di Mark S. King
Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi di queste quasi 20.000 battute che sì, ebbene sì, parlano proprio di un pornazzo. La prossima settimana Plus tirerà le fila di questo settembre antistigma lanciando una sfida alla comunità lgbt italiana.
Questo articolo è stato condiviso più di 15.000 volte dalla sua pubblicazione nel luglio del 2012. Alcuni lettori hanno reagito con rabbia, e l’aspetto bareback della vicenda ha suscitato commenti di ogni tipo (un utente ha accusato il regista Max Sohl di «crimini contro l’umanità»). In tutta franchezza, ho sempre pensato che la storia del film e il suo impatto sociologico fossero degne di approfondimento; ho apprezzato il candore delle persone coinvolte, così come trovo interessante l’approccio offerto dagli scienziati sociali e dai pezzi grossi dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention), che fungono da sfondo.
Il Folsom che si tiene tutti gli anni a San Francisco è famoso per l’abbraccio caloroso che riserva a ogni singola stella del nostro firmamento sessuale. Persino la comunità leather dura e pura, che l’ha fondato, rischia di sfigurare dinanzi allo sfoggio di abbigliamento fetish (o alla totale nudità) che serpeggia per le strade tortuose di Cisco.
Nell’autunno del 2003, nel bel mezzo di questi chiassosi baccanali, Paul Morris si trovava allo stand della Treasure Island Media (TIM), la casa di produzione pornografica da lui fondata e specializzata in sesso non protetto (bareback, per l’appunto). Un ingrediente, questo, destinato a garantirgli un successo senza precedenti.
Leggenda vuole che Lana Turner, bigiando una lezione, si sia appoggiata voluttuosamente al bancone di un negozio, dove venne notata da un giornalista. Nel nostro caso, un bel maschietto si fermò allo stand della Treasure. Quei video gli piacevano, tanto ma tanto, e sperava di poter documentare, prima o poi, qualche sua intima fantasia. Anche Jesse O’Toole, star della Treasure, era allo stand, e i due si fecero fotografare assieme. Guardando oggi lo scatto, si ha la netta impressione che il giovinastro col cappellino in pelle abbia ritrovato la sua tribù a lungo dispersa, mentre O’Toole ha l’aria di chi si trova a tavola, le posate strette in pugno, pronto a consumare un pranzo luculliano.
La foto venne spedita a Max Sohl, sporadico attore porno con un passato teatrale a cui Morris aveva dato l’incarico di girare un film. Sohl diede appuntamento all’aspirante modello e gli chiese di compilare un questionario con una sola domanda: Descrivi la scena dei tuoi sogni. Il giovane prese la penna e scrisse: «io che vengo inculato e inseminato da un branco di manzi». «Il Black Party era alle porte» raccontò poi Sohl in un’intervista riferendosi al week-end annuale dei leather men che si svolge a New York, a base di feste e orge «al che mi son detto ok, vediamo quanti ne può prendere».
Nacque così Dawson’s 20 Load Weekend (‘Dawson e il week-end delle venti dosi di sborra’).
Prima dell’aids, l’uso del preservativo nei porno gay era nullo – prima, per l’appunto, che i fluidi corporei diventassero sinonimi di malattia e morte. Per un decennio abbondante dopo l’inizio della pandemia, nei porno gay si son visti solo piselli ben avvolti nel lattice, ma le storie – attori compresi – sembravano intontite, ammorbate da un malessere drammaturgico, una specie di sonnambulismo sessuale: gli amplessi erano pura routine col sarcoma di Kaposi nascosto dietro le quinte. Quei video rispecchiavano la pressoché totale mancanza d’interesse nel rimorchiare il pizza boy di turno o nel buttarsi in un orgione con degli estranei, e molti consumatori tornarono a infilare nei VCR le vecchie videocassette pre-aids, bareback sì, ma «giustificate».
Quando le morti diminuirono bruscamente con l’introduzione delle nuove medicine nel 1996, la cultura dei maschi omosessuali si vendicò. Si registrò un trionfo di festini privati (destinati a soccombere sotto il peso dei loro stessi eccessi), i comportamenti ligi al safer sex si rilassarono e nell’aria si respirò un ardente desiderio di sfuggire agli orrori degli ultimi quindici anni. Reclamare a gran voce una sessualità senza confini – qualcosa che molti maschi omosessuali ritenevano perduta per sempre – fu il miglior tonico per curare lo stress post-traumatico generalizzato. I più giovani, che avevano sentito parlare di un’epoca sessualmente liberata paragonabile a un’era perduta della paleontologia, si dimostrarono ben disposti a esplorarne le nuove versioni, qualunque esse fossero.
Il sesso non protetto dopo l’arrivo dell’hiv non è nulla di nuovo – a ben vedere è il motivo numero uno delle nuove infezioni, il cui numero stenta a calare – ma nella seconda parte degli anni Novanta la comunità gay scoprì ancora una volta quanto fosse facile, e un po’ comico, (ri)etichettare un fenomeno: fu così che il termine «bareback» entrò nel linguaggio comune. È ironico, semmai, che sia stata introdotta una parola nuova per definire la più antica pratica sessuale del mondo: fare sesso senza barriere. Non era certo cambiato il sesso, bensì il suo significato e i giudizi che attirava, soprattutto se a farlo erano dei maschi omosessuali. Come ha dichiarato l’attivista Jim Pickett in occasione di una conferenza, «Quando un amico mi dice che stanno aspettando un bambino, mi vien voglia di urlare ‘Ah-ha! Avete fatto bareback!’».
Ma mentre le menti più fini e gli attivisti più appassionati indagavano le ragioni del barebacking cercando una risposta sensata, nessuno aveva osato documentarlo su videocassetta per darlo in pasto agli appetiti erotici delle masse. Non ancora, almeno.
Nel 1998 esistevano due società scavezzacollo fondate solo a questo scopo: la Hot Desert Knights e la Treasure Island Media. Nessuna delle case di produzione leader del mercato avrebbe mai preso in considerazione la stessa idea (per quanto rieditassero volentieri i vecchi best seller pre-aids, ovviamente bareback). I video fatti con pochi soldi dalle quelle due start up del porno tirarono fuori dall’«armadio» le scelte sessuali di un numero crescente di uomini e le condussero dritte nel mercato dei DVD e sugli schermi dei computer.
Si tratta di video uniformi nel loro pauperismo, nell’aspetto non freschissimo degli attori, e nel fatto che molti di essi paiono recare i segni di un’infezione da hiv presa per il collo con farmaci molto tossici. Era come se un gruppo di uomini sopravvissuti al virus fosse sbottato di punto in bianco con un «oh, al diavolo» mettendo in bella mostra il tipo di sesso che facevano tra di loro da qualche tempo. Questo tipo d’immaginario da «exploitation» era considerato un sottogenere underground incapace di infrangere la superficie del mainstream pornografico.
Ma quando Max Sohl incontrò quel giovane di bella presenza reduce dal Folsom che aveva una voglia matta di farsi «inseminare» da una ganga di estranei, e con lo Zeitgeist ormai pronto per il loro arrivo, quei due fecero un film destinato a cambiare per sempre il volto dell’industria pornografica e a influenzare, senza dubbio alcuno, il comportamento sessuale di moltissime persone.
Ribattezzata «Dawson», la promettente star del porno si sistemò in una camera d’albergo nel corso del Black Party 2004 newyorkese, a disposizione di un’autentica parata di attivi senza profilattico. I rapporti sessuali vennero filmati con stile documentaristico, senza musica né dialoghi, né alcun tentativo di nascondere i cavi e le telecamere piazzati nella stanza. Il più intimo desiderio di Dawson era stato appagato, e Sohl poteva dimostrarlo. Nel giugno del 2004, Dawson’s 20 Load Weekend venne distribuito con tanto di battage pubblicitario.
Di primo acchito si può avere l’impressione sconcertante che il video sia stato girato in un mondo dove di hiv non si è mai sentito parlare, almeno finché una precisa, fiammeggiante coreografia sessuale non viene ripetuta ad libitum. Mentre nel porno pre-aids gli orgasmi venivano di solito mostrati con l’attivo che estraeva il cazzo per venire sulla schiena del partner, gli stalloni di Dawson hanno una mission ben diversa, e deliberata: estrarre il cazzo il tempo necessario a mostrare l’inizio dell’orgasmo, per poi reinserirlo immediatamente certificando così l’«inseminazione».
Dawson non è un film fatto in assenza di hiv, ma concepito per via di hiv. Sembra quasi di sentire una vocina che sussurra: «Guarda bene: ecco come fanno sesso i maschi gay al giorno d’oggi. Ecco dove va messo lo sperma. Fanculo l’aids».
A seconda dei punto di vista, trattasi di rituale erotico e trasgressivo oppure di una pratica intollerabile e irresponsabile che dimostra come ci s’infetta con l’hiv. O forse entrambe le cose…
E al centro di tutto questo c’era lui, Dawson: il porno bareback non aveva mai avuto a disposizione un protagonista così virile, atletico e devoto. «Un modello di tale qualità non si era mai visto in quel tipo di scene estreme» spiegò Sohl. «Il film ha cambiato le cose per via di Dawson. È adorabile, disarmante, sorride per davvero, ride nel film. È una pasticca di Cialis in carne e ossa». «Le case di produzione che fanno bareback hanno le mani sporche di sangue» divenne poi un adagio molto diffuso tra maschi omosessuali e attivisti nel campo della salute. Dan Savage, giornalista specializzato in consigli sessuali alla comunità lgbt, equiparò quei video alla pedopornografia, accusando gli autori di circonvenzione d’incapaci. Qualcuno accusò la Treasure di fare degli snuff movies.
Il video di Dawson riscosse un successo clamoroso in ogni dove. Persino Sohl ne fu sorpreso. «La nostra équipe, o anche i miei amici, mi dicevano ‘ovunque vada, in sauna, a un sex party, a casa di uno per scopare, lo mettono su: è dappertutto’».
I negozi hard che fino a quel momento avevano snobbato i titoli Treasure risposero alle richieste dei clienti prenotando il video e arrivando a creare apposite sezioni bareback sui loro scaffali. I siti porno gay che si erano sempre rifiutati di caricare clip di questo tipo si adeguarono. Dawson e il suo film diventarono così la bandiera di una sessualità spoglia e sfrontata, che aborriva i profilattici e non ne voleva sapere di lasciarsi intimidire dal virus.
Ben presto anche altre compagnie si misero a produrre porno bareback e riuscirono ad assoldare tipi in forma, giovani e muscolosi, il ritratto della salute. I volti e i corpi dei video bareback si trasformarono in fretta, cancellando ogni traccia di lipodistrofia e sincronizzandosi con l’invisibilità dell’infezione dei giorni nostri.
Ripensando alle conseguenze di questo film, Sohl è più pragmatico che orgoglioso. «Nel 2004, l’idea di farsi sborrare dentro venti volte era molto più che tabù, ma adesso… no, adesso non è più così estrema. Sono sicuro che prima o poi qualcuno l’avrebbe fatto. È capitato a noi».
Sohl non ammette alcun tipo di remore circa la salvaguardia dei suoi attori, oggi come allora. «Lo faccio dal 2004, l’ho fatto con migliaia di uomini, e solo uno ha detto di essersi beccato una malattia venerea [sul mio set]. Direi che il 50% del mio lavoro consiste nel fare counseling sull’hiv» precisa senza un filo d’ironia. «Passo un sacco di tempo a parlarne. La mia opinione è che la gente deve fare scelte consapevoli, deve informarsi prima di fare».
Una di queste persone capaci di decisioni importanti vivendo con l’hiv è proprio l’attore meglio noto come Dawson, che ha ammesso il proprio stato sierologico a «The Windy City Times» nel 2005. E se nessuno si è stupito del suo status, nell’intervista ha aggiunto anche un dettaglio tristemente rivelatore. «È stato dopo la diagnosi che ho deciso di fare un film con la Treasure Island Media. Mi ero sieroconvertito pochi mesi prima…».
Una volta ricevuta la diagnosi di sieropositività, molte persone ne approfittano per fare il punto della situazione e optano per scelte sessuali diverse, spesso orientate a godersi la vita come meglio credono. Nel caso dell’uomo destinato a diventare Dawson, alla sieroconversione seguì la scelta di fare la troia, senza vergogna né scrupoli, davanti all’obiettivo. Potrà anche essere stata la sua più intima fantasia, ma non fa che alimentare la credenza stigmatizzante che le persone con hiv siano vettori irresponsabili dell’infezione, disposti a propagarla abbandonando qualsiasi precauzione.
Forse il film valse come un trattatello sul tipo di liberazione sessuale disponibile per i maschi omosessuali dei giorni nostri, in quanto dimostrerebbe la «nuova normalità» di chi prende la terapia, elimina l’attività virale nel sangue e «scopa libero e senza paura», nelle parole di Paul Morris. Oppure ha semplicemente dipinto i sieropositivi come troie da sbarco, un’accusa rilanciata da frotte di sieronegativi disgustati (e magari gelosi)?
«Ciò che la gente vede riguarda più loro stessi che noi» spiega Sohl. «La migliore strategia è non confermare né negare alcunché. Mi capita di vedere online una scena che ho girato» continua riferendosi ai tanti siti che piratano frammenti dei suoi film «rititolata ‘passivo negativo si piglia lo sperma di un positivo’, manco fosse una scena d’infezione. Chi l’ha mai detto? Oppure, la gente crede che il passivo sia sotto crystal meth. Mi spiace, ma son tutte cose che la dicono lunga su chi guarda, non su quello che è successo davvero».
Questa relazione tra porno e spettatore è particolarmente cara ad alcuni attivisti della prevenzione che vedono il porno bareback come una forma di incoraggiamento al sesso senza preservativo nella vita vera. Ciò è scaturito in una campagna dell’Aids Healthcare Foundation volta a imporre l’uso del preservativo sui set, una mossa popolare a un livello molto semplicistico ma che non tira in ballo nessuno dei tanti fattori associati al reale rischio d’infezione, né le relative strategie preventive, come può essere la TasP.
E mentre la teoria sociale cognitiva afferma che prendiamo decisioni comportamentali guardando gli altri, sono ancora scarse le ricerche sull’eventuale relazione tra porno bareback e comportamenti reali. Tant’è che i ricercatori non sono stati in grado di affermare con certezza se chi fa bareback guarda molto porno bareback, o se è il porno a sfornare nuovi barebacker.
Un enigma che lo stesso Max Sohl è lieto di risolvere: «Certo che sì. Certo che influenza la gente». Ma alla domanda su quale sia la responsabilità del porno, Sohl non ne vuole sapere. «La responsabilità del porno» ha dichiarato con piglio malandrino «è far sì che chi lo guarda si faccia una sega».
Dawson è ormai un’icona del porno, presente su dozzine di siti, e ha ottenuto il premio tanto agognato. Lui e la sua progenie di pornoattori infisicati e allettanti hanno oltrepassato un punto di non ritorno. Le loro scorribande sono disponibili ovunque, a portata di tutti, inclusi i giovani maschi gay freschi di coming out che vanno in Internet in cerca di conferme in tema di sessualità.
Quei giovani uomini vedranno sicuramente, online, fior di scene di sesso senza preservativo, dato che ormai i video bareback sono più numerosi di quelli col profilattico. È fuori di dubbio che per i novellini del sesso il bareback sembrerà lo standard, e chi cerca di promuovere il safer sex farà molta fatica a superare la forza di quelle immagini. Il messaggio «usa sempre il condom» è ormai morto e sepolto, affogato nei secchi di fluidi corporei di Dawson e i suoi fratelli.
Dawson’s 20 Load Weekend ha ridefinito il porno gay bareback e i suoi attori, ha influenzato una caterva d’imitazioni e ha aumentato a dismisura la presenza sul mercato di video «condomless». Dawson descrive una verità diffusa sul comportamento sessuale tra maschi in tempi di antiretrovirali, e ha indubbiamente incoraggiato la ricerca di avventure rischiose. Ha inoltre condotto a una saturazione del bareback online, elevandolo alla norma per chiunque cerchi porno in rete. Prendere sottogamba questo film, minimizzare il suo impatto sociale e culturale sarebbe solo un gesto miope nei confronti della sessualità gay dei giorni nostri.
«Il bareback è un diritto» ha scritto l’antropologo gay Eric Rofes. «Dopotutto, quasi ogni uomo etero al mondo lo fa senza per forza sentirsi irresponsabile, pazzo o suicida… il bareback è una liberazione. Il bareback è sfida».
Folle o profetico, liberatorio, illuminante o distruttivo? Quale che sia la vera natura del bareback, la scopriremo solo nel prossimo capitolo della tormentata storia della nostra comunità omosessuale.
Mark
L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.
Traduzione di Simone Buttazzi.