Qualunque persona affetta da una qualsiasi patologia vuole guarire. Perfino quelli segnati dal destino, di solito lottano. Le prime persone colpite da HIV spesso provavano su sé stessi qualsiasi prodotto, farmaco, radice che potesse irrobustire il sistema immunitario e magari guadagnare qualche mese di vita.
Come sostengo ormai da anni, HIV non è finito. Abbiamo scelto di credere che le attuali armi che la scienza ci ha messo a disposizione siano risolutive, ma non è così.
Abbiamo guadagnato anni, anche decenni, di vita (il che non è poco!) ma HIV è ancora li. Se oggi i farmaci ARV hanno bloccato la progressione verso la fase avanzata della malattia impedendo la realizzazione del deficit immunitario che infiniti addusse lutti, abbiamo HIV ancora presente nel corpo, malconcio ma ancora capace di qualche azione replicativa sia pur residuale, ancora in grado di produrre qualche enzima anche se defettivo. La sola presenza di HIV o dei suoi “scarti di produzione” attiva il sistema immunitario che avvia il normale processo infiammatorio quello si cronico, e sistemico. Ottimo, penserà qualcuno, così saremo super protetti. No carə, non funziona così. Il sistema immunitario va attivato on demand – come la PrEP – se è sempre attivo alla lunga causa danni al nostro corpo, al cervello, al cuore, alle ossa, a fegato, reni. Non è per caso che sempre più studi scientifici ci parlano di invecchiamento accelerato delle persone con HIV, da non confondersi con il fatto che viviamo più a lungo. Invecchiamento accelerato causato dall’azione di HIV, vuol dire che nella decade dei 60 anni avremo i problemi geriatrici che la popolazione generale ha nei loro 80 a partire dalla sindrome geriatrica.
Un logoramento generale che porta a diagnosi di cancro, in particolare HPV correlato, molto più frequenti rispetto alla popolazione generale.
Non so bene il motivo, ma sembra che noi per primi – attivisti – ci siamo seduti. Ci siamo accontentati, abbiamo smesso di sognare e spingere perché la ricerca affronti questi temi in modo serio. Al contrario sento spesso ricercatori chiedere se vogliamo vivere per sempre. Domanda ovviamente stupida ma comprensibile stante il fatto che siamo noi, non loro, ad avere una patologia a possibile esito infausto, siamo noi a dover insistere perché la scienza ci dia delle risposte.
Sarò strano, ma non mi voglio arrendere. Come ci sono andato io su google a fare una ricerca sul carcinoma all’esofago, ci sarà andato anche Giulio Maria Corbelli. Ma, nonostante le basse percentuali di sopravvivenza, Giulio non si è mai arreso. Nel comunicarmi la diagnosi di cancro, ha subito aggiunto “non ti azzardare a togliermi delle responsabilità”.
Non capirò mai perché per HIV debba diverso. Io voglio guarire, voi?
Chi non capisce il titolo… gli tocca leggere fino alla fine. Eccoci all’ultimo report. Per ragioni logistiche, non c’era il volo, oggi devo partire alle 17,30 ora locale e l’ultima plenaria per qualche strano motivo è stata messa alle 15,30. Quindi oggi mi dedico ai poster abstract che, spesso, riservano delle sorprese.
Inizio con lo studio Framing stigma: a systematic review of cinema‘s HIV narrative between 2015 and 2023 banalmente perché italiano, lo ha inviato un gruppo di ricercatori dell’Università di Sassari: preso atto che stigma e discriminazione sono tra i problemi correlati all’HIV, che il cinema rispecchia la società e potrebbe avere il potere di plasmarla, lo studio approfondisce le rappresentazioni dell’HIV nei film tra il 2015 e il 2023. Hanno esaminato i database “IMDb” e “Themoviedb”, utilizzando i tag “AIDS”/“HIV” e “Film su HIV/AIDS” su Wikipedia. Hanno incluso film interi (≥un’ora) sull’HIV/in cui l’HIV è stato menzionato, in inglese o con sottotitoli in inglese.
Alla fine sono state raccolte le seguenti variabili: numero di persone con HIV (PWH), genere, fattore di rischio per l’acquisizione dell’HIV, presenza di AIDS, condizioni che definiscono l’AIDS, decessi correlati all’HIV, discriminazione/stigmatizzazione nel film/da parte del film stesso, se PrEP, PEP e U=U erano rappresentati, e affidabilità scientifica. Con questo metodo dai 3.060 film di partenza ne hanno selezionati 48. Le donne cisgender e transgender erano rappresentate in 11 (22,9%) e quattro (8,3%) film, rispettivamente. Essere MSM era il fattore di rischio in 30 (62,5%). L’AIDS è stato mostrato in 24 (50%) e in 22 (45,8%) chi ne era colpito, muore. La conclusione a cui arrivano i ragazzi è che Il cinema spesso ritrae l’HIV in modo drammatico, trascurando le possibilità di normalizzarlo. La rarità di PEP, PrEP e U=U sottolinea la necessità di un’ulteriore discussione sul potenziale ruolo del cinema nella sensibilizzazione e nella lotta allo stigma dell’HIV.
La dott.ssa Valentina Mazzotta (in foto) dell’Ist. Spallanzani, con i risultati la ricerca multicentrica ItaPrEP ha ottenuto una presentazione orale. Cosa che ci ha molto piacere perché anche Plus ha partecipato. Il titolo è: HIV pre-exposure prophylaxis (PrEP) efficacy, adherence and persistence in an Italian multicentric access program (Sep2017-Nov2023): ItaPrEP study. Parliamo quindi di uno studio effettuato prima della rimborsabilità del farmaco. Lo studio, ha coinvolto diversi centri clinici e tutti i centri community-based che seguono persone in PrEP, ha evidenziato che grazie alla PrEP il tasso di sieroconversione era inferiore agli studi RCT nelle popolazioni esposte. L’età giovane, basso livello di istruzione e chemsex, oltre a barriere come la mancanza di farmaci gratuiti e monitoraggio sono fondamentali per indirizzare le strategie per migliorare l’implementazione della PrEP.
Un altro studio interessante era: The effectiveness of user-centered demand creation interventions on PrEP initiation among Female Sex Workers (FSW) and Men who have sex with Men (MSM) in Kenya, ossia l’efficacia degli interventi di creazione della domanda incentrati sull’utente nell’avvio della PrEP tra le lavoratrici del sesso (FSW) e gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM) in Kenya. Il Kenya nel 2017 ha lanciato un programma nazionale di ampliamento della PrEP (stesso anno dell’autorizzazione da noi). Il programma non dati i risultati sperati in termini di efficacia, per cui hanno provato a promuovere la PrEP con programmi centrati sulla persona (invece su patologie o burocrazia?) e tesi a far crescere la domanda di PrEP; secondo i dati pubblicati che potete vedere cliccando il link, pare che questo genere di interventi abbiano indotto una crescita nella domanda di PrEP nella popolazione indicata.
Il poster Changes in penile microbiome of South African cis-gender men and transwomen following surgical circumcision, non poteva mancare. Numerosi studi hanno dimostrato che la circoncisione maschile riduce l’acquisizione dell’HIV per quella via, con meccanismi ipotizzati tra cui la riduzione delle cellule bersaglio, la riduzione del tempo di esposizione al virus e la riduzione dell’infiammazione locale mediante modifiche del microbioma dovute all’esposizione all’ossigeno. In pratica hanno cercato di caratterizzare i cambiamenti nei batteri superficiali del glande attraverso tamponi. Lo studio non è grande, solo 29 abitanti di Città del Capo, fra i 18 e i 45 anni che si sono rivolti a una clinica pubblica per la circoncisione. La variazione batterica notata sembra supportare l’ipotesi che l’effetto protettivo della circoncisione sia dato da una ridotta infiammazione da disbiosi batterica anaerobica.
Nello stesso modo non poteva mancare lo studio Cannabidiol prevents mucosal HIV-1 transmission by targeting Langerhans cells, macrophages and T-cells, ossia che il CBD previene l’HIV. Lo studio va a esaminare cellule bersaglio di HIV ed è complicato, ma le conclusioni sono entusiasmanti. I ricercatori arrivano a sostenere “il riposizionamento delle formulazioni contenenti CBD disponibili in commercio come potenziali microbicidi contro la trasmissione dell’HIV-1 della mucosa. Come alternativa all’efficiente Lenacapavir, che tuttavia induce mutazioni di fuga e rimane costoso, il nostro approccio neuro-immunitario basato sul CBD rappresenta una strategia di prevenzione dell’HIV-1 innovativa, conveniente e accessibile”. Lo studio è francese e io già li adoro, ma non li prendo davvero sul serio.
La plenaria di oggi si chiama così… francamente non ho capito il motivo ma va bene lo stesso. Il focus della plenary sono stati gli anticorpi neutralizzanti per cui faticosissima, almeno per me. Tuttavia i relatori sono stati bravi, hanno cercato di spiegare perché puntare su questi “piccoletti”, cosa sono e come funzionano. La prima relazione dal titolo “Discovery an HIV vaccine: the quest continues”, è stata tenuta da Eunice Nduati responsabile di un bellissimo programma di ricerca del Kenya. Ha iniziato spiegando le sfide che pone HIV,
la variabilità di HIV è molto ampia e continua a crescere
fin dall’inizio dell’infezione HIV si integra nel genoma dell’ospite e diventa invisibile per il sistema immunitario
Cose che bene o male conosciamo. Sfide per l’organismo ospite:
gli anticorpi neutralizzanti (bnAbs) hanno caratteristiche insolite.
Questi tratti insoliti sono sfavoriti dal sistema di regolazione immunitaria dell’ospite; durante la replicazione virale, il virus è densamente ricoperto dai polimeri a base di carboidrati dell’ospite che sono scarsamente immunogenici e occludono importanti epitopi, ossia parti di antigeni bersaglio degli anticorpi, con il risultato che HIV va avanti per la sua strada.
I tentativi di trovare una via per realizzare un vaccino sono stati molti negli anni a partire dal 2003, rigorosamente falliti uno dopo l’altro. Tuttavia anche grazie ai fallimenti si è potuto dimostrare che di bnAbs possono proteggere contro HIV. Un po’ come avviene per i farmaci, anche per gli bnAbs sono necessarie più classi di bnAbs perché funzionino e un titolo vaccinale sostenuto per una protezione duratura.
Gli bnAbs sono naturalmente presenti nel corpo umano, ma ci mettono una vita a maturare. Inoltre, per quanto coprano una vasta gamma di infezioni, devono essere correttamente selezionati. Quindi occorre un processo, possibilmente rapido, di selezione e maturazione. Questa cosetta è resa possibile grazie a un percorso complesso, costoso, lungo 10 anni di studi che sono passati per la scoperta degli bnAbs, capirne la struttura biologica e l’interazione antigene-anticorpi, la realizzazione della famosa piattaforma mRNA ha accelerato e facilitato l’interazione, le tecnologie basate su AI, gli studi su differenti popolazioni, la disponibilità di modelli animali da poter confrontare con le sperimentazioni umane. Tutto questo dovrebbe portare a una risposta anticorpale umana contro HIV.
Bei passi in avanti. Laggiù in fondo al tunnel mi sembra di intravvedere una lucciola. Tuttavia per ora continuo ad arredare il tunnel.
La relazione successiva, curata da Elena Giorgi – F. Hutch Cancer Center – ha affrontato il tema dell’envelope ossia l’involucro che racchiude HIV. Questa è la parte che più muta del virus e, quindi molto sfuggente. I clade, ossia i sottotipi virali, già di suo sono parecchi e in più ognuno di essi si suddivide in una miriade di si variazione che vanno incrementandosi negli anni. L’immagine rende abbastanza l’idea: i puntini rappresentano le diversificazioni dell’envelope negli anni per il solo sottotipo B piuttosto comune negli USA. Per capirci, molta differenziazione significa molte mutazione e, quindi, molte resistenze. Sequenziare e studiare queste differenze aiutano gli studi futuri sui vaccini che ovviamente devono tenere conto di tutta questa variabilità.
Lo ammetto, non sono riuscito a far entrare nemmeno una delle associazioni che hanno protestato ieri. Tuttavia, quando ho letto che la dott.ssa Sharonann Lync – Georgetown University – avrebbe tenuto una lecture in plenaria sulle questioni economiche, le patenti, i fondi e la sostenibilità, l’ho avvicinata. Che ho da perdere? Una signora, penso, della community, che mi guarda e mi risponde: of course I’ll do. Aveva già aggiunto una slide, con mio grande piacere. La Lync affronta di petto il tema di ciò che accade dopo che gli studi hanno avuto successo, perché agli enti regolatori non interessa sapere quanto hai speso per quel successo, gli interessa sapere quanto gli costa quel successo. In più ci sono le normative, le licenze, la sostenibilità, l’accesso, il personale, la logistica. ecc. tutti temi che, se non adeguatamente affrontati, comportano forti ritardi nella disponibilità del prodotto… e, aggiungo io, persone che si contagiano.
E parte in quarta con l’esempio del costo della della PrEP.
Negli USA la PrEP orale costa circa 40$, quella iniettiva CAB circa 180$, quella con lenacapavir non si sa ma verosimilmente costerà parecchio di più. I costi alti, la complessità di gestione alta, la community tenuta fuori, ecc. lasciano la scienza fuori dai confini del Paese. E poi bam ecco la slide promessa. Testato in Africa, usato in Sud America, come va a finire il farmaco miracoloso contro HIV (si riferisce a lenacapavir)? Va a finire che le persone trans le comunità indigene si sono prestate alla sperimentazione, banalmente perché cubano percentuali di incidenze altissime in Perù, e poi questo Paese si ritrova escluso dalle licenze gratis o a costi estremamente ridotti. C’è da dire che il numero di persone, 800.000, indicato da Zimbabwe perché inizino al PrEP è superiore all’intera fornitura di CAB LA disponibile nel 2025. Il nuovo farmaco di Gilead è stato presentato come miracoloso e l’aspettativa è alta, così come saranno alte la richiesta di copertura e i costi. Il tema di chi si dovrà far carico di tali costi dovrà essere affrontato quanto prima. Di sicuro non lo potrà fare quella signora con la maglietta gialla.
Un commento sull’immobilismo di IAS lo voglio fare. Sicuramente le comunità indigene in Perù non sono trattate con umanità. Faticano ad avere accesso alla sanità pubblica o anche semplicemente in considerazione. Capisco che IAS non abbia ruolo per prendere posizione contro il Governo del Perù. Tuttavia la signora con la maglietta gialla non stava protestando perché il suo Governo lascia che muoia, protestata perché Gilead ha escluso il Perù dalla licenza per lenacapavir dopo che la sua comunità si era spersa per partecipare allo studio. Capisco che se IAS organizza diverse conferenze all’anno e che Gilead è uno sponsor, ma farvi strozzare il cuore dai cordoni della borsa è davvero inaccettabile. Uno slogan di IAS che campeggia da tempo negli schermi delle sue conferenze è put people first, mettere al centro le persone, lo potete vedere nella foto di fianco. Forse IAS pensa che la comunità indigena del Perù sia composta da paracarri non da persone, forse la signora in giallo non aveva la maglietta giusta non lo so, ma aveva più diritto lei di entrare e dire cosa succede a tutti che non i dirigenti di IAS. Più che “back in the future” mi sembra che “stay in the past” sarebbe stato più adatto.
Anche se la protezione indotta dal vaccino può scemare dopo 36 mesi, il vaccino MenB-4C rimane moderatamente efficace contro la gonorrea.
Il vaccino MenB-4C, un vaccino meningococcico sierogruppo B a membrana vescicale esterna, è moderatamente efficace contro la gonorrea in varie popolazioni, secondo i risultati dello studio pubblicati su The Journal of Infectious Diseases.
I ricercatori hanno condotto una revisione sistematica e una meta-analisi per sintetizzare la letteratura pubblicata sull’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea. Sono stati ricercati nei database manoscritti sottoposti a revisione paritaria pubblicati in inglese tra gennaio 2013 e luglio 2024 che valutassero l’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea e la coinfezione gonorrea/clamidia, nonché la durata della protezione indotta dal vaccino. È stato utilizzato un modello a effetti casuali DerSimonian-Laird per stimare l’efficacia del vaccino combinato contro la gonorrea. Sono stati inclusi nell’analisi 8 articoli in totale, 4 dei quali sono stati condotti negli Stati Uniti, 2 dei quali sono stati condotti in Australia, 1 dei quali è stato condotto in Italia e 1 dei quali è stato condotto in Francia. Le fonti dei dati includevano registri di sorveglianza delle infezioni sessualmente trasmissibili (IST) collegate e registri di sistema informativo di immunizzazione, cartelle cliniche elettroniche e uno studio clinico randomizzato. L’unità di analisi dell’efficacia del vaccino era a livello di persona e di infezione in 5 e 3 studi, rispettivamente.
Le stime dell’efficacia del vaccino contro la gonorrea tra adolescenti e giovani adulti di età compresa tra 15 e 30 anni variavano dal 23% al 47% in 7 studi osservazionali. Due studi hanno dimostrato che 2 dosi di vaccino erano efficaci dal 32% al 33% contro la gonorrea negli adolescenti e nei giovani adulti di età compresa tra 15 e 25 anni. In uno studio su uomini adulti che hanno rapporti sessuali con uomini affetti da HIV e in cura per l’HIV, 2 dosi di vaccino erano efficaci al 44% contro la gonorrea. In un altro studio, 2 dosi contro nessuna dose di vaccino erano efficaci al 40% contro la gonorrea, mentre 1 dose contro nessuna dose di vaccino era efficace al 26%.
Sulla base di 9 stime da 8 studi, l’efficacia complessiva del vaccino contro la gonorrea dopo almeno 1 dose di vaccino era del 32,4% (95% CI, 26,2-38,7). Non è stato osservato alcun bias di pubblicazione o eterogeneità dello studio.
In un’analisi di sensibilità di 7 studi osservazionali, l’efficacia complessiva del vaccino contro la gonorrea dopo almeno 1 dose di vaccino è stata del 33,5% (95% CI, 26,9-40,1). Allo stesso modo, non è stato osservato alcun bias di pubblicazione o eterogeneità dello studio.
Un totale di 4 studi ha valutato l’efficacia del vaccino MenB-4C contro le monoinfezioni gonococciche. Due dosi di vaccino sono state efficaci al 31,6% e al 28,3% contro la monoinfezione secondo 2 studi. Un altro studio ha dimostrato che 2 dosi e 1 dose sono state efficaci rispettivamente al 40% e al 26% contro la monoinfezione. Il quarto studio ha rilevato che almeno 1 dose di vaccino è stata efficace al 23% contro le monoinfezioni.
L’efficacia del vaccino MenB-4C contro la coinfezione da gonorrea/clamidia è stata presa in considerazione in 4 studi. Due studi hanno dimostrato che 2 dosi di vaccino erano efficaci al 32,7% e al 44,7% contro la coinfezione. Altri 2 studi hanno indicato che il vaccino non era efficace contro la coinfezione.
Le limitazioni dello studio includono l’esclusione di articoli non pubblicati in inglese, piccole dimensioni del campione, risultati poco generalizzabili e potenziali bias di segnalazione e classificazione errata.
Secondo 1 studio che ha valutato la durata della protezione di 2 dosi di vaccino contro la gonorrea, l’efficacia contro la gonorrea entro 6-36 mesi dalla vaccinazione rispetto a oltre 36 mesi dalla vaccinazione era significativamente più alta (rispettivamente 34,9% contro 23,2%). Altri due studi con periodi di follow-up mediani di 37 mesi e 45 mesi hanno dimostrato un’efficacia di 2 dosi rispettivamente del 40% e del 44%.
Secondo i ricercatori “Sono urgentemente necessari dati provenienti da studi clinici in corso che stanno valutando l’efficacia del vaccino MenB-4C contro la gonorrea (genitale ed extragenitale) e la coinfezione gonorrea/clamidia e che stanno studiando un correlato di protezione immunitaria”.