grande marcia di protesta, alla quale anche chi scrive ha preso parte. Un lungo corteo colorato dove fortissima è stata la presenza degli attivisti MSM. Ogni gruppo ha manifestato portando istanze precise dalla propria esperienza. Noi di Plus abbiamo preso posto, insieme a LILA, nello spezzone di corteo dedicato alla lotta contro la discriminazione al grido di U=U riportato nelle diverse decine di lingue nazionali delle persone presenti alla marcia. Così che U=U è diventato N=N, K=K, e così via ma sempre con la medesima forza per dire basta con lo stigma, non siamo più contagiosi. Il Global Village è stato in particolare animato, quest’anno, dalla vivacità delle associazioni di sex worker. Ad esse si deve il tentativo di boicottare la prossima conferenza che si dovrebbe tenere a San Francisco nel 2020. In effetti, dopo anni di proteste, l’amministrazione Obama tolse il divieto di ingresso negli USA per le persone sieropositive e, a mo di premio, ottenne la Conferenza Mondiale a Washington nel 2012. A dire la verità sia Plus che Lila segnalarono subito l’incongruenza perché il ban per le persone prostitute, per i consumatori di sostanze, ecc. è rimasto ed è tuttora in vigore. Da una eventuale conferenza a San Francisco, salvo consistenti cambiamenti nelle leggi immigratorio statunitensi, buona parte degli attivisti resterebbero esclusi, cosa assurda che non può assolutamente essere. Inoltre l’amministrazione Trump ne combina una ogni giorno anche in campo lotta contro HIV/AIDS per cui non è davvero il caso che un evento importate coma la IAC sia concesso a un Paese che discrimina chi lotta contro HIV. “Niente su di noi senza TUTTI NOI”. Chiarito questo, diciamocelo, il vero evento clou del Global Village è stato “Facing taboo: Drag graphic novel” by Paula Lovely e Luca Baghetta (Conigli Bianchi). Grazie a Paolo Gorgoni – aka Paula Lovely – la presenza di Plus al Global è stata un successo. Un garbato mix di canzoni, video, testi che hanno spinto sul pedale delle emozioni, fra testimonianze personali, advocacy e attivismo politico.
Sandro Mattioli Plus Onlus Presidente
la partecipazione di Plus Onlus alla IAC 2018, è stata resa possibile grazie ad un contributo non condizionato di ViiV healthcare.
In vista del laboratorio residenziale di Plus, ecco alcune testimonianze scelte fra quelle delle oltre 100 persone gay sieropositive che hanno già partecipato ai laboratori residenziali di Plus (HIVoices, Sono Sieropositivo, +o- Diversi).
“Fatti del bene”
Mi iscrissi al primo residenziale con timori e paure: l’incognita di ciò cui mi accingevo a partecipare, il disagio che avrei potuto incontrare persone che conoscevo ed entrare in confronto con loro, dello sentirmi sporco per via dell’infezione, e dei maestrali cui la vergogna mi aveva dato in pasto. per giorni mi sono chiesto che cosa mai mi era saltato in mente… Dopo, nei giorni successivi, la condivisione di racconti intimi intensi di vite altrui, differenti ma vicine alla mia regalavano una strana energia, una nuova coscienza che via via segretamente mi accompagnava verso il benessere ed allontanava il vuoto della solitudine. Goloso e bisognoso ho frequentato lab. successivi alla ricerca di quiete interiore. la mia vittoria? È stata l’aver saputo raccogliere l’offerta di Plus; di comprendere che non ho colpe e perdonare me stesso… Invito te che mi leggi a farti del bene partecipando, non hai nulla da perdere, anzi. Michele Degli Esposti. Plussiano Fiero. Sempre.
Dieci motivi per i quali partecipare a un Laboratorio Plus.
1. Perché ci fa star meglio. Ci smuove emozioni, sensazioni ed energie che ci aiutano, col tempo, a essere più sereno, consapevole, risolto. 2. Perché c’è un prima e un dopo. Un Laboratorio Plus è un’esperienza forte, che generalmente segna un confine tra un prima e un dopo nelle nostre vite: un punto di vista inaspettato e nuovo, che ci aiuta tanto nel nostro percorso verso la felicità. 3. Perché non siamo soli. I Laboratori sono una palestra eccezionale per capire che non siamo soli. Che ci sono altri ragazzi e uomini HIV+ che conoscono i nostri problemi, le nostre preoccupazioni, che fanno il possibile, proprio come noi, per stare meglio. 4. Per prenderci una pausa. Perché ci fa bene prenderci una pausa per noi stessi. Una piccola parentesi che ci consenta una mini-fuga dalla quotidianità. 5. Perché dietro c’è una regia da Oscar. Dietro i Laboratori Plus c’è un mondo. Ci sono due conduttori preparati ed esperti, c’è un’associazione di persone sieropositive molto forte, presente e coraggiosa: incontrare questo mondo è molto emozionante! 6. Perché il gruppo è una figata! La forza del lupo è nel branco, la forza del branco è nel lupo. I gruppi che si creano sono sempre delle belle casse di risonanza delle energie di ciascuno, uno strumento molto potente, che deve essere sperimentato! 7. Perché il set è magico. Un grande casale immerso nei boschi, nel silenzio, lontano da stress, traffico e quotidianità. Un luogo magico, dove dimenticare il telefono e fermarsi ad asocoltare. Ad ascoltarsi. 8. Per conoscere persone nuove. Ai Laboratori Plus partecipano persone belle: motivate, aperte all’altro, anche capaci di divertirsi quando è il momento per farlo. 9. Perché ce lo meritiamo. I Laboratori sono momenti che ci aiutano a riflettere sulla felicità che ci neghiamo. Sulla fatica che abbiamo fatto e che quotidianamente facciamo, sui pregiudizi che subiamo, sull’impatto che l’HIV ha sulle nostre vite. Ci meritiamo un momento per noi stessi, no? 10. Ciascuno ha il suo perché. Il decimo motivo, scrivilo tu. Ciascuno ha il suo perché. Ciascuno la sua strada, la sua motivazione, il suo percorso. Il tuo qual è? Roberto
“Mettermi a nudo, con piacere”
Non volevo andare ad HIVoices; pensavo che dopo 12 anni di sieropositività e l’attività nell’associazionismo Hiv non avessi bisogno di lavorare sulla mia condizione di Hiv+. Fu il mio ragazzo (sieronegativo) a spingermi: ‘Hai ancora delle cose da risolvere rispetto alla tua diagnosi’. Aveva ragione: HIVoices è stato un modo per guardare da vicino quello che nella vita di tutti i giorni rimane nascosto sotto il tappeto. Ho visto le mie paure e le difese che ho sviluppato, come queste mi limitassero nella mia capacità di vivere la mia vita e incontrare le altre persone. Il lavoro mi ha spinto a mettermi a nudo ma l’ho potuto fare con tranquillità, quasi con piacere, perché mi sono sentito protetto. E tirare fuori cose così profonde davanti ad altre persone crea dei legami straordinari: anche se non ci vediamo spesso, sento con tutte le persone di quel gruppo una intimità e una condivisione straordinarie. E sono loro grato per avermi permesso di tirare fuori quello che sono e di aver condiviso con me quello che sono loro. Giulio Maria Corbelli
“Un ambiente protetto”
Pensavo fosse solo un semplice seminario informativo, ma quello che ho trovai, una volta arrivato, fu un ambiente protetto dove ho potuto sfogarmi e liberarmi di alcune cose che sopprimevo, il laboratorio non solo mi ha aiutato su questo fronte, ma anche grazie alle attività di confronto ho trovato alcuni punti di riflessione, dove ho ricavato i miei strumenti per affrontare al meglio la mia vita da gay sieropositivo. Golia
“Si incrociano gli sguardi”
2 laboratori vissuti : non e’ un impegno, non una vacanza, non un party a luci rosse. Come in un film ripercorro la mia vita, il mondo che mi gira attorno, e per qualche istante si incrociano gli sguardi, le vite di chi in quel momento e’ partecipe, vorresti durasse il più possibile per capire…non rimane che il tempo di tornare a casa. Emillio P.
“I pregiudizi che portavo in me”
Qualche mese fa ho partecipato a un laboratorio residenziale organizzato da Plus e composto da persone sierodiscordanti. Nella mia esperienza di vita ho avuto poche occasioni di confrontarmi col tema Hiv perché si tende a parlarne sempre meno. Ancora meno occasione ho avuto di incontrare l’esperienza di vita ed emotiva di persone hiv+. Ho partecipato con un amico sieropositivo e ho incontrato tante esperienze e storie di vita molto arricchenti. Ho preso contatto con pregiudizi più o meno inconsapevoli che portavo con me e ho approfondito molti aspetti relazionali. Mi sono sentito parte di un percorso di crescita sociale che coinvolge le persone hiv+, sempre più in cammino per una integrazione sociale senza stigmi né senso di diversità (ancora più alla luce delle moderne terapie di azzeramento della viremia). Anche da sieronegativo ho percepito un cammino rilevante per superare una paura antica verso la condizione di sieropositività. Questo apporto di crescita che ho ricevuto è stato ancora più significativo perché, a livello personale, è coinciso con la nascita di una bella relazione sentimentale con una persona sieropositiva. Il lavoro di autoconsapevolezza svolto anche nel laboratorio di plus mi ha sicuramente fornito strumenti di comprensione e mi ha liberato di sovrastrutture mentali nella relazione di incontro del mio compagno. Sono riconoscente nei confronti di Sandro Mattioli che ha saputo immaginare il valore di laboratori così intensi. Grazie. Con affetto, Daniele
“Una persona più serena”
Ho partecipato al laboratorio perché ho avuto la fortuna di conoscere Sandro proprio qualche settimana prima che ne iniziasse uno, e probabilmente il Presidente ha colto il mio stato di depressione di allora, dovuto proprio al fatto che ero in terapia da quasi un anno senza aver avuto mai un supporto psicologico od umano. Per me è stata quindi un’esperienza importantissima, ringrazio ancora infinitamente tutti i volontari che si sono rilevati persone fantastiche e professionali, grazie ai quali ho cambiato la mia visione delle cose, ho capito che posso convivere senza problemi con la malattia, ho trovato un gruppo di amici nuovi che in qualche occasione mi capita di reincontrare, e sempre con grande piacere. Consiglio vivamente a tutti di frequentare un laboratorio e di superare i timori iniziali – io stesso ne avevo molti, per fortuna ho partecipato al primo usandomi una sorta di leggera violenza, ma ora sono una persona più serena; ho ancora alcune cose da risolvere, ma almeno ora conosco la direzione per lavorarci. Grazie ancora agli esperti e ai volontari, la gentilezza e la serietà professionale non sono cose scontate! Paolo
“Condividere relativizza”
Mi sono iscritto al primo laboratorio HIVoices, totalmente inconsapevole di come sarebbe stato strutturato e chi sarebbero stati i miei compagni di corso. Ero fresco di diagnosi e sapevo solo che dolevo fare qualcosa. Volevo essere protagonista della situazione che mi stava capitando e non solo subirla. Avevo bisogno di confronto e di non isolarmi e mi è sembrata subito una grande fortuna avere una possibilità del genere. Ammetto che all’inizio avevo l’ansia per l’assicurazione della privacy e sul grado di riservatezza che un esperienza del genere potevano comportare. L’ansia è totalmente svanita durante il viaggio di andata: 1 ora di strada sterrata per arrivare in un posto isolato, deserto, esclusivo e anche un pochino magico. I risultati sono andati ben oltre le aspettative. non solo mi sono confrontato con storie diverse dalla mia ma ho trovato nuovi amici, suggestioni, consigli pratici oltre a una spinta emotiva verso un futuro che dopo sembra sicuramente meno spaventoso. Insomma, da soli le cose si radicalizzano. Condivise con gli altri si relativizzano. Matteo.
“Un legame ci univa”
Mi chiamo Raffaello gay-sieropositivo da oltre 15 anni – vivo a Milano – ho partecipato ad uno dei primissimi laboratori HIVoices e Sono Sieropositivo. Personalmente non ho avuto dubbio su andarci o no, è stata una esperienza meravigliosa che porterò sempre dentro di me. Già il luogo del seminario ci conduceva ad una vicinanza del gruppo dandoci la possibilità di conoscerci di parlarci di confrontarci. Durante le varie sedute impegnative ma belle sentendo altri compagni sulla loro vita e sulle proprie emozioni ad essere sieropositivi e gay ho pianto. Alcune volte sono dovuto uscire dal laboratorio perché l’emozione era troppo forte. Una esperienza stupenda che quando si era sulla strada del ritorno verso Bologna, quasi si voleva che questi tre giorni non finissero mai. Un legame ci univa tutti. Grazie a chi vi lavora a Sandro, a Plus e se mi sentirò e ne avrò l’occasione sicuramente ne farò altri. Raffaello.
“Ne uscirete più forti!”
Non abbiate remore ne uscirete più forti e sereni. Ho partecipato a tutti e tre i laboratori organizzati da Plus: HIVoices, Sono Sieropositivo e +o- Ho impiegato un po’ di tempo a decidermi per il primo, sapevo che sarebbe stato un momento molto forte e avevo timore Poi l’ho fatto e sono state tre esperienze travolgenti che hanno messo in moto un cambiamento con cui mi confronto quotidianamente, chiavi di lettura che partono dalla pancia e poi su, cuore e testa e ritorno, appartenenza e riconoscimento con gli altri partecipanti, consapevolezza di aver condiviso emozioni che restano per la vita. Hiv che diventa risorsa e ti migliora, dare senso e significato al perché sia successo, accettare che può capitare e dopo tanto tempo fare pace Esperienza fondamentale per me, di cui sarò sempre grato a Plus e ai due conduttori. Marco.
“Siamo una comunità”
Frequentavo il BLQ solo come utente e all’ultimo test ho saputo che a breve sarebbe iniziato il corso per volontari. Appartengo alla categoria “gay terrorizzati del contagio HIV”. Così ho deciso di prendere il toro per le corna e mi sono inscritto! Il corso mi ha proposto molti temi per approfondire e studiare il virus dal punto di vista scientifico e sociale. La paura resta sempre, però ora ho più conoscenza dei rischi e sulle diverse forme di prevenzione. Consiglio il corso a tutti: l’HIV ci riguarda, a prescindere dal suffisso + o -. Ora sono un volontario, e accolgo chi viene a fare il test. In qualche occasione mi è capitato di incontrare ragazzi impauriti come lo ero io. Recentemente ad uno ho risposto: “ti capisco, succede, anche a me quando faccio il test” e ci siamo fatti una risata liberatoria. Questa è la magia di quando ci si aiuta “alla pari”. Siamo una comunità, ricordiamocelo! Guido.
“Caricato di speranza”
Era molto tempo che ero incuriosito riguardo a questi Laboratori residenziali. Non ne sapevo molto, a parte che per qualche giorno mi sarei confrontato con altre persone sieropositive. Dopo un anno, riuscii a partecipare al primo step. Non sapevo chi di preciso avrei incontrato o cosa avrei fatto, ma fui tanto colpito, che dopo qualche mese, decisi di andare anche al secondo step. Desideravo fare questa esperienza perché sentivo il bisogno di confrontarmi con altre persone che potevano offrirmi uno scambio di informazioni, di esperienze vissute, di sentimenti forse simili ai miei. Le uniche perplessità che ho avuto sono state le cose da mettere nella scheda di adesione (non sapevo proprio cosa scrivere). Ho avuto occasione di sfogarmi, di conoscermi meglio, e di sforzarmi a capire molte cose a cui non avevo posto il focus : tutto questo insieme agli altri, in un ambiente quasi bucolico,tranquillo e riservato ; anche se ci sono stati dei momenti in cui, la mia tensione emotiva, credo che abbia raggiunto il record (Quanto mi è servito!) L’accoglienza e le coccole, della cucina e della sala, hanno insaporito l’esperienza. Credo che sia stata un ottima occasione di crescita personale. Mi è piaciuto moltissimo : persino durante il viaggio sono riuscito a fare amicizia con delle persone fantastiche. Dopo aver visto il mio test diventare positivo mi sono sentito tremendamente senza via di uscita e solo. Un anno prima di partecipare al HIVoices sul suggerimento di un amico con cui mi ero confidato, avevo preso il primo treno utile per andare a Bologna e incuriosito entrai a Plus. Feci una lunga chiacchierata con un counselor, partecipai a diversi incontri con varie associazioni che trattano il tema HIV e non solo . Partecipai ai 2 step di HIVoices . Tutto questo mi ha caricato di speranza . Tutto questo mi ha fatto vedere che c’è un sacco di gente che si organizza, si industria, si aiuta, vive, lotta giorno per giorno. Ho avuto il desiderio di far parte di questa realtà, ho avuto la voglia di dare il mio piccolissimo contributo, ho avuto la voglia di condividere il mio vissuto e così la mia voce… soprattutto con chi era disposto a darmi ascolto e ricambiare! Antonio.
“La mia paura era il confronto con l’altra persona”
Il mio rapporto con l’HIV è sempre stato molto conflittuale, quindi ho deciso di partecipare al laboratorio +o- in quanto avevo bisogno di affrontare del tutto, sviscerare le mie insicurezze e le mie paure relative a questo tema. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, sapevo bene cosa fosse la sierodiscordanza e teoricamente sapevo anche come affrontarla. Dico teoricamente perché durante il laboratorio è emerso che la sierodiscordanza non esiste, o almeno per me non esiste, cerco di spiegarmi meglio: per me non è assolutamente rilevante, mi sono accorto che il mio problema era il rapportarsi con l’altro indipendentemente dal suo stato sierologico o meno. La mia paura era il confronto con l’altra persona, non certo con HIV. Ritengo il laboratorio estremamente utile e lo consiglio vivamente a tutti. Massimo Baldini
La conferenza italiana Aids ICAR, che si è tenuta a Roma dal 22 al 24 maggio 2018, è terminata come è iniziata: fra le proteste delle persone sieropositive e degli attivisti e attiviste nella lotta contro HIV. Credo di non essere smentito se scrivo che Icar2018 verrà ricordata più per le manifestazioni, che per il suo decimo anniversario. Ma procediamo con ordine: durante l’inaugurazione della Conferenza, un nutrito gruppo di persone sieropositive e non, ha rumorosamente interrotto [ qui il video della protesta ] la lecture di Filippo von Schloesser, con fischietti, agitando i barattoli dei propri farmaci antiretrovirali, con trombe da stadio, portando la propria preoccupazione per un sistema sanitario che, di taglio in taglio, è sempre meno in grado di garantire una assistenza adeguata alle esigenze delle persone sieropositive. In ormai numerosi centri clinici è scomparso l’infettivologo di riferimento e ci troviamo ad essere seguiti dal reparto, ossia dal medico che è in turno il giorno della visita. Anche a chi scrive è capitato di trovare personale che non aveva la benché minima idea del mio percorso sanitario, che chiedeva a me il motivo di alcune analisi, rendendo evidente il fatto che non ci fosse nessuna preparazione alla visita di un paziente ignoto. In alcuni centri clinici sono i pazienti a dover sollecitare analisi e esami per monitorare o prevenire l’insorgenza di problemi clinici aggiuntivi. Le nuove terapie consentono oggi di sopprimere la carica virale di Hiv rendendoci non infettivi (altro tema che vanta 10 anni di studi, ma su cui Simit latita). Questo può permettere una buona qualità della vita e ha importanti ricadute sul piano della prevenzione. Per ottenere questo risultato, però, devono essere garantiti adeguati standard di assistenza e cura che i tagli imposti alla spesa e la conseguente contrazione dei servizi, rischiano di compromettere. La risposta italiana a questi problemi sta nel Piano Nazionale Aids. Approvato dal Ministero della Salute e dalla Conferenza Stato-Regioni, il Piano prevede interventi per rendere il percorso di cura delle persone con Hiv più efficace e in linea con gli obiettivi terapeutici. Ma non è stato previsto neppure un euro di finanziamento per tale Piano nazionale. Come associazioni abbiamo chiesto con forza che Piano sia finanziato, come atto dovuto perché questo documento di indirizzo possa essere introdotto nella pratica clinica. Noi persone con HIV, infatti, siamo portatrici di alte e specifiche esigenze di salute in ragione della complessità della cura, della particolare vulnerabilità sociale a partire dalla discriminazione, del progressivo invecchiamento spesso anticipato dall’azione del virus e della possibile insorgenza di gravi patologie concomitanti. I tagli rischiano di riportare l’orologio indietro di vent’anni. Altro tema critico è l’indebolimento del ruolo del medico infettivologo che andrebbe anzi rafforzato e reso protagonista, “regista”, del rapporto con altri specialisti per un approccio multidisciplinare alla salute del paziente.
Ma c’è di più, ed è il motivo della seconda protesta effettuata durante l’ultima plenaria della conferenza Icar [ qui il video della protesta ], alla presenza di un ospite internazionale di assoluto prestigio il dott. Molina, i cui studi hanno portato la Francia all’adozione della PrEP come strumento di prevenzione distribuito gratuitamente, a carico del sistema sanitario, alla popolazione esposta al rischio di contagio. La PrEP è una realtà con solide basi scientifiche da diversi anni ormai. Purtroppo in Italia abbiamo registrato infiniti ritardi da parte della politica, delle istituzioni di area sanitaria, della stessa classe medica che, come ha confermato il Presidente di Simit, non ha una posizione unitaria sulla PrEP a causa dell’atteggiamento moralista di alcuni suoi componenti… nel frattempo le persone si contagiano. Abbiamo quindi alzato nuovamente i nostri cartelli, lanciato lo slogan PrEP now, access for all, perché è davvero assurdo respingere uno strumento efficace nella lotta contro HIV, sulla scorta di motivazioni decisamente più vicine allo stigma che alla scienza. In tutto questo voglio sottolineare l’impegno dei 20 volontari di Plus che sono scesi a Roma, hanno realizzati i cartelli, hanno protestato, uniti. Anche grazie a queste persone, c’è speranza di farla finita con l’Aids entro il 2030, come ha annunciato l’OMS.
In una Parigi piovosa e un po’ cupa, dove sembra che tutti si attendano un attentato da un momento all’altro ma nessuno osa dirlo, si è aperta ufficialmente la ILC (International Liver Conference) 2018, organizzata dalla EASL, l’associazione europea per gli studi sul fegato. Una conferenza fra le più importanti al mondo e lo si vede dai numeri: 10.000 epatologi da oltre 120 paesi del pianeta. Nella top 10 dei partecipanti figurano in testa gli statunitensi, ma sono presenti in forze ovviamente i francesi, i tedeschi, gli inglesi e gli italiani (con ben 468 partecipanti), ma sono presenti anche specialisti dalla Cina e dall’Egitto. Dei 2761 abstract presentati, ne sono stati accettati 1750 (1542 poster e 208 presentazioni orali). Sul piano organizzativo quest’anno la ILC è stata dotata di una veste nuova che va nella direzione della multidisciplinarità e dall’interazione: le sessioni mattutine (alle 7,30!) “Breakfast morning rounds” sono una opportunità per affrontare in maniera meno formale e molto pratico, temi solitamente impegnativi (per esempio le complicanze comuni su un fegato cirrotico). Chiaramente più adatta a specialisti o specializzandi che alla advocacy; la serie di incontri “Meet the expert”, le sessioni sul trapianto, così come le sessioni organizzate in collaborazione con EASD (Associazione Europea per gli studi sul diabete) e ESMO (Società Europea per l’oncologia medica), completano l’elenco delle novità. Veste nuova che da la misura di come l’orizzonte della ricerca sul fegato si stia ampliando verso nuove mete. In effetti gli studi presentati spaziano su vari temi: alcool, cirrosi, sanità pubblica, epatiti virali (ormai più attenzione sul ritorno della B – tanto per dire cosa conta avere un vaccino se non lo si usa – più che sulla C), NAFLD (Non-alcoholic fatty liver disease), epatocarcinoma (HCC – rispetto al quale è opinione comune che il trattamento efficace sulla HCV, non abbia nulla a che spartire con la HCC che in rari casi compare dopo), infezioni rare del fegato. Dalla presentazione delle sessioni della conferenza, emergono due strutture che non conoscevo: la EASL International Liver Foundation – una fondazione interessante che potremmo contattare per eventuali collaborazioni – e la ELPA, European Liver Patient’s Association, rete di associazioni di pazienti di fa parte l’italiana Epac. Per non parlare della World Hepatitis Alliance organizzazione globale molto impegnata sul tema della lotta contro la discriminazione, dove per l’Italia è sempre presente Epac. Detto questo non posso non notare che alcuni vecchie modalità tipiche di questo tipo di conferenze, sulle infezioni del fegato, sono rimaste. Diversamente dagli infettivologi, abituati da 30 anni di conferenze su HIV a descrivere una visione di insieme della lotta contro il virus e spesso ad inquadrare in tale visione politica i risultati dello studio presentato, i gastroenterologi tendono a declinare in modo didascalico gli eventi e gli esiti degli studi. In questa conferenza sono stati addirittura messi in plenaria temi sui quali non c’è sostanzialmente nulla di nuovo da dire. Penso a HDV e HEV temi piazzati in plenaria, dove la notizia più importante era il passaggio a fase II di alcuni studi che riguardano le due infezioni epatiche, nessun nuovo farmaco, dati discreti su interferone, ecc. Perfino nella plenaria più importante, quella della inaugurazione, è stato piazzato un enorme studio multicentrico, su ben 3 continenti, sulle infezioni da batteri multi-resistenti in pazienti cirrotici. Una situazione, come è facile immaginare, molto articolata. Nonostante la vastità dello studio e degli arruolati, la conclusione finale dello studio globale è stata sono necessari altri studi… Per ora l’unica novità è la presentazione (cui farà seguito la pubblicazione) delle linee guida relative a buona parte delle infezioni o malattie del fegato, presto saranno completate e pubblicate le mancanti che già sono annunciate. Oggi, mentre camminavo per gli stand, la hostess di una piccola azienda di macchine per effettuare test, mi ha donato un piccolo fegato di gomma antistress… una di quelle cose che se le stringi in mano ti passa lo stess. Dubito che sia utile in caso di diagnosi di HCV, ma si può tentare.
Il 30 gennaio 2008 gli esperti della Commissione federale svizzera per l’Aids affermarono per la prima volta che una persona sieropositiva in terapia efficace non può trasmettere il virus. Questo il nocciolo della cosiddetta “dichiarazione svizzera” a firma EKAF (Eidgenössische Kommission für Aids-Fragen der Schweiz), rinominata nel 2012 EKSG, Commissione confederale svizzera per la salute sessuale.
Il gruppo di studiosi capeggiato da Pietro Vernazza (nella foto) pubblicò una serie di dati, non corposissima, a sostegno di questa tesi poi confermata da ampi studi successivi. Che il raggiungimento dello status di “undetectable”, con la viremia stabilmente non rilevabile sotto le 50 copie per millilitro cubo di sangue, fosse sinonimo di non contagiosità era ormai una speculazione frequente in ambito infettivologico. A partire dal 1996 l’introduzione della classe degli inibitori della proteasi aveva condotto a un nuovo standard terapeutico, con tre principi attivi: la cosiddetta HAART, highly active antiretroviral therapy, oggi semplicemente ART. Stiamo parlando della terapia efficace che ha salvato e continua a salvare decine di milioni di vite, garantendo livelli di salute e di qualità di vita del tutto paragonabili a quelli delle persone sieronegative. Come funziona questa terapia? Semplice: abbatte la quantità di virus nel corpo e lo tiene in scacco, impedendo la replicazione.
La dichiarazione svizzera rappresentò un primo, portentoso lancio del cuore oltre l’ostacolo. Presentandosi come un “parere di esperto” che passava in rassegna più di 25 piccoli studi (su coppie sierodiscordanti in gran parte eterosessuali, o donne sieropositive incinte), lo statement fu un’affermazione clamorosa per l’epoca, autentico spartiacque non solo scientifico ma anche sociale. Contiene infatti il nocciolo della principale strategia antistigma tesa a cambiare il volto della sieropositività.
Gli esperti svizzeri individuarono tre punti in presenza dei quali era ragionevole dire che una persona sieropositiva non fosse in grado di trasmettere il virus: l’aderenza a una terapia antiretrovirale efficace, una viremia non rilevabile da almeno sei mesi e l’assenza di ulteriori infezioni sessualmente trasmissibili capaci di “dare una mano” ad Hiv. Col passare del tempo il terzo punto, inserito a mo’ di clausola precauzionale, è stato di fatto depennato dai risultati dello studio PARTNER. Tradotto: una persona sieropositiva trattata che contrae la gonorrea può trasmettere la gonorrea, ma non l’Hiv.
Sono passati esattamente dieci anni dalla dichiarazione svizzera. Venti dalla prima coorte di donne incinte sottoposte a terapia triplice (coorte di San Francisco, Beckerman K. et al.). Sette dalla pubblicazione dei dati dello studio HPTN 052, il primo a indagare la correttezza delle affermazioni di Vernazza e colleghi. Due da quelli, straordinari pur nella loro parzialità, dello studio PARTNER che ha seguito 548 coppie sierodiscordanti eterosessuali, 340 omosessuali, ha registrato 58.000 rapporti penetrativi senza profilattico e rilevato zero trasmissioni. Sono questi gli “hard facts” della TasP, il trattamento come prevenzione, una colonna del nuovo approccio combinato contro l’Hiv insieme al condom e alla PrEP.
Gli studi proseguono, e sappiamo bene che zero trasmissioni non significano, in termini rigorosamente scientifici, zero possibilità di trasmissione. In campo scientifico non esiste un bianco e nero manicheo. Ma a fronte di dati così ampi e omogenei è necessario condensare un messaggio pragmatico da lanciare alla popolazione, e questo messaggio è che nella vita reale una persona sieropositiva stabilmente in terapia non trasmette il virus. Plus è stata una delle prime associazioni a ideare una campagna centrata su questo tema: Positivo ma non infettivo risale al giugno 2015. Sul finire del 2017 anche la Lila, con Noi possiamo, ha trasformato in uno slogan il messaggio liberatorio della TasP. A livello globale, il 2016 ha segnato l’avvio della campagna U=U (undetectable = untransmittable) sottoscritta da centinaia di associazioni e da 34 Paesi.
Purtroppo, come sottolinea un sondaggio ministeriale condotto in Germania nel 2017, il 90% della popolazione resta all’oscuro di questa informazione fondamentale. Chissà quale sia la percentuale nel nostro Paese… La difficoltà di comunicare senza intoppi un messaggio in apparenza contraddittorio (che una persona con un’infezione sessualmente trasmissibile non possa trasmetterla in alcun modo, a cominciare dal sesso) non deve scoraggiarci. Dalla nostra abbiamo i dati, la scienza, una certezza che nessuna opinione può mettere in dubbio. E abbiamo soprattutto l’energia di chi vuole mettere la parola fine a cliché vecchi di decenni. A cominciare da quelli che circolano tuttora nella nostra comunità.
Come ha detto Bruce Richman, fondatore della campagna U=U, la sopravvalutazione del “pericolo” rappresentato da chi vive con Hiv equivale a un atto di violenza nei nostri confronti. Un atto di violenza oggi inaccettabile nella sua gratuità. La nostra risposta è serena, e basata sui fatti.
Dieci anni or sono, il 30 gennaio 2008, la Commissione svizzera diramò un messaggio coraggioso, rivelatosi giusto: una persona sieropositiva in terapia efficace non può, ripeto non può, trasmettere il virus dell’Hiv.
In occasione del 1 dicembre 2017 (Giornata mondiale per la lotta contro l’Aids), l’associazione Plus riprende la campagna di prevenzione “Pillole di buon sesso”, rivolta sia a persone sieronegative, sia a persone sieropositive.
Le pillole sono i farmaci antiretrovirali nei loro diversi usi, e la campagna si concentra su due strategie di comprovata efficacia, da associare a quelle già esistenti principalmente basate sull’uso del condom:
TasP è la sigla che indica la “terapia come prevenzione”. Si basa su un concetto semplice: se la quantità di virus in una persona con Hiv è drasticamente ridotta dai farmaci, non si trasmette l’infezione ad altri. Riprendendo lo slogan lanciato da Plus nel 2015: Positivo non infettivo. La TasP aiuta le persone con Hiv a non considerarsi pericolose per gli altri. E chi non ha l’Hiv può comprendere che fare sesso con una persona in TasP è una delle opzioni più sicure per restare negativi!
PrEP sta per “profilassi pre-esposizione”. È un modo perché le persone sieronegative possano ridurre sensibilmente le possibilità di contrarre l’Hiv. Consiste nel prendere quotidianamente una pillola che contiene due farmaci antiretrovirali. In due parole: Negativo non infettabile. In Italia è possibile acquistarla in farmacia con la prescrizione dell’infettivologo. Sono finalmente arrivati anche i farmaci generici, ma hanno ancora un costo troppo elevato (115€ a scatola) per garantire un’aderenza adeguata. Detto questo è importante fare informazione e accedere a ogni risorsa disponibile contro l’infezione!
Lo scorso dicembre, Plus ha lanciato la campagna Fallo come vuoi, che metteva sullo stesso piano di efficacia, contro l’Hiv, preservativo, TasP e PrEP. Il motivo di una campagna specifica sulle «pillole di buon sesso» è semplice: della TasP si parla ancora troppo poco, malgrado sia una realtà da molti anni. Quanto alla PrEP, implementata con successo in svariati Paesi europei, manca ancora la volontà politica di renderla accessibile in Italia, dove la barriera del prezzo costringe gli interessati a rimediarla per vie illegali, senza supervisione medica. È ora che l’intera gamma delle risorse disponibili per combattere l’Hiv sia nota e resa disponibile a tutti, così che sia possibile effettuare una scelta consapevole, utilizzando in modo integrato le varie modalità di prevenzione. Dobbiamo stringere un patto sociale per invertire i dati epidemiologici e debellare l’epidemia. È ora di usare il buon senso per affrontare un tema, quello dell’Hiv, troppo spesso appannaggio del giornalismo scandalistico e di teorie irrazionali. In occasione del 1 dicembre, il BLQ Checkpoint sarà aperto dalle 18 alle 21 per effettuare il test per HIV e per l’epatite C. Per informazioni e prenotazioni è possibile telefonare allo 0514211857 (martedì e giovedì dalle 18 alle 21), oppure scrivere a prenota@blqcheckpoint.it. Come sempre, le persone che effettueranno i test riceveranno condom, lubrificante e potranno avere la possibilità di un counselling con persone qualificate.
Se una persona senza una particolare preparazione dovesse leggere certe dichiarazioni che appaiono con allarmante frequenza su Facebook, sarebbe naturalmente indotta a credere che la PrEP è una pazzia frutto del delirio se non, come è stato scritto, degli interessi miei personali o dell’associazione Plus. Il che ovviamente è completamente destituito di ogni verità, nonché di qualunque base scientifica… si perché Plus è abituata a ragionare sulla base dei risultati degli studi scientifici, non delle farneticazioni di un qualunque tizio che si vuole impropriamente accreditare come interlocutore. Chiariamo anche la faccenda degli interessi, che è stata lasciata intendere su alcuni post su Facebook: sono un lavoratore dipendente di una impresa di ristorazione leader in Italia ma certamente non una multinazionale, mi si applica il contratto nazionale del turismo i cui minimi salariali sono pubblicati per cui potete tranquillamente andare a vedere che cosa guadagno come secondo livello; non sono a libro paga di nessuna multinazionale… magari, sicuramente avrei un salario diverso. Plus, l’associazione di cui sono Presidente e che non è una costola di Arcigay, ha partecipato ai bandi di alcune multinazionali del farmaco, così come di fondazioni, e abbiamo ricevuto finanziamenti per alcuni progetti. Come hanno fatto pressoché tutte le associazioni sia di lotta contro l’HIV/Aids, sia sociali. Per informazione dei piccoli geni dello scandalismo, Gilead ha bloccato tutti gli studi sulla PrEP con Truvada in Europa, quindi Plus non ha fondi da Gilead per la PrEP. Del resto il brevetto su Truvada sta per scadere e Gilead fa decisamente i suoi interessi, purtroppo. Il massimo che abbiamo ottenuto da Gilead, è un finanziamento teso a proporre test per le infezioni a trasmissione sessuale alle persone esposte per via di comportamenti a rischio, o alle persone che asseriscono, per esempio sui social gay, di essere in PrEP. I test per le IST vanno bene spero, no?
Ma andiamo avanti. PrEP è ormai una realtà a livello globale e anche in Europa… è mai possibile che siano tutti folli? Alcuni esempi:
Rachel Baggaley, è una funzionaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, in inglese WHO), coordina progetti relativi alle attività di testing e di prevenzione di HIV. Alla conferenza mondiale Aids (IAS 2017) di Parigi ha portato una relazione non tesa a dimostrare che la PrEP funziona, ma indirizzata a migliorare la promozione della PrEP. In effetti, nel caso fosse sfuggito, l’OMS promuove la PrEP. PrEP Facts è uno dei tanti gruppi Facebook basati negli USA, ma dove sono presenti utenti da diversi Paesi inclusa l’Italia. E’ gestito principalmente da utenti evoluti, con esperienza di PreP, che danno suggerimenti e consigli su base scientifica e in base alle varie esperienze che, negli anni, gli stessi utenti hanno fatto. Ovviamente senza mai rubare spazio al medico. I membri di questo gruppo sono oltre 18.000, e non ho mai letto una sola polemica o giudizio sulle scelte degli altri (per definizione degli altri. Cit.). Tutte le domande ricevono risposte adeguate, con rimandi alle fonti. Noi abbiamo aperto il gruppo Prep in italia, ma ovviamente siamo solo all’inizio. EMA, European Medicine Agency, ha approvato l’uso di Truvada per la PrEP. L’agenzia del farmaco italiana, Aifa, ha agito di conseguenza. Non è vero che la PrEP in Italia non è consentita. EATG, European Aids Treatment Group, storico gruppo europeo di attivisti nella lotta contro l’Aids, insiste affinché la PrEP sia disponibile in Europa e accessibile a tutti coloro che sono a rischio di contagio da HIV. Dopo tutto quelli di EATG sono sieropositivi, che gliene frega a loro? Del resto lo stesso possiamo dire per Plus in Italia. A loro, e a noi, frega, perché sappiamo che cosa vuol dire ricevere una diagnosi di HIV e sappiamo cosa vuol dire evitarla con la prevenzione, tutta la prevenzione. Non solo “quella che ho scelto io”. Lo facciamo perché siamo un gruppo di advocacy, perché siamo attivisti e non dei pirla che si perdono in chiacchiere. Infatti anche lo scorso aprile EATG ha inviato una lettera al sig. John F Milligan, amministratore delegato di Gilead Science, perché Truvada o un equivalente generico sia disponibile in Europa. Dopo i due grandi studi europei sulla PrEP, Ipergay e Proud, uno dopo l’altro tutti gli stati dell’Unione stanno ragionando sul tema a livello istituzionale, Italia inclusa. In alcuni Stati la PrEP è già una realtà, da ultima la Svezia ha rilasciato un documento che propone di adottarla. Da quasi due anni la Francia ha un programma di PrEP pubblico, gratuito e alla conferenza italiana Aids (ICAR 2017), i ricercatori francesi che hanno portato i primi dati come contributo (visto che in Italia non è stato possibile fare uno studio con Truvada grazie alla nostra lentezza strutturale da un lato, al blocco di Gilead dall’altro). I francesi hanno raccontato che molti italiani si recano a Marsiglia per prendere la PrEP (e anche gel lubrificante monouso: “ma non lo avete in Italia?”, giusto per rimarcare l’ennesima figura di merda). Quindi la PrEP in Italia è già un fatto. Ed è un fatto che la situazione ci sta sfuggendo di mano perché, al solito, preferiamo fingere di non sapere. Davvero gli ostinati contrari che scrivono sciocchezze su testate online, credono che la gente si faccia influenzare da chi insiste sull’uso del solo preservativo come unico strumento definito “sicuro” anche di recente in un articolo che non cito per non dare spazio all’ignoranza? Davvero crediamo che, nell’era di internet e del commercio online, a nessun italiano sia venuto in mente di comprare un generico equivalente laddove viene prodotto, a prezzi notevolmente inferiori rispetto al farmaco brand? Vogliamo davvero lasciare soli gli italiani a gestire questo passaggio, soli nella posologia e modalità di assunzione, senza controlli e test sulle eventuali altre infezioni a trasmissione sessuale che, se non diagnosticate per non ammettere di essere in PrEP presa di straforo, possono portare conseguenze anche serie? La nostra lentezza nell’agire ci sta portando verso quella direzione. Parliamo di un processo già in essere che va gestito sia dai centri clinici, sia, soprattutto, dalle associazioni che hanno la possibilità di svolgere un ruolo centrale nell’orientare la popolazione di riferimento. Purtroppo oggi alcune associazioni tacciono per prudenza, non si comprende in base a quali dati, o insistono che tutti devono usare il condom. Come sia possibile non lo so… a chi non lo usa che facciamo? Lavaggio del cervello, ipnosi, fusione direttamente sul pene? Inoltre il pregiudizio fa si che partano dall’assunto che la PrEP sia alternativa al condom, il che non è. O non è sempre così. Nel gruppo PrEP Facts di cui ho scritto sopra, ho letto moltissime testimonianze di ragazzi gay in PrEP che continuano ad utilizzare il condom senza problemi, ma grazie alla pillola hanno una serenità mai avuta prima e vivono molto più intensamente la propria vita sessuale, perché sanno che qualunque problema possa capitare con il preservativo (che si può rompere, sfilare, oggi poi c’è la “moda” orrenda di toglierlo senza chiedere il permesso al partner), c’è l’ulteriore scudo della PrEP. Al punto che il ragazzo in questione aveva chiamato il suo post: nuovo effetto collaterale della PreP: serenità. Il tema della serenità è molto presente anche nei counselling che facciamo al BLQ Checkpoint. Non si contano le persone che vengono a fare il test in preda ad un terribile stato d’ansia per mille motivi. Nessuno sano di mente sosterrà, qui e ora, che la PrEP è l’unica arma vincente contro HIV, che la PrEP è l’unica forma di prevenzione vincente e così via. PrEP è una delle possibili forme di prevenzione ad HIV. E’ una scelta possibile e lo è grazie alla ricerca scientifica, non certo a motivo della mia opinione. La PrEP funziona per chi la sceglie consapevolmente, dietro consiglio del medico e tenendo sotto controllo le IST. È una scelta, e come tutte le scelte riguarda solo la persona che la prende. I giudizi e soprattutto i pregiudizi, sono decisamente fuori luogo.
Dalla nona IAS Conference on HIV Science dove, guarda un po’, si parla anche di PrEP che per gli scienziati e i ricercatori qui riuniti, va implementata… quali stranezze si celeranno mai dietro queste scelte? Andiamo a vedere. Dopo le contestazioni della Presidente della IAS prima e della Ministra della Salute di Francia operate da attivisti africani e di Act Up Paris, di cui ho dato conto direttamente sulla pagina di Plus Onlus su Facebook, la successiva plenaria inizia con una sessione sul rafforzamento del sistema immunitario perché abbatta Hiv. Vaccini siamo ancora a modelli animali, scimmie e topi, dati interessanti che lasciano sperare ma è presto per ragionarci soprattutto conoscendo il “mercato” italiano dei social. Il ricercatore analizza vari modelli e strumenti biologici, per giungere alla conclusione che, in assenza di un vaccino terapeutico ad alta efficacia, è ancora necessaria una combinazione di trattamenti per tenere stabilmente sotto controllo la replicazione virale. Wafaa El-Sadr, una ricercatrice della Columbia University, ci parla della centralità delle persone con Hiv nei programmi di salute pubblica e di controllo dell’epidemia. Descrive una situazione ancora pesante per quanto attiene ai morti per AIDS (oltre un milione all’anno), agli anni di aspettativa di vita persi dalle persone sieropositive che iniziano la terapia quando possibile. Mette l’accento sulla necessità di trovare le persone con Hiv che ignorano si esserlo, metterle in trattamento anti-retrovirale, ma oggi 33 milioni di persone ancora attendono di poter accedere ai farmaci. L’obiettivo 90-90-90 di UNaids (90% delle persone con HIV diagnosticate, 90% delle persone diagnosticate in terapia, 90% delle persone in trattamento con viremia soppressa), è ancora molto lontano sul piano globale. La slide che ci presenta mostra una serie di gap ancora da colmare: 7,5 milioni di persone ancora da raggiungere per il primo 90, oltre 10 milioni per il secondo 90, quasi 11 milioni per il terzo 90. L’obiettivo di UNaids prevede la data limite del 2020 per cui il lavoro da fare è ancora molto. L’obiettivo è ancora più lontano, drammaticamente lontano se guardiamo ai dati delle popolazioni chiave come i gay a Mosca dove, grazie alle pesanti discriminazioni subite dal governo di Putin, la situazione è gravissima: solo il 13% degli MSM sa di essere sieropositivo, a scendere la “cascade” è da paura… tanto per sottolineare quanto peso hanno le politica da nazisti che i russi mettono in pratica nei confronti della popolazione MSM, in barba a tutte i richiami e le evidenze scientifiche.
Sheena McCormack, la ricercatrice responsabile, fra l’altro, dello studio britannico “Proud” sulla PrEP, ci spiega l’importanza di introdurre la D di droghe nell’ABC della prevenzione. Inizia con una pessima citazione dell’ABC di Bush, passa per i risultati incredibili ottenuti nel 2000 con la sola circoncisione maschile, alla haart i cui risultati li conosciamo tutti… o no?, alla PrEP con il primo studio Iprex, lo studio hptn 52 sulla non trasmissibilità di Hiv in soppressione virale. Un viaggio lungo e faticoso, costellato purtroppo di tanti compagni di strada che non ce l’hanno fatta, ma anche un viaggio che sta lentamente portando ai risultati cercati. Un viaggio che per la McCormack, e forse anche per la parte più evoluta della comunità MSM, è ormai storia. E’ ormai ora di andare avanti e cercare ancora di migliorare l’attuale situazione. Cosa che in Italia, stante il perdurare di una situazione bloccata sia sul piano culturale, sia sul piano economico, è ancora largamente sul piano dell’immaginario. Ovviamente parla anche della storica sessione del CROI 2015 dove vennero mostrati i dati degli studi su PrEP: braccio senza PrEP registra un alto tasso di casi di HIV, 9%. Il braccio con PrEP registra una efficacia dell’86%. Sarebbe stata più alta, se le tre persone che hanno sieroconvertito nonostante la PrEP avessero assunto il farmaco, cosa che non avevano fatto. Passa quindi a illustrare i nuovi studi che stanno venendo avanti. Uno studio interessante, anche se non pienamente riuscito, ha tentato di mettere in PrEP con tenofovir gli IDU (Injection Drug User) e ha raggiunto una efficacia del 49%, pertanto la strategia di riduzione del rischio resta lo scambio di siringhe anche se viene suggerita una integrazione delle due strategie laddove l’incidenza sia molto alta. Sono anche stati valutati in alcuni studi i sistemi migliori per smettere di assumere la PrEP. I suggerimenti derivati dagli studi pubblicati, vanno della direzione di diversificare i tempi in base al tipo di pratiche sessuali. Per cui in caso di sesso penetrativo anale, la PrEP va assunta giornalmente per i 2 giorni dopo l’ultimo rapporto a rischio, in caso di sesso vaginale per 7 giorni. Cita anche gli studi in corso sul Cabotegravir a lunga durata (4500 arruolati nel mondo – ma nessuno in Italia ovviamente), che potrebbero portare ad assumere il farmaco una volta al mese se non ogni due, ma è ancora presto per giungere a conclusioni su questo tema, lo cito solo perché sia chiaro come tutti gli attori che operano nel tema della prevenzione si stanno interessando alla PrEP come arma in più che va a coprire quella parte di popolazione che per varie ragioni è più a rischio di altre. Un’altra opportunità potrebbe arrivare dagli studi sugli impianti sottopelle a lento rilascio, che potrebbero dare importanti contributi anche in termini di prevenzione; viene anche citato lo studio Discover che vede anche l’Italia coinvolta sia pur con un contributi irrisorio in termini di arruolati. E’ uno studio di non inferiorità sulla nuova formulazione del tenofovir che si chiama Taf. Se funzionerà anche in PrEP lo vedremo alla fino dello studio che ha arruolato 5400 persone nel mondo. Quando si dice la potenza economica… in compenso Gilead ha bloccato tutti gli studi su Truvada in Europa, credo di sentire gli applausi di HIV… mah! La McCormack mostra anche slide relative all’andamento epidemiologico di clamidia, gonorrea e di HIV. Nella prima slide, i numeri di test (linea punteggiata) e numero di diagnosi per la clamidia (barre verticali). Come si vede, il numero di diagnosi va di pari passo con il numero di test, segno che probabilmente prima dell’ingresso della PrEP avevamo meno diagnosi perché testavamo di meno. Nella seconda slide stessi valori ma per la gonorrea, malattia che ha un decorso “più facile” da fermare e per la quale informare i partner e facilitare il fatto che si curino, aiuta a ridurre il numero di trasmissioni; sono quindi stati promossi test a tappeto e si può vedere una diminuzione di nuovi casi. Stessa cosa può accadere con HIV, come testimoniano i dati inglesi della terza slide. In altre parole, l’incremento di casi di IST che si vedono implementando la PrEP, dipendono in larga misura da un maggior ricorso ai test e che alla lunga questo può portare addirittura a ridurre il numero di casi per alcune infezioni.
Detto questo è del tutto evidente che la PrEP non è in nessun caso un obbligo. La PrEP è una delle possibili scelte perché di questo si tratta: effettuare una scelta adatta alla propria condizione, che può variare di momento in momento della propria vita. Una scelta tesa a prendere il controllo della situazione e evitare l’infezione da HIV. In tutto questo la D di drug, farmaci in inglese, può essere aggiunta all’”ABC”, alle basi della prevenzione per tenere sotto controllo HIV… e possibilmente il più lontano possibile. Il tutto questo è chiaro anche agli scienziati della IAS che il peso della comunità è fondamentale. Senza le persone direttamente interessate non si va da nessuna parte. La sessione dal titolo “Prepping MSM” dove forte è stata la presenza e l’esperienza della comunità MSM e, sorpresa, non solo dagli USA. L’esperienza della Thailandia infatti è stata di grande ispirazione. Con vari tipi di interventi ispirati più che altro alle necessità insite nelle popolazioni chiavi a cui appunto gli interventi facevano riferimento, la Thailandia implementa la PrEP dal 2015! Hanno effettuato un’analisi della percezione del rischio e dell’attitudine verso la PrEP fra gli MSM e le donne transgender. Molto evidence based l’appoggio del loro intervento (hanno per esempio lavorato molto sull’analisi della percezione del rischio), ma gli outcome sono decisamente community oriented: il “Princess PrEP programme” mirato alle donne transgender e MSM, già il nome è tutto un programma, è stato fatto dalla comunità e con il suo supporto… già immagino la lotta per il titolo di regina. Ma anche il Thailandia non tutto è filato liscio, non ci sono stati casi di HIV in effetti ma circa un quinto delle donne trans del campione non voleva assumere altre pillole, quindi potrebbero essere utili altre modalità di assunzione del farmaco; il tasso di mantenimento delle persone nel controllo medico necessario è stato basso, da qui la necessità di un reminder personalizzato per ogni aderente al progetto, ecc. Come vedete sempre nella logica di analisi del reale e di possibili soluzioni sempre orientate al benessere della comunità. È intervenuto direttamente anche un utente, evoluto ma pur sempre utente, in PrEP da 3 mesi. Un ragazzo MSM di 25 anni residente a Bangkok, che resto dichiara di usare sempre il preservativo durante i rapporti penetrativi anali… l’italiano gay medio già chiederebbe perché mai allora è in PrEP? Perché nella sua personale percezione del rischio vede comunque un pericolo, rottura del condom, sfilamento, stealthing, per cui non si sente tranquillo e finisce per avere la vita sessuale che vorrebbe. Quindi l’ansia del contagio, una cosa che vediamo ad ogni incontro al BLQ Checkpoint. Quindi il ragazzo ha fatto una lista dei pro e dei contro. Pro: non fiducia completa nel preservativo, ansia dovuta al timore del contagio, fa sesso occasionale, si percepisce come a rischio. Contro: effetti collaterali a breve termine effetti collaterali a lungo termine il peso dell’assunzione quotidiana (evidentemente a lui non si attaglia quella on demand) il peso delle visite di controllo il costo della PrEP e degli esami di laboratorio. Oggi è in grado di dirci che non ha avuto nessun effetto collaterale al breve termine (di cui tanto si parla, in effetti sono comuni ma non vengono a tutti); ancora usa il condom nei rapporti penetrativi anali; invariata la frequenza dei rapporti sessuali prima della PrEP; sparita la paura del “dopo scopata”. Afferma di avere ancora qualche perplessità sugli effetti di lunga durata, ma ha chiaro che può smettere quando vuole perché non è sieropositivo (e gli eventuali effetti collaterali rientrano). Negli USA la PrEP è implementata da ancora più tempo. Qualcuno ricorderà i miei interventi perplessi dopo l’autorizzazione concessa da FDA a Truvada come PrEP dopo solo 1 singolo studio tutt’altro che definitivo. Però che dire, come spesso accade hanno osato facendo anche di necessità virtù, e hanno avuto ragione i tecnici di FDA perché tutti gli studi successivi hanno confermato i dati dello studio Iprex… appunto il primo. Jim Pickett Aids Foundation Chicago ha portato un fantastico esempio di approccio community based. Basta con l’approccio scientifico, ha detto Jim all’inizio dell’intervento, ormai è chiaro che c’è evidenza scientifica. Ora dobbiamo orientare la comunità che non usa certo la PrEP per far contenta la scienza o le multinazionali. Quindi nuove parole chiave: piacere, intimità, serenità, lussuria, amore, connessione, onestà, desiderio. Quindi una logica tutta incentrata sul bisogno delle persone che scelgono di non accettare i messaggi condom-centrici, il giudizio della gente, la vergogna di fare pratiche che possono portare a discriminazione, ecc. per esaltare gli aspetti positivi così come descritti nella notissima campagna #PrEP4Love dove vengono diffuse parole come amore, carezze, abbracci, calore e non paura, contagio, ecc. Un approccio evoluto, che implicitamente va nella direzione di una vita sessuale adeguata alle esigenze delle persone che sono evidentemente stanche della paura del contagio. Fra l’altro con una campagna che finalmente non mostra i soliti modelli palestrati ma gente vera, con la ciccia e la panzotta, un altro elemento che fa pensare alla quotidianità più che all’evento isolato e che comunque coniuga splendidamente il concetto di piacere sessuale con quello della riduzione del rischio.
Bello vedere che anche la dott.ssa Rachel Baggaley del dipartimento HIV dell’OMS dove segue il settore prevenzione innovativa, va nella stessa direzione e apre il suo intervento con l’immagine di tre ragazzi con PrEP, condom e carica virale non rilevabile, sulla testa. Si chiede Rachel come promuovere, implementare la prevenzione combinata fra gli MSM. Giustamente ci fa notare come l’implementazione della PrEP porta con sé un aumento del numero dei test eseguiti, per HIV e per le altre IST, affrontare il tema dello stigma, educare al tema Tasp, ecc. Anche la sola promozione della PrEP è tutt’altro che semplice: a fronte del caso San Francisco dove l’80% delle persone in PrEP la sono andata a chiedere spontaneamente e una diffusione delle informazioni che arriva al 100% della popolazione interessata, in Australia e in Sud Africa pochissime persone idonee per la PrEP scelgono di assumerla, restando ovviamente nel rischio di contagio. L’OMS ha quindi preparato un opuscolo con una serie di suggerimenti per promuovere e integrare le nuove forme di prevenzione, chiarendo nel contempo che PrEP non è solo uno strumento bio-medicale ma anche bio-comportamentale ed è in questa direzione che devono andare i servizi offerti alla popolazione MSM. Nell’offerta della PrEP alle persone ad elevato rischio di contagio, l’approccio deve mettere al centro la persona in una logica di salute pubblica e di diritti umani, non certo di giudizio, isolamento, discriminazione e stigma… con questi quattro regaliamo anni di vita ad HIV.
Sandro Mattioli Plus Onlus Presidente
La partecipazione di Plus Onlus alla IAS Conference 2017 è stata resa possibile grazie a un contributo non condizionato di ViiV Healthcare.