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Fortissimamente doxy. Si insomma pure qui si è parlato di doxyPEP, a fine giornata ma ne parlo subito.

Non sono state dette chissà quali novità, inoltre il tema è stato inquadrato dal punto di vista degli USA ma comunque i dati fanno spavento. Solo negli USA nel 2022 il CDC ha registrato 1,6 milioni di casi di clamidia (CT), quasi 650.000 casi di gonorrea (NG), 207.000 casi di sifilide. Dal momento che il CDC non è fatto da menomati mentali come da noi, ha chiarito subito che chiunque sia sessualmente attivo può prendersi una IST, ma ci sono alcuni gruppi di popolazione sul piano statistico registrano più contagi: giovani fra i 14 e i 24 anni, MSM, donne incinte, minoranze etniche. Ribadisco: sto scrivendo di dati statistici, ovvia che la clamidia non ha la volontà politica di colpire le donne incinte o gli afro-americani.

Da qui parte il bisogno dei ricercatori statunitensi di trovare uno strumento efficace, con quei numeri è anche comprensibile. Ed ecco che esce la doxyPEP. La dott.ssa Connie Celum, dell’università di Washington, ha presentato i suoi bravi dati sull’efficacia partendo dai primi del 2015, passando per lo studio Ipergay di Molina un open label del 2018 e DoxyVac del 2024, gli studi USA di Luetkemeyer sempre del 2023, di Fredricksen del 2024 che fissano intorno al 65% il calo delle IST usando la doxyPEP. Lo studio di Molina (anche gli altri a ben vedere) denuncia un calo inferiore nei casi di gonorrea. Da ulteriori approfondimenti si nota una propensione di gonorrea a resistere all’azione della doxyciclina questo sia nello studio di Molina del 2024 che in quello di Luetkemeyer del 23. In una slide dal titolo che succede se l’uso di doxyPEP incrementa la resistenza di gonorrea? Vengono fatte alcune ipotesi (nella logica generale del non si sa):

  • Può indurre resistenze anche in altre classi di antibiotici (dati limitati)
  • La doxyPEP smetterà di funzionare contro gonorrea?
    • Secondo lo studio DoxyVac ha continuato a funzionare nonostante il 65% di resistenza in Francia
    • La soglia di resistenza necessaria per avere un impatto su doxyPEP è sconosciuta
  • Compromesso: doxyPEP riduce l’incidenza di gonorrea e l’uso di cefriaxone del 50%

In conclusione:

  • gonorrea: aumento della resistenza alle tetracicline negli studi Doxy PEP e DoxyVacc
    • DoxyPEP può proteggere meno contro i ceppi resistenti
    • La sorveglianza dell’antibiotico resistenza in CG è importante
  • Clamidia: non sono state osservate resistenze
  • Sifilide: doxiciclina è un’alterativa utilizzabile nel trattamento della patologia
    • Nessuna resistenza alle tetracicline osservata su sifilide che invece diventa rapidamente resistenza all’azitromicina
  • diminuzione del tasso di colonizzazione stafilococco aureus. con aumento di resistenza alla doxiciclina
    • nessun aumento di resistenza a stafilococco aureus (MRSA)
  • impatto minimo sul microbioma intestinale, ma si registra un aumento di attivazione dei geni di resistenza alle tetracicline

si segnala la difficoltà di isolare l’impatto di doxyPEP nell’organismo stante che la doxiciclina può arrivare anche per altre vie come un trattamento per clamidia, altre infezioni, cibo. Con questo, e quanto già scritto dal simposio al CROI di Denver, spero di aver chiarito che non ci sono risposte definitive. Molto chiarificatrice l’immagine finale della ricercatrice, che potete vedere qui a fianco, prendi a mazzate una patologia e ne spuntano altre magari proprio a causa della mazzata.
A fine presentazione ho chiesto un parere alla dott.ssa Celum. Io ho l’impressione che i ricercatori USA siano meno preoccupati della gonorrea resistente di quelli europei, e lei ha confermato. Ma ha anche detto che qualcosa si sta muovendo anche in USA perché il problema si sta presentando anche li. Ossia il tema è presente e da monitorare.
Insomma siamo lontani dall’avere uno strumento perfetto ma, se non sbaglio era Voltaire a dire che le mieux est l’ennemi du bien.

A parziale ritrattazione di quanto scritto ieri, segnalo che sull’efficacia degli anticorpi monoclonali ampiamente neutralizzanti ci sono gli studi HVTN 703/HPTN 081 e HVTN 704/HPTN 085. Dovessero andare bene potrebbero essere una via per un vaccino contro HIV con qualche speranza di riuscita.
Potrebbero essere infusi indicativamente 2 volte all’anno. La cosa interessante è che si inizia a ragionare in termini etici sulla necessità di avere un braccio placebo nell’era della PrEP che comunque sarebbe considerata come standard di prevenzione anche in questi studi.

In merito alla PrEP è interessante lo schema di pro e contro proposto anche perché si incomincia a ragionare (preventivamente) di PrEP con gli bNABs (anticorpi neutralizzanti):

PrEP oralePrEP iniettiva(virtuale) PrEP con anticorpi neutralizzanti (bNABs)
ProProPro
– Opzione daily e on demand
– Flessibilità di implementazione
– Monitoraggio clinico minimo per quasi tutti
– Dati di efficacia in tutte le popolazioni
– Test HIV trimestrale
– Costo del TDF/FTC generico basso
– Efficacia superiore
– Aderenza giornaliera non richiesta
– Ogni 6 mesi (LEN) ogni 2 mesi (CAB)
– Discrezione nell’uso: non ci sono pillole in giro
– Efficacia (?)
– Frequenza di infusione (sei mesi?)
– Discrezione nell’uso: non ci sono pillole in giro
– Nessuna preoccupazione per la resistenza agli ARV
ControControContro
– Aderenza giornaliera o regime complesso
– Le pillole potrebbero non essere accettabili o preferite da tutte le persone
– Maggior numero di visite (CAB)
– Requisiti per il test HIV
– Costi e accesso al servizio
– Problemi logistico-organizzativi
– Infezioni da HIV problematiche (CAB)
– Procedure amministrative
– Durata della visita (?)
– Costi e accesso al servizio (?)

Ma intendiamoci, in Italia è utilizzabile solo la PrEP orale. La PrEP iniettiva è stata recentemente approvata da AIFA ma stanno ancora confrontandosi con ViiV per il prezzo. Non so dirvi di più perché da ormai diverso tempo non ci rende partecipe degli obiettivi né degli strumenti per raggiungerli. Speriamo per il meglio. La PrEP con bNABs, come ho scritto, è ancora lontana dall’essere sdoganata sul piano scientifico, figuriamoci su quello regolatorio.
Tuttavia è interessante che nelle conferenze scientifiche internazionali si vedano questo tipo di raffronti.

La sessione sulla situazione dell’America latina nella lotta contro HIV è sintetizzabile con la cascade relativa ai famosi obiettivi di UNaids, l’agenzia dell’ONU che si occupa di HIV, ossia i 95-95-95 (il 95% delle persone con HIV diagnosticate, il 95% in terapia ARV, il 95% undetectable). Tutt’altro che rosea come potete vedere dall’immagine. L’America latina se la gioca con le regioni messe peggio e, naturalmente, le persone più povere, a bassa scolarità, sono quelle più colpite. Capite perché mi sono così infastidito vedendo la protesta delle comunità indigene che IAS non ha fatto entrare nonostante fossero persone decorose e molto gentili anche se ferme nelle loro rivendicazioni.
Per quanto riguarda la PrEP con lenacapavir di Gilead, pare proprio che sia un farmaco fenomenale, con percentuali di successo del 96%, stando ai dati dello studio Purpose2, si è dimostrato superiore alla PrEP orale. Non mi dilungo perché se ho capito bene, ci sarà una sessione dedicata alla conferenza sui farmaci di Glasgow. Se tutto va bene vi racconterò qualcosa di più specifico dalla Scozia.

Una cosa è emersa molto chiaramente e da più relazioni: la PrEP deve essere semplificata. In questa conferenza si parla molto di ampliare la possibilità di prescrizione (chi lo dice ai nostri infettivologi?), agevolarne la distribuzione anche presso i servizi di comunità (come i PrEP Point), integrare la PrEP con altri servizi (per esempio peer-counselling, test per le IST), attivare servizi di tele PrEP o di digital PrEP, erogazione della PrEP nelle farmacie.

Speriamo che questi ragionamenti vengano trasferiti anche ad ICAR, la nostra conferenza su AIDS e ricerca antivirale.

Sandro Mattioli
Plus aps.

HIVR4P, che sta per research for prevention, è una conferenza dedicata alla prevenzione che la IAS organizza ormai da qualche anno. Quest’anno è la volta di Lima che ci ospita nel Westin Congress Center. Un luogo non molto adatto a questo tipo di conferenze che ospitano molte persone, soprattutto dal cosiddetto “terzo mondo” che usa questi eventi per rivedersi, parlarsi, scambiare pareri e best pratices. Il centro congressi è pensato per i contenuti: grandi sale piene di gente e piccoli corridoi o spazi dove parlarsi.
Detto questo le sale sono molto grandi e molto ben organizzate.

Se si parla di prevenzione è ovvio che si cominci con i vaccini. Vi dico subito, niente di eclatante! Del resto se qualcuno avesse scoperto un vaccino, verosimilmente saremmo al CROI non a HIVR4P, perché la scienza vive anche di palcoscenici oltre che di fondi.
Tornando al vaccino, le strategie vaccinali puntano molto sugli anticorpi neutralizzanti. Siamo ancora nella fase che ricerca la conferma della teoria, nella fase delle sfide, dei test su modelli animali, il che vuol dire che abbiamo ormai centinaia di topi transgenici immunizzati che, probabilmente, non si contageranno con HIV… forse. I modelli e gli approcci sono ancora vari, ma da ciò che ho ascoltato e credo di aver capito, sono argomento complicatissimi per un povero attivista, molte speranze sono riposte in questo tipo di anticorpi che, in effetti, iniziano a dare risultati interessanti in termini di immunizzazione. Non per caso hanno preso piede studi per capire quanto a lungo dura tale immunizzazione. Per ora sembra ancora un tasto dolente se devo dar retta alle curve di protezione che potete vedere nella foto: altissime nel periodo immediatamente successivo all’esposizione al vaccino, ma che crollano dopo relativamente poco tempo. Tutti ricordiamo i tempi di vaccinazione del virus del covid, tempistiche hanno innervosito molte persone e fatto perdere fiducia nelle reali capacità di tutela del prodotto. Quindi anche quelli di durata sono studi importanti. Personalmente vorrei vedere prima delle percentuali di immunizzazione più alte.

Ça va sans dire che anche la PrEP è uno dei temi centrali della conferenza e anche in queste fasi iniziali se ne sta parlando molto. In particolare sono state interessanti le esperienze portate da attivisti di Zambia e Perù. Entrambi lamentano ritardi nell’approvazione, difficoltà da parte delle autorità sanitarie nel farsi carico di questa sfida (ma anche opportunità visti i risultati!), ecc. Dal loro punto di vista è assolutamente comprensibile, ma non ho potuto fare a meno di pensare che Zambia e Perù sono Paesi poveri, senza grandi possibilità di investimento in termini di promozione di questo strumento di prevenzione molto efficace ma, ciò nonostante, hanno portato dati spesso più advanced di quelli italiani.

Zambia per esempio, ha introdotto la PrEP orale nel 2017 con uno studio pilota, nel 2018 la PrEP è stata inclusa nelle linee guida del Paese. In Italia PrEP è stata approvata (solo per chi poteva pagarsela a 60€ al mese) a ottobre 2017, non so se notate la similitudine. Nel 2023 è stata posta in carico al SSN.
Nel 2023, Zambia introduce la PrEP long acting iniettiva con Cabotegravir. In Italia credo che sia stata approvata quest’anno (2024) ma in merito al costo Aifa sta ancora discutendone per cui ancora non è disponibile, il tutto nel sostanziale silenzio delle associazioni.
Zambia oggi ha presentato i dati di raffronto fra PrEP orale e iniettiva fra (febbraio-settembre 2024). In effetti “solo” il 17% usa PrEP iniettiva contro l’83% di PrEP orale, ma intanto hanno prodotto dati cosa che in Italia è in carico al Terzo Settore o qualche studio di coorte, niente di ufficiale e comunque solo di PrEP orale ovviamente.

In Perù invece, la situazione è peggiore. L’attivista peruviano ha denunciato problemi di sistema all’accesso alla PrEP ed ha proposto una road map fatta di decentralizzazione dei servizi PrEP, campagne sui social media, formare gli health care provider sulle linee guida della PrEP, incorporare la PrEP iniettiva long acting con cabotegravir… per la serie ormai che ci siamo.

Nuovamente… nel nostro Paese potrebbe avere senso copiare quella road map stante che la PrEP da noi è erogabile (gratuitamente) solo nelle farmacie ospedaliere e solo da medici infettivologi (che poi lamentano il fatto che hanno troppe persone da seguire, ma in molti casi sono i primi ad avere difficoltà con la decentralizzazione), campagne pubbliche sui media non ne ho mai viste… è facile pensare che non ci sia la volontà politica di farla (perché si sa che chi usa la PrEP lo fa per far sesso senza preservativo), le linee guida italiane sono lontane dall’essere aggiornate e la formazione su di essere sarebbe verosimilmente priva di significato.
In sintesi il nostro ricco industrializzato Paese, membro del G7, ecc. se la gioca coi Paesi nella fascia a basso reddito e non certo perché ci mancano i soldi, perché in realtà da noi pesa l’approccio culturale cattolico che vede il sesso, e tutto ciò che gli gira intorno, come un tabù. È sufficiente vedere il livello di discussione sull’interruzione di gravidanza, sui contraccettivi, sulla pillola del giorno dopo, sullo stesso piano dei ragionamenti discriminatori che ancora vediamo su PrEP o su U=U.

A seguire un interessante quanto lungo simposio organizzato da ViiV dove si è parlato di una mezza dozzina di studi di implementazione di cabotegravir long acting (CAB LA) come PrEP. Buona parte degli studi arrivavano dall’Africa, ma anche dall’America Latina così come dagli USA e riguardavano gruppi di popolazione particolari: dalle giovani donne agli uomini che si spostano frequentemente per lavoro. Qualche persona ignorante in Italia avrebbe detto categorie a rischio, ma sono lieto di dire che a nessuno qui sarebbe venuta mai in mente questa favola. Il simposio è stato interessante perché ha mostrato come i vari studi hanno trovato varie soluzioni ai problemi territoriali o delle varie popolazioni coinvolte. Ma, dal mio punto di visto, ha mostrato chiaramente quale sia la politica di ViiV international sul tema della PrEP con CAB LA che viene portato avanti con forza, coinvolgendo le popolazioni esposte al rischio, aiutando e sostenendo i progetti di implementazione del CAB.

Mi chiedo se ViiV Italia sia stata messa a conoscenza di questa impostazione perché mi sembra che segua una logica politica tutta sua. Da qualche tempo in qua infatti, ViiV Italia sembra aver smesso di mettere al centro pazienti e PrEP user, non sembra particolarmente interessata all’aiuto delle associazioni e sta facendo approvare CAB LA come PrEP in totale solitudine, senza nemmeno tenere informate le associazioni dei progressi fin qui fatti, senza sostenere progetti di implementazione portati alla sua attenzione né su CAB LA usato come terapia contro HIV né come prevenzione dell’HIV. La direttrice medica ha semplicemente risposto no o addirittura creato problemi che hanno portato anche noi di Plus a smettere di presentare progetti tesi a implementare CAB LA iniettivo.

Questo modo di comportarsi, completamente al di fuori delle linee politiche di ViiV global ma anche in totale controtendenza rispetto al comportamento tenuto da ViiV Italia fino a pochi anni or sono, non si sta dimostrando efficace ed è servito solo a peggiorare i rapporti con le associazioni o, meglio, con alcune di esse, quelle meno disposte a vedere rovinati anni di buoni rapporti.

Detto questo vorrei anche stigmatizzare un altro fatto: mentre noi delegati brindavamo con il vino offerto da IAS, davanti al palazzo della conferenza la comunità indigena del Perù stava protestando perché Gilead avrebbe escluso il Perù dalle patenti gratis per lenacapavir. Non ho idea di quali siano stati i criteri di scelta di Gilead, in genere si dovrebbe guardare al pil e non mi pare che il Perù sia particolarmente ricco, in compenso la popolazione del Perù ha partecipato a diversi studi sul vaccino mosaico, sugli anticorpi neutralizzanti e anche su lenacapavir e ora viene ripagato in questo modo. Come se non bastasse gli attivisti hanno spiegato a me e a un dirigente della conferenza che la IAS ha chiesto loro di iscriversi per partecipare alla conferenza ad un prezzo di 730 USD, l’equivalente di 3 mesi di stipendio medio di un peruviano. Cifra irraggiungibile per la comunità indigena che vive alla giornata.

A fianco un gruppo di donne trans a protestare per ragioni simili. “mi hanno preso il sangue per tanti studi” – mi da spiegato un’attivista di Lesly dell’associazione Feminas – “ora mi sento come un topo da laboratorio. Abbiamo aiutato e per noi non cambia niente” e verosimilmente finito lo studio non avranno accesso ai farmaci che hanno contribuito a validare.

Tutto questo sull’avenida, per la strada perché non hanno l’autorizzazione di IAS a entrare per protestare sul palco.

Io sono basito! Alla conferenza mondiale AIDS di Montreal la comunità indigena è stata l’anima della conferenza. A quanto sembra per IAS questi sono indigeni meno degni e questo è inaccettabile. So bene di non essere una persona importante, ma sono pur sempre un membro di IAS e farò quello che posso per far si che queste associazioni possano dire la loro dal palco. Del resto è stata Hillary Clinton a dire che non c’è conferenza senza proteste.

La plenaria di inaugurazione ufficiale della conferenza inizia alle 16 e si trascina senza particolare entusiasmo, fino alla presentazione di Anne Philpott dal titolo Put Pleasure into Prevention.

Anne, che ha entusiasmato il pubblico, prima di iniziare la sua lecture tira fuori da una borsetta un femidom e lo apre presentandolo come un nuovo oggetto di piacere sessuale. Lo tira, lo stringe, lo tocca con fare erotico. Ci spiega che può essere inserito nella vagina, per chi ne ha una, o nell’anno. Quando metti la parte interna l’anello incomincia a muoversi e toccare qua e la, anche solo camminare diventa un piacere… si perché può essere inserito alcune ore prima del sesso. E poi c’è la parte esterna che va a toccare la clitoride, nulla vi vieta di toccarla anche voi ovviamente, e ancora di più va toccare la clitoride durante il sesso (con un uomo).

Una promo fantastica di ciò che ci attende con la sua presentazione. Finalmente qualcuno che parla di piacere sessuale, che dice che il sesso si fa principalmente per quello poi si è possibile anche la parte riproduttiva, l’intimità, l’amore, ma principalmente si fa per il piacere.

Ovviamente ha parlato in termini scientifici anche dei problemi che possono arrivare con i rapporti sessuali a partire dalle STI, ma ribaltando completamente la prospettiva appunto perché la base di ragionamento era il piacere. La ricerca del piacere sessuale è una delle basi fondanti di Plus. Il sesso è stato un problema per le persone MSM da decenni terrorizzate dal contagio. Plus fin dall’inizio ha cercato di smontare l’idea vetero cattolica del sesso come qualcosa di brutto, sporco, cattivo e pericoloso e ripartire dall’idea del piacere sessuale. Che è poi quello che abbiamo fatto come movimento di rivoluzione sessuale in epoca pre-HIV. La dottoressa Philpott è stata fenomenale e dobbiamo trovare il modo di farla venire in Italia a rompere qualche schema.

Sandro Mattioli
Plus aps

“È un problema dei gay!”

“È un problema degli africani!”

O peggio ancora: “perché farmi venire l’ansia per il test, nella peggiore delle ipotesi prenderò 1 pillola al giorno come per tante altre malattie. Non è un gran problema.”

Queste sono alcune delle risposte che ci vennero date all’Università di Bologna, quando aiutammo un gruppo di studentesse per una tesi che comprendeva una piccola survey.
Non ne sono particolarmente stupito per vari motivi.
In molti dicono che di HIV non se ne parla più, lo dicono soprattutto coloro che si occupano di informazione e, di conseguenza, di fare cultura sul tema. Ma c’è dell’altro: quando se ne parla in termini “seri”, si tende a normalizzare HIV e tutto ciò che gli gira intorno: i test, le terapie, ecc.

Ma è davvero così?

Una cosa è vera: di HIV non se ne parla molto e, grazie a questo, oggi ci troviamo a sguazzare in una situazione di ignoranza generale. In questo quadro la normalizzazione richiamata spesso dagli stessi specialisti, finisce per essere un danno. Ormai buona parte della popolazione non considera più HIV un problema o al massimo lo relega in ambiti particolari: il mondo omosessuale, chi è promiscuo, ecc.

In altre parole piano piano stiamo tornando alle idiozie che i bravi cattolici sostenevano negli anni ’80 quando addirittura il ministro della sanità dichiarava che l’infezione se la prende chi se la va a cercare. Del resto era in buona compagnia: la gerarchia cattolica non era da meno, fior di cardinali e perfino due papi si sono battuti affinché fosse l’etica cattolica a guidare la lotta contro questa epidemia mondiale, con buona pace delle informazioni scientifiche.
Del resto anche negli Stati Uniti, land of the free, ci fu chi propose al Congresso di chiamare G.R.I.D. (gay related immunodeficiency disease) quello che oggi, per fortuna, si chiama AIDS.

Torniamo al tema ma restiamo negli anni ’80. Keith Haring, uno dei padri della street art e della cultura pop, nel 1989 produsse un’opera diventata il manifesto della lotta contro HIV, dal titolo quanto mai attuale Ignorance = Fear / Silence = Death. La parte “Ignoranza = Paura” ci spiega come la mancanza di conoscenza su HIV fa sì che le persone abbiano paura di questa infezione e delle persone HIV positive, mentre la parte dell’immagine “Silenzio = Morte” rappresenta come la mancanza di consapevolezza e conoscenza porterà a più sofferenza e morte per le persone.
Chissà, forse è per questo che ancora oggi un milione e mezzo di persone ogni anno si contagiano. E non solo in Africa, come sosteneva quello studente ignorante, ma anche in Europa. In termini di contagi la situazione in Europa orientale e in Russia in particolare non ha niente da invidiare all’Africa Sub Sahariana.

Anche solo per il fatto che i contagi non calano nonostante gli indubbi passi in avanti della ricerca, avremmo dovuto capire che HIV non è affatto finito ed è ancora un problema. Ma è proprio grazie alla ricerca che sappiamo qualcosa di più.

Da un punto di vista patogenetico, è cosa nota che HIV cerca di distruggere il nostro sistema immunitario e ci rende attaccabili da patologie molto pericolose. Su questo punto la ricerca ha prodotto farmaci molto potenti che riducono ai minimi termini la replicazione virale bloccando ad HIV la strada verso l’AIDS.

Tuttavia l’azione del virus non è solo questa.

Infatti HIV non solo distrugge il sistema immunitario, ma lo attiva. La solo presenza di HIV, anche residuale, è in grado di attivare il nostro sistema immunitario e, come naturale conseguenza, si attiva anche un processo infiammatorio sistemico e cronico.
In effetti in un organismo sano il sistema immunitario si attiva solo quando necessario, mentre in chi ha HIV è sempre attivo.
Questa attivazione non fa bene al nostro corpo, è come avere un campanello d’allarme che squilla incessantemente in tutto l’organismo. Un campanello che provoca un lento logoramento degli organi, reni, ossa, cervello, ecc. e facilita la formazione di neoplasie. Non è un caso infatti che la popolazione con HIV abbia un’incidenza di problemi oncologici palesemente più alta della popolazione generale e tenda ad invecchiare più rapidamente rispetto ai pari età della popolazione generale. Nella mia esperienza ho potuto ascoltare le relazioni di diversi geriatri che affermano che i problemi che trovano nei loro pazienti nella decade degli 80 anni, come la sindrome geriatrica per esempio, li ritrovano in pazienti con HIV nella decade dei 60 anni, in qualche caso addirittura prima.

Quello che ci serve è una cura che eradichi HIV. Come qualunque paziente di qualunque patologia noi vogliamo guarire, senza se e senza ma.
Purtroppo i ma ci sono eccome perché la ricerca scientifica è ben lontana da questo obiettivo e, stante il fatto che non se ne parla, non sappiamo neppure se si stia occupando del tema.

Quello che sappiamo è che qui e ora non abbiamo né eradicazione né remissione, per tacere del vaccino i cui studi vengono fermati uno dopo l’altro per manifesta inefficacia.

A mio parere l’attivismo, le associazioni, dovrebbero tenete presenti questi temi, tenerli alti e favorire la discussione politica, scientifica e sociale.
In tutto questo fare il test, essere consapevoli del proprio stato di salute è ancora molto importante. Una diagnosi precoce e il conseguente inizio precoce del trattamento è decisamente meglio che arrivare alla diagnosi di HIV quando si è ormai in AIDS o prossimi a diventarlo e quando HIV ha riempito i serbatoi di virus latente.

Il test per HIV è ancora necessario. Fate il test, alla peggio mangiate un ansiolitico, ma fate il test. Fatelo al BLQ Checkpoint, in ospedale, dove volete ma fatelo. Almeno una volta all’anno o con la frequenza adatta alla vostra vita sessuale.

Sandro Mattioli
Plus aps

Per la serie a volte ritornano ecco rispuntare la frase categorie a rischio, questa volta addirittura nel programma di una conferenza sulla salute organizzata da Motore Sanità e, per giunta nella parte su HIV ed epatiti virali dove chi scrive è stato chiamato a parlare. È vero che la conferenza prende le mosse da quello che chiama “pensiero creativo”, ma un limite alla mancanza di conoscenza.
Chiunque si sia minimamente interessato ad HIV e ha messo il naso fuori dai reparti di malattie infettive, dove verrebbe da credere quella frase non ha mai perso di efficacia, dovrebbe cogliere al volo il peso di quella frase.

Chiariamo subito: nessuno studio, scientifico, sociale, psicologico o terrapiattista ha mai dimostrato che HIV ha una volontà politica di colpire questa o quella parte di popolazione.
Semmai sono comportamenti a rischio di contagio. Ma in questo triste e ignorante Paese è chiaramente più comodo dare la colpa dell’infezione a fette di popolazione. Si identifica un “nemico” e ci si mette il cuore in pace.

Così per anni si è creduto che HIV fosse la malattia dei gay, al punto che qualcuno propose di chiare GRID (gay related immunodeficiency disease) quello che poi si sarebbe chiamato AIDS. Poi, guarda un po’, HIV inizio a colpire anche gli injection drug user (IDU), poi tutti e ancora oggi – come è sempre stato del resto – è una patologia che può colpire chiunque sia sessualmente attivo. Ma la paura o l’ignoranza, scegliete voi, è più forte della scienza – soprattutto se anche clinici e ricercatori usano “categorie a rischio” – e quindi ancora oggi, dopo oltre 40 anni di epidemia globale, per buona parte della popolazione italiana HIV è la patologia dei gay, degli africani, dei drogati e la discriminazione prosegue con grande soddisfazione di HIV che può contare su un vasto bacino di diagnosi tardive

In effetti chi non è né gay, né IDU, né africano perché mai dovrebbe farsi un test. Ecco come HIV prosegue la sua corsa in Italia, grazie al pressappochismo di chi dovrebbe prestare attenzione a cosa scrive, e all’ignoranza generalizzata di un Paese dove tutti dicono che di HIV non se ne parla più. Tutti, a partire dai giornalisti che dovrebbero informare al popolazione ma scrivono titoli da inquisizione spagnola o mettono in piazza lo stato sierologico di chiunque, con buona pace delle leggi vigenti a partire dalla 135/90.

Leggere di categorie a rischio nel programma di una conferenza scientifica equivale a mandare indietro la cultura sociale dell’Italia su HIV di decenni e pure a pedate, perché avvalora una sciocchezza ascientifica agli occhi di chi non conosce la materia o è troppo superiore per occuparsi di questioni semantiche (come mi è stato già scritto). In un attimo tutto quello che è stato fatto da grandi attivisti, dai principi di Denver a U=U, viene spazzato via.

Vi do per certo che in molti cercheranno di minimizzare, sta già succedendo. Qualcuno mi ha detto che non è il caso di farne una questione di stato, altri al telefono mi hanno detto “io sono una categoria a rischio”, altri, peggio ancora, hanno cercato di avvalorare la frase dicendomi che, in fin dei conti, è la versione italiana di key population, ossia popolazioni chiave che sono quei gruppi sociali che l’epidemiologia ci indica come più esposti al rischio di contagio perché al loro interno i comportamenti a rischio tendono ad essere più frequenti, spesso proprio a causa della marginalizzazione a cui sono soggetti. È una definizione universalmente accettata se non ché nel resto del mondo a nessuno verrebbe in mente di generalizzare o dire che l’intera popolazione “X” ha l’HIV. Inoltre nel resto del mondo si attivano politiche di prevenzione rivolte a quelle popolazioni per modificare o limitare i comportamenti a rischio. In Italia invece vengono additate e marginalizzate. Del resto negli ultimi 40 anni io non ho mai visto in Italia una campagna di prevenzione rivolta a gay o a sex worker, campagne che altri Paesi anche meno ricchi di noi fanno da anni. Da noi al massimo abbiamo messo un alone viole intorno a qualcuno e, per anni, abbiamo preteso di difendere gli italiani con l’etica cattolica invece che col condom.

Ecco cosa si nasconde dietro la frase categorie a rischio. C’è un Paese che, per quanto sia ai primi posti nella clinica, deve ancora fare molta strada sul piano sociale.
Una strada che periodicamente va riasfaltata perché qualche sciagurato si diverte a farci dei buchi.
Per HIV non esistono né cura né vaccino ed è un’infezione a trasmissione sessuale. Quindi deve essere combattuto sul piano scientifico e su quello sociale, altrimenti fra altri 40 anni saremo ancora qui a chiederci se sia la malattia dei gay.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente


LABORATORIO RESIDENZIALE SU HIV, IDENTITÀ SESSUALE, SESSUALITÀ E INTIMITÀ TRA MASCHI
4, 5 e 6 ottobre 2024

Di cosa si tratta?
Io vivo con HIV è un percorso laboratoriale che si situa in continuità rispetto ai precedenti “HIVoices” e “Sono Sieropositivo” svoltisi dal 2010 al 2024, proposti da Plus – Persone LGBT+ Sieropositive – aps, che ha visto coinvolte numerose persone GBMsM (gay, bisessuali e maschi che fanno sesso con maschi). Lo scopo del laboratorio è quello di contribuire alla co-costruzione di un sapere di gruppo che possa agevolare l’esplorazione e la consapevolezza individuale, in merito al proprio modo di “vivere con HIV” e in relazione alle diverse dimensioni dell’esperienza umana e dell’identità sessuale. In particolare, il racconto dell’esperienza biografica di persone che vivono con HIV e l’apertura ad un ascolto partecipato ed empatico, favoriranno la costituzione di uno spazio sicuro. Questo permetterà la possibilità di un confronto e di una narrazione di sé al di là di modelli precostituiti e a favore di una complessità generativa radicata nel vissuto presente. Io vivo con HIV quindi è un laboratorio intensivo che si sviluppa in un contesto accogliente e affermativo del proprio stato sierologico e del proprio orientamento sessuale.

A chi è rivolto?
È rivolto esclusivamente a persone che vivono con HIV, GBMsM (gay, bisessuali e maschi che fanno sesso con maschi) e che hanno partecipato precedentemente ad una o più edizioni di “HIVoices” e/o “Sono Sieropositivo” dal 2010 al 2024. Il gruppo sarà composto da un minimo di 15 a un massimo di 18 partecipanti. A chi partecipa è richiesta una presenza continuativa per l’intera durata del laboratorio e un abbigliamento comodo (tuta, calzettoni, etc.) che agevoli l’espressione corporea.

Metodologia
Tutte le proposte esperienziali richiamano vari ambiti di conoscenza: anatomica, espressivo-corporea,meditativa, artistica, ecc. Queste consentono un apprendimento di tipo sensoriale emotivo, cognitivo. Favorendo la costituzione dei legami di fiducia tra i partecipanti del gruppo, ci eserciteremo nella conoscenza delle 4 dimensioni dell’esperienza: poter fare, poter pensare, poter sentire, poter essere..Quali dimensioni dell’esperienza di persone che vivono con HIV+ incontreremo?
I laboratori esploreranno i temi della vergogna e dello stigma, dell’Ombra con cui ciascuno di noi convive, del desiderio di essere nello sguardo dell’altro. Avremo la possibilità di incontrare le fragilità e le risorse più generative nei nostri percorsi di vita.

Contenuti
La proposta delle attività laboratoriali vedrà le seguenti aree esperienziali/di contenuto come possibilità di vissuto personale e di nuova condivisone con la comunità di ricerca dei partecipanti GBMsM HIV+:

o Ascolto di sé attraverso corpo ed emozioni;
o Decostruzione delle metafore di stigma dell’HIV;
o Affermazione di sé e consapevolezza del proprio stato sierologico;
o Desiderio, sessualità e intimità tra GBMsM;
o Aspettative e timori nell’incontro con l’altro;
o Coming out sierologico e visibilità;
o Contesti di vita e HIV;
o Pratiche di cura di sé.

Tempi
Il laboratorio sarà realizzato in una struttura residenziale, a partire dal tardo pomeriggio di venerdì 4, fino al pomeriggio di domenica 6 ottobre.

Formatori
Beppe Marcella è formatore, pedagogista, analista dialogico – relazionale a indirizzo Rogersiano, laureando in psicologia. Si occupa di formazione alla relazione d’aiuto con particolare attenzione alle identità di genere e prospettiva Queer.
Luigi Carresi è formatore attraverso la mediazione corporea e analista funzionale in supervisione. Conduce gruppi esperienziali in cui promuove lo sviluppo della dimensione simbolica del corpo in movimento e l’ascolto del sapere corporeo.
Andrea De Pasquale è psicologo, pedagogista, analista biografico ad orientamento filosofico, formatore. Lavora in studio come analista e conduce laboratori di gruppo finalizzati a favorire la conoscenza di sé e la crescita personale

Info tecniche

Location

Il residenziale si svolgerà presso la struttura Ca’ Vecchia a Sasso Marconi (vedi il sito) (vedi la mappa)

Trattamento di pensione completa in camera tripla o quadrupla. I pasti saranno consumati presso il ristorante della struttura. I costi per l’eventuale consumo di bevande alcoliche sono a carico dei partecipanti. La struttura fornisce lenzuola e asciugamani. Non sono ammessi animali domestici.

Ai partecipanti è richiesta una presenza continuativa per l’intera durata del laboratorio.

Come raggiungere la struttura

L’associazione mette a disposizione un pullman sia per l’andata che per il ritorno:

Partenza: da Bologna venerdì 4 ottobre, alle ore 16:00, dalla sede di Plus (Il Blq CheckPoint), in via San Carlo 42/C (vedi mappa)
Ritorno: domenica 6 ottobre alle ore 17 circa, con arrivo a Bologna previsto per le ore 19.

Se preferisci raggiungere la struttura con mezzi autonomi, comunicacelo sulla scheda di adesione.
In questo caso, è necessario che tu arrivi a alla struttura entro le ore 18.00 di venerdì 4 ottobre.

Costo

Il costo per la partecipazione al corso, comprensivo di alloggio e vitto per l’intera durata di tre giorni, presso la struttura, è di 50 €. Restiamo a tua disposizione per qualsiasi chiarimento o ulteriore informazione.

Scadenza iscrizioni

Tutte le iscrizioni devono pervenire entro e non oltre martedì 24 settembre 2024.

La conferma della partecipazione al laboratorio verrà inviata al raggiungimento del numero minimo di partecipanti e comunque non oltre sabato 28 settembre 2024.

Qualora le richieste di partecipazione fossero superiori ai posti disponibili, verrà operata una selezione in base ai seguenti criteri prioritari: A) la data di invio scheda iscrizione/bonifico B) le motivazioni personali all’iscrizione da indicare sulla scheda di adesione.

Come iscriversi al laboratorio

Per potersi iscriversi al laboratorio, bisogna effettuare il pagamento della quota € 50 tramite bonifico bancario sul seguente IBAN intestato a Plus aps: IT57B0623002402000057898117 Causale: Erogazione liberale.

Ricordati di specificare la causale indicata sopra durante la transazione. Una volta effettuato il bonifico, inviaci cortesemente una conferma di pagamento insieme alla scheda di adesione.

Scheda di adesione

Scarica la scheda di adesione. Stampala e compilala in tutte le sue parti. Puoi inviarci una scansione o una foto fatta dal cellulare all’indirizzo info@plus-aps.it

Scarica le info

Se preferisci, scarica tutte le info del corso sopra descritte in formato PDF

Iniziativa realizzata da PLUS Aps con il supporto non condizionato di ViiV Healthcare


I Laboratori di Plus: io c’ero e dico che…
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La conferenza è finita ed è ora di tirare le somme.

È stata la prima conferenza mondiale AIDS tenuta in Europa da anni, l’ultima è stata a Vienna nel 2010 se ben ricordo.
Plus ha deciso di investire con la partecipazione di ben sei attivisti. Immagino che anche gli altri 5 scriveranno due righe per il portale di Plus. Avrei voluto aggiungere uno spazio associativo nel Global Village ma gli affitti dei boot sono davvero stellari e per le associazioni dovrebbero essere decisamente più abbordabili.

Alla conferenza di Montreal due anni fa avevamo notato una contrazione degli spazi del Global, ma l’abbiamo attribuito alla situazione post covid. Oggi è chiaro che il problema sono i fondi, non tutti possono permettersi di spendere tanto per affittare spazi, portare attivisti che li popolino, il materiale necessario ecc. Quest’anno abbiamo fatto il possibile. Fra due anni spero che la IAS riveda il listino prezzi. Capisco che organizza una conferenza planetaria ma c’è un limite all’ingordigia. Limite che si è manifestato anche nella scelta della città, dello Stato ospitante, che ha comportato l’assenza di numerosi partecipanti ai quali la Germania non ha rilasciato il visto. Il Cancelliere Scholz, nel suo intervento, ha sottolineato i due miliardi che il suo Paese dona al fondo per HIV, TB e malaria. È evidente che le due cose combaciano.

Si è decisamente trattato di una conferenza mondiale, il numero esagerato di sessioni parallele sta li a dimostrarlo. Non ho visto grandi comunicazioni sul piano scientifico. Si è parlato molto della nuova molecola di Gilead, il lenacapavir, della quale sono stati comunicati i dati dello studio che ne prevede l’uso come PrEP iniettiva due volte l’anno ma a un prezzo stimato di 40.000 dollari. Si insomma la solita solfa: Gilead greed, l’avidità di Gilead, è stata immediatamente stigmatizzata dalle associazioni di pazienti presenti, anche in modo rumoroso… quest’anno lo stand di Gilead non è stato distrutto ma comunque ha vissuto bei momenti. Voi direte che i miliardi che Gilead investe per la ricerca di queste molecole hanno un peso nella definizione dei prezzi finali dei loro farmaci. Verissimo. Ma resta il fatto che per i due terzi del mondo questi prezzi non sono sostenibili. Verosimilmente questo tipo di PrEP sarebbe risolutiva proprio nei Paesi dove HIV è endemico, dove le donne che assumono la PrEP orale a volte vengono perfino aggredite, dove il rifornimento di pillole – per esempio nelle zone rurali distanti da tutto – non è sempre facile e l’aderenza ne risente. Dal momento che Gilead non iscriverebbe a bilancio neppure 1 centesimo proveniente da queste zone, tutti ci siamo chiesti perché non attuare delle politiche meno stronze e consentire la produzione locale di questo farmaco e, soprattutto, perché ogni volta lo dobbiamo ripetere.

Ci è stata data notizia di un altro paziente guarito da HIV grazie a un trapianto di staminali. Ci fa molto piacere per lui, speriamo di cuore che tutto proceda per il meglio, anche perché si tratta di una persona leucemica per cui i problemi sono molteplici. Detto questo spero che sia chiaro a tutti che non possiamo metterci in fila e farci fare questo tipo di trattamento molto pericoloso sperando di guarire da HIV. Tutti ci stanno dicendo che possono nascere nuove idee per una cura, quando vedrò studi scientifici nati da quelle idee sarò sicuramente più interessato. Il primo paziente guarito da HIV risale al 2007 e, per quello che ci è dato sapere, non mi sembra che le possibilità di cura si siano smosse dal trapianto su persone leucemiche. Nel frattempo purtroppo il primo paziente è morto nel 2020 di leucemia.

Nella conferenza mondiale AIDS di Monaco il dato positivo e di grande valore lo hanno tirato fuori i pazienti, i veri protagonisti di questa conferenza. Presenti sempre sul palco, previsti oppure no, sono stati i pazienti a segnalare le persistenti disuguaglianze che portano morti per AIDS (1 ogni minuto) e 1,3 milioni di nuovi casi di HIV all’anno. Ma stiamo scherzando??
Finalmente una conferenza dove ci siamo raccontati con le nostre speranze e le nostre imperfezioni (cito l’impressionante discorso in chiusura del ragazzo IDU, con le mani quasi paralizzate, grandi speranze nel cuore e parole talmente forti da alzare un monte).

E poi le proteste.

Nella conferenza di Washington, Hillary Clinton disse che senza proteste non c’è conferenza. Monaco non è stata da meno.
Trans rights now,
Sex work is work,
Lives over profit,
Communities are experts
sono stati gli slogan più efficaci.

Dalle proteste rumorose contro l’avidità di big pharma, a quelle arrabbiate per chi non ha ottenuto il visto e perché in pochissimi hanno parlato di Palestina, fino a quella garbata delle due sex worker africane che hanno interrotto la relatrice intonando un canto e coinvolgendo la relatrice in un balletto improvvisato, per poi raccontarci della discriminazione che subiscono le sex worker in un crescendo di toni accorati, fino a gridare che la pazienza è finita: stop discrimination, now!

La contestazione più riuscita ha visto gli attivisti e le attiviste raggiungere il palco centrale indossando camici da medici. Evidentemente qualche attivista a cui non è stato consentito l’accesso deve essersi sentito rispondere che gli esperti sono i clinici, i ricercatori. In effetti noi siamo solo quegli stronzi che vivono tutto questo schifo sulla loro pelle, siamo le comunità che vivono con l’HIV, siamo la spina dorsale della risposta all’HIV negli ultimi 40 anni. Gli attivisti lo hanno chiarito bene: we are expert. Il premio alla miglior scritta sul camice va a I dare you, vi sfido, I dare you to find a problem that communities cannot solve… Communities are expert.

Noi siamo esperti. Noi disegniamo, indirizziamo, partecipiamo agli studi scientifici; noi orientiamo i decisori politici, noi spingiamo affinché i risultati degli studi scientifici entrino nella pratica clinica, nella vita quotidiana delle persone che vivono con HIV; noi lottiamo per sconfiggere l’ignoranza e il silenzio che portano discriminazione, stigma e aumento dei casi di HIV. Noi siamo quelli che la Germania, gli USA e tanti altri stati non vogliono sul loro territorio perché siamo gay, sex worker, IDU, trans, migranti, persone criminalizzate e marginalizzate dalle leggi di Stati che si vantano della loro secolare democrazia sulla quale Pericle, vi do per certo, avrebbe pianto.

Le comunità a Monaco hanno tracciato la strada:

serve un’azione politica radicale, basta con i discorsi teorici, è necessario dare gambe alle parole.
Decriminalizzare l’omosessualità, il lavoro sessuale, il possesso e l’uso di droga, la trasmissione dell’HIV.
Concentrarsi sulla solidarietà tra i movimenti, sulle collettività e sulla giustizia sociale, dove ognuno fa la propria parte e agisce in solidarietà per amplificare gli sforzi degli altri.
Rivedere la governance di aiuti e donazioni secondo un modello di investimento solidale globale, per tutti i paesi di tutti i livelli di reddito, basato sul principio “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Liberare i paesi in via di sviluppo dalle catene del debito: gli aiuti non sono un regalo, ma giustizia dovuta per le devastazioni del colonialismo e dell’imperialismo che sono concausa, se non la causa, dell’impatto sproporzionato di HIV nei paesi in via di sviluppo.
Agire in modo proattivo e fermare i movimenti provita, antigender e così via che sono non già un sostegno ai valori tradizionali, ma una minaccia alla salute.
Finanziare a lungo termine le comunità i cui leaders devono essere posti al centro, coinvolti in ogni tipo di piano, politiche e programmi di lotta contro HIV o che hanno un impatto nella risposta contro HIV. “Niente su di noi senza di noi” (Denver 1983).
Interventi a supporto della salute mentale devono essere previsti in ogni iniziativa, programma nella lotta contro HIV.
Continuare ad esaminare come le determinanti politiche della salute (leggi e loro applicazione) influenzano e determinano situazioni di vulnerabilità rispetto alla salute, all’accesso alla prevenzione, al trattamento e all’aderenza al trattamento.

Troppa roba? Può darsi, ma c’è una speranza, “mio dio, io vivo di speranze”: Beatriz Grinsztejn è la nuova Presidente della IAS. È brasiliana, è lesbica annuncio messo li quasi per caso dalla Presidente, ma accolto con grande entusiasmo dalla platea. Chissà che a garota lésbica do Brasil non cambi le cose.

Sandro Mattioli
Plus aps.

La plenaria di oggi è stata particolare, come si dice di solito quando non ci piace qualcosa. È iniziata con un complesso ma interessante “a che punto siamo” sul tema della remissione che, in estrema sintesi, vuol dire lasciare HIV nel nostro corpo ma controllarne la replicazione. Come questo possa combattere l’attivazione immunitaria e la relativa infiammazione che ci porta ad avere una serie di problemi di salute, non mi è chiaro. Tuttavia, ragionando in direzione di una cura, sempre che la remissione sia l’unico obiettivo non irraggiungibile con le conoscenze attuali. In altre parole di guarire non se ne parla neanche.

La cosa insolita è che ne parlano pochissimo anche i pazienti, gli attivisti, le associazioni di pazienti che pur dovrebbero avere questo ambizioso obiettivo ben presente quantomeno sullo sfondo di ogni decisione politica e di ogni progetto. Mah… siamo strani.

La relatrice, Melania Ott, ci ha informato del fatto che l’HIV nei reservoir anche se silente comunque trascrive. Secondo lei se riuscissimo ad attaccare questa trascrizione raggiungeremmo la remissione. In realtà noi non abbiamo farmaci che bloccano la trascrizione per cui è tutto da inventare. Alcune molecole, che sono in fase di studio, potrebbero fungere da inibitori della trascrizione e prevenire la riattivazione dalla latenza.

La successiva relazione è stata tenuta da Ricardo Leite che ha cercato di convincerci sul valore dell’intelligenza artificiale nei vari campi della lotta contro HIV, prevenzione e gestione del paziente inclusa. Al netto delle potenzialità dello strumento, il dott. Leite sembrava che volesse venderci un qualche prodotto miracoloso con uno stile di vendita molto USA forse utile per vendere auto usate ma fastidioso in una conferenza mondiale. Tuttavia una cosa giusta l’ha detta: ormai gli ospedali sono imprese e ragionano troppo spesso in termini di produttività, neanche fossero la Ford. In effetti sentiamo spessissimo ragionane in termini di numeri di test effettuali, di esami eseguiti ma molto meno spesso osserviamo come stanno i pazienti. Quindi rimettere al centro il paziente… ok non è una cosa nuova, ma la similitudine fra la catena di montaggio di Ford e gli ospedali l’ho trovata molto efficace. Che sia la AI la soluzione non lo so ma sicuramente può essere un aiuto anche senza arrivare a proporre dei bot la posto dei medici.

L’ultima presentazione ce l’ha fatta, credo per la prima volta in una plenaria, Gesine Mayer-Rath di professione economista. In una articolata e francamente noiosa presentazione, ci ha spiegato come misurare l’impatto economico. Per esempio ci si può basare sul “capitale umano” ossia le persone, è possibile aggiungere la produttività, i costi di produzione e distribuzione, ecc. ecc. tutto decisamente al di la delle mie misere capacità, ma continuo a pensare che il fattore umano non possa che travalicare tali calcoli soprattutto quando si tratta di decidere di salvare la vita a qualcuno. Vorrei ricordare che non poi un milione di anni fa, la prestigiosa rivista Forbes sosteneva che trattare HIV non paga. Per cui comprenderete che l’attenzione su certe teorie possa tendere a scemare. Per fortuna la relatrice è dell’altra parrocchia e arriva a calcolare che per ogni dollaro speso nel rispondere alla crisi HIV, ci si guadagna da 1 a 3 dollari in “capitale umano”, che salgono da 2 a 13 dollari se prendiamo in considerazione una serie di fattori. Siamo salvi.

Accenno anche a due sessioni parallele a cui ho partecipato. La prima riguarda il tema della discriminazione. Due le relazioni più interessanti secondo me. Quella di Mario Sanchez del Kock Institute, che ha messo in relazione la discriminazione subita delle persone trans e non binarie in Germania, con la loro capacità di operare scelte di prevenzione. La seconda del dott. Noori di ECDC, che ha descritto cosa è emerso da uno studio realizzato fra gli operatori sanitari in merito ad atteggiamenti discriminatori. Ovviamente mi soffermo sui risultati, il 39% non ha conoscenze corrette su U=U, su PEP il 44%, su PrEP il 59%.

Addentriamoci: il 30% dei medici non ha chiaro cosa sia U=U e PEP, il valore sale al 50% su PrEP. Ovviamente questo è il meglio, le altre figure professionali sanitarie (infermieri, dentisti, ecc.) vanno peggio.

Rispetto al fare assistenza a persone con HIV il 53% ha dubbi, il 57% è preoccupato nel prelevare sangue e il 26% dichiara di indossare 2 guanti. Il 6% degli operatori sanitari non vuole avere a che fare con persone trans, sex worker, MSM; la percentuale sale al 12% se IDU. In merito alle ragioni mi limito a dire che il 50% ritiene gli MSM immorali, il 45% che gli IDU sono pericolosi per la salute degli operatori sanitari.

Il 12% ritiene che gli MSM se hanno HIV è perché hanno avuto molti partner sessuali, come un po’ tutti quelli che hanno HIV (12%), perché hanno tenuto un comportamento irresponsabile 22% e se sono viremici non dovrebbero fare sesso (26%).
Rispetto agli atteggiamenti discriminatori rispetto alle persone con HIV nel posto di lavoro, è stato osservato:

  • riluttanza a prendersi cura delle persone con HIV (22%);
  • rivelare lo stato sierologico di un paziente senza il suo consenso (19%;
  • qualità di assistenza sanitaria inferiore (18%)
  • commenti o linguaggio discriminatorio (30%).

Nelle conclusioni il relatore sottolinea un evidente gap di conoscenza sui temi HIV correlati fra gli operatori sanitari e il fatto che più è bassa la conoscenza, più alto è il rischio di commettere errori professionali come l’uso eccessivo di precauzioni. I due guanti sono certo che ha già mandato in bestia Rita (infermiera al PrEP Point di Plus).
Dallo studio emerge la necessità di interventi mirati sulle varie professionalità sanitarie.

Vi do rapidamente conto della sessione diretta da Sheena McCormack che con le sue ricerche e in particolare lo studio Proud ha grandemente contribuito a sdoganare la PrEP in Europa. Il tema della sessione verteva sulla semplificazione dell’accesso alla PrEP. Oggi le linee guida (e ovviamente anche il nostro protocollo) prevedono una prima visita corredata di test per HIV, HCV, HBV, sifilide, CT, NG e dosaggio della creatinina, seguito da una seconda visita a distanza di 4 settimane dalla prima e poi, a regime, una visita ogni 3 mesi. Per comodità cito il protocollo del nostro centro community based. In ospedale se possibile è anche peggio.

Da molte parti si sostiene che questo sistema non è sostenibile sia sul piano economico, sia per il fatto che terrebbe lontano dall’accesso alla PrEP molte persone. Pressoché l’intero panel era dell’idea di semplificare, alcuni al massimo ossia 1 test HIV e se negativo si prescrive la PrEP. Visita medica 1 volta all’anno, nel caso ci sono gli infermieri dedicati. Test praticamente solo ai sintomatici. A occhio direi che una aurea via di mezzo di da preferire in generale, mentre per quanto riguarda il PrEP Point di Bologna servirà una riflessione approfondita più sul metodo che sul merito, anche perché noi “selezioniamo” persone ad alto rischio di contagio per cui le IST sono molto frequenti, spesso i test ogni 3 mesi non sono del tutto sufficienti.

Sandro Mattioli
Plus aps

La plenaria della terza giornata di conferenza mondiale AIDS, ha visto un tema vasto ma sicuramente importante: “affrontare le barriere strutturali”.
Gli speaker hanno affrontato il tema sotto molteplici punti di vista ma sicuramente gli attivisti sono stati prevalenti, come già nella precedente. Di solito le plenarie sono popolate da importanti relazioni che danno idea dell’indirizzo politico che IAS supporta.

Milos Parczewski dell’università di Pomerania, ci ha illustrato le varianti di HIV presenti nel mondo e, in particolare in Europa, la variabilità molecolare e l’epidemiologia locale.
Per capirci, posto che HIV1 è il tipo di virus principale in Europa, si suddivide in 4 gruppi oltre a una serie infinita di sottotipi e sotto-sottotipi. Del resto stante la velocità di replicazione supersonica di HIV, sarebbe stato insolito il contrario. A quanto pare il più popolare è il gruppo “C”, ma anche altri gruppi stanno prendendo piede. Fra gli altri motivi, anche le guerre aiutano a rimescolare le carte della presenza virale e della varietà di gruppi e sottotipi. Per esempio la guerra in Ucraina. Il ricercatore cita gli studi effettuati sui flussi migratori, per esempio verso la Polonia, causati dalla guerra e su come questi abbiano modificato i gruppi e sottogruppi presenti in quel Paese.
Lo so sembra accademia e in parte lo è in effetti, tuttavia i vari gruppi di HIV posso dare seguito a una diversa progressione verso la malattia. Alcuni gruppi sono più aggressivi di altri, oppure possono rendere più difficile la vita ad alcuni farmaci se non addirittura correlare con fallimento terapeutico. Prima che scappiate tutti dalla Polonia chiariamo che i farmaci di prima linea sono comodamente attivi contro ogni gruppo o sottotipo, senza contare che le persone con HIV sono sottoposte a test di controllo per cui un eventuale, futuro problema verrebbe immediatamente identificato, affrontato e risolto. Tuttavia conoscere quali sono le varianti più virulente può rendere più semplice il lavoro del clinico e anche la vita alla persona con HIV.

La seconda relazione, tenuta da Helen Clark ora presidente della omonima fondazione ma se non erro è stata anche Prima Ministra della Nuova Zelanda, è stata tenuta in forma discorsiva, tradizionale, senza slide, ed ha trattato l’importanza di una visione politica globale per affrontare temi globali come HIV, il riscaldamento del pianeta, ecc. Con il dovuto rispetto la relatrice ha toccato e ci ha ricordato una serie di punti e obiettivi sui quali lavoriamo ogni giorno come attivisti. Ovviamente meglio ricordarli che tacerli ma non ha portato alcuna novità o spunto di riflessione innovativo.

La successiva relazione è stata tenuta da Michaela Clayton dalla Namibia, che si occupa di diritti umani da una vita, sul tema della criminalizzazione di HIV che non ha alcuna evidenza scientifica ma continua ad essere utilizzato esplicitamente o in modo ipocritamente indiretto come in Italia.
La Clayton parte dal principio anzi, dai principi di Denver – si vede che anche secondo lei è ora di riprenderli in mano:

  1. Il diritto di essere coinvolti su ogni decisione presa
  2. Il diritto a vivere una vita piena sia dal punto di vista emozionale che sessuale
  3. Il diritto a trattamenti, visite mediche e servizi sociali di qualità senza discriminazioni
  4. Il diritto di ricevere spiegazioni complete su tutte le procedure mediche e i rischi correlati
  5. Il diritto alla privacy e alla confidenzialità
  6. Il diritto di vivere e morire con dignità

È ora di renderci conto che la criminalizzazione di HIV impatta su un range ben più ampio di diritti umani:

  • il diritto a un trattamento non discriminante davanti alla legge
  • il diritto alla vita
  • il diritto a poter accedere a alti standard di salute fisica e mentale
  • il diritto alla libertà e alla sicurezza come persona
  • il diritto alla libertà di circolazione
  • il diritto di chiedere e godere di asilo
  • il diritto alla privacy
  • la libertà di opinione ed espressione e il diritto di usufruire liberamente delle informazioni
  • la libertà di associazione
  • il diritto al lavoro
  • il diritto di sposarsi
  • parità di accesso all’istruzione
  • il diritto ad un adeguato standard di vita
  • la sicurezza sociale, l’assistenza e il welfare
  • il diritto a partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici
  • il diritto di partecipare alla vita pubblica e culturale
  • il diritto a essere liberi dalla tortura e da trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti

allora ditemi: quanti di questi punti si applicano anche nel nostro Paese che passa per essere così liberal? Da persona omosessuale che vive con HIV, che fa attivismo da oltre 20 anni, vi posso dire serenamente che sono ben pochi.

Ma tornando alla presentazione, nel mondo la criminalizzazione per HIV in termini di trasmissione, esposizione o non disclosure è ancora molto alta e non solo, come forse qualcuno crede, nei Paesi in via di sviluppo. Russia, Stati Uniti hanno leggi specifiche che criminalizzano.
Posso capire che in quadro di ignoranza generale ci sia chi pensa in termini vendicativi e chiede leggi che vadano nella medesima direzione.
Ma da nessuna parte, neppure in Europa, con il carcere e leggi punitive si è mai ottenuto un qualsivoglia risultato misurabile che non sia la legge del taglione. La criminalizzazione non ha alcuna base scientifica o epidemiologica, per cui è evidente che viene praticata per motivi che nulla hanno a che vedere con la lotta contro HIV.

Le difficoltà o il mancato riconoscimento della carica virale non rilevabile, del safer sex o la comunicazione dello stato sierologico come difesa contro l’azione giudiziaria, sono tutti atti la Clayton include nella logica generale della criminalizzazione. E poi c’è un bel planisfero dove compare l’Italia, colorata di viola, che vuol dire non legge specifica ma casi segnalati. In effetti l’Italia non ha una specifica legge che criminalizza HIV, ma comunque mette in carcere le persone che vivono con HIV. Dalla mappa risulta inoltre che 79 Paesi hanno leggi punitive per HIV, 4 hanno introdotto tali leggi nel 2022-24; nonostante alcuni successi la criminalizzazione dell’HIV continua a rappresentare una grave minaccia per la salute pubblica e i diritti umani.

Queste leggi, naturalmente, spesso si incrociano con la criminalizzazione del possesso di sostanze, con il lavoro sessuale, in alcuni stati anche con la criminalizzazione delle persone transgender così come dei gay e altri MSM, dice la Clayton introducendo una logica intersezionale.
Ma le leggi retrive non solo l’unica cosa che ci spinge indietro. La mancanza di dati attendibili, poca attenzione alla epidemiologia, la marginalizzazione di HIV (e di chi vive con HIV), un contesto generale sempre più repressivo e spazi di azione sempre più ridotti per la società civile, ecc. tendono a aiutare HIV. Ma, al netto di tutto questo, non importa non importa quali progressi scientifici raggiungiamo, dovremo sempre affrontare barriere a meno che non affrontiamo direttamente il piano dei diritti umani.

Decisamente mi serve un passaggio rigenerante alla Positive Lounge. Si tratta di uno spazio riservato alle persone che vivono con HIV che viene proposto ormai in tutte le conferenze mondiali aids. È un luogo dove le persone con HIV possono rilassarsi un pochino, bersi un caffè o usufruire dei servizi che (di solito) le associazioni locali organizzano per l’occasione dai massaggi rilassanti allo yoga.

Dopo la lounge ho deciso di iniziare a passeggiare per la foresta dei poster, ossia le centinaia di abstract, di studi, stampati in forma di poster e appesi nelle gigantesche sale del Messe. E inizia subito male per la IAS: il primo poster che leggo è un’analisi sullo spazio messo a disposizione delle donne e delle persone trans dalla conferenza. Emergono dati interessanti: speaker invitate 9%, speaker trans 1,2%; abstract presentati da donne HIV+ 2,4%, da trans 0,37%; scholarship donne HIV+ 6%, trans 1,27%. C’è abbondante spazio di miglioramento.
Un altro abstract ci dice che negli USA una ricerca indica che i farmaci long acting orali sono preferiti a quelli iniettivi. Un abstract francese ha studiato l’utilizzo dei MMG e la soddisfazione degli utenti, per la PrEP. Mi cade l’occhio su uno strano studio che analizza quanto l’uso di silicone liquido incida nell’aderenza terapeutica nelle donne trans argentine. Era presente una delle autrici, felice di poter finalmente parlare “castellano”, che mi si presenta direttamente come trabajadora sexual…muy orgullosa, evvai. Mi spiega tutto lo studio e specifica che il finanziamento era del precedente ministero della salute, non questo di Milei.

Sandro Mattioli
Plus aps

Uno degli slogan della Conferenza è “Put people first”. Tuttavia molti attivisti che non vivono negli Stati “giusti” non hanno potuto partecipare perché la Germania ha negato loro il visto, in diversi casi motivato con il fatto che non sono ricercatori, a quanto dicono le associazioni, sono solo quegli stronzi che HIV lo vivono direttamente sulla loro pelle. E’ incredibile che ancora oggi non sia chiaro che i veri esperti nella lotta contro HIV sono le attiviste e gli attivisti che ogni giorno si confrontano con gli imbecilli che ci discriminano, anche membri delle nostre community, sono quelli che ogni giorno fanno scelte drammatiche come decidere se allattare un figlio e passargli HIV o vederlo morire di fame, o chi ogni giorno viene aggredito se dice di vivere con HIV.

Eppure ecco che un qualsiasi Stato decide chi può o non può partecipare a una conferenza come questa, nata e cresciuta proprio grazie alla collaborazione fra attivismo e ricerca scientifica.
IAS ha già emesso un comunicato ridicolo dove si legge che non può incidere sulle scelte nazionali della Germania. Il che ovviamente è vero, ma può scegliere di fare la conferenza in uno Stato dove le leggi immigratorie non sono pensate per mantenere i privilegi di quattro politici bianchi.
Il punto vero è che la Germania dona miliardi di euro, per cui il dubbio che certe scelte abbiano molto a che fare con i soldi è bello forte.

È su questa base che le associazioni hanno organizzato una protesta durante la plenaria: diverse decine di attivisti in camice bianco (opportunamente disegnato), hanno issato cartelli “we are the expert” e “visa denied”. Una sedia vuota con sopra quest’ultimo slogan è stata lasciata sul palco a rappresentare le numerose assenze di attivisti.
Non è certo la prima volta che accade, perfino quando la conferenza tornò negli USA, perché il Presidente Obama aveva rimosso il divieto di ingresso negli USA delle persone con HIV, rimase il blocco per le/i sex worker o le persone che assumono sostanze, ecc. che mandarono video denunciando di non poter essere presenti grazie a leggi assurde.

Ma torniamo alla plenaria che, nella logica del put people first, è incominciata con la relazione di Anna Turkova dal University College London che ci ha illustrato la situazione dei bambini con HIV. 1,4 milioni di bambini vivono con HIV, la grande maggioranza manco a dirlo in Africa. Anche se in 10 anni il numero di nuove infezioni fra i bambini è sceso di 100.000 unità in generale, ma ancora in Africa si registrano enormi difficoltà in questo settore, a partire dalla messa in ART delle donne in gravidanza. Il 47% delle nuove infezioni nei bambini è dato dal ritardo di inizia della terapia o dall’allattamento al seno. Del resto, come ho scritto sopra, in molte zone rurali africani le mamme devono scegliere se far morire di fame i loro figli o allattarli e passare HIV. Se in queste zone è complicato e difficile raggiungere la soppressione virale per un adulto, vi lascio immaginare le percentuali di HIV che registrano i bambini e quanto possano essere lontani dalla viremia “azzerata”.
Numerosi sono i progetti che cercano di porre rimedio a questo enorme problema, ma si tratta di progetti finanziati da donatori o fondazioni che non sempre danno continuità. Molte speranze vengono riposte nei long acting per la prevenzione ma i costi altissimi li rendono inaccessibili.

Dopo la protesta degli attivisti in camice, è la volta della presentazione di Richard, un attivista dell’inglese THT (Terence Higgins Trust), forse la più vecchia associazione contro HIV d’Europa. Sempre nella logica People First, Richard si chiede se le associazioni sono la chiave per raggiungere gli obiettivi di UNAids. Intanto ci mostra che la situazione britannica non è delle migliori, cosa che ignoravo. Secondo i dati presentati si registrano problemi nella cascade of care così come nello stigma. Impressionante il dato secondo il quale 2/3 degli abitanti non bacerebbero una persona con HIV. Naturalmente ecco quello che le associazioni britanniche stanno facendo moltissimo per raggiungere gli obiettivi dati entro il 2030, in particolare sulle determinanti sociali. In effetti, c’è chi ha calcolato che le determinanti sociali contribuiscono per il 40% delle nuove diagnosi, problemi che le associazioni affrontano con il 10% dei fondi disponibili.
Le conclusioni dell’attivista sono molto chiare: nessun gruppo può raggiungere da solo gli obiettivi di UNAids, ma sicuramente non si raggiungono senza il lavoro delle associazioni di volontariato che è sottostimato e poco apprezzato. Cosa che deve finire.

L’ultima presentazione è di Olga Gvozdetska direttrice generale di salute pubblica presso il Ministero della salute ucraino. Una presentazione molto forte che inizia con le foto dell’enorme ospedale pediatrico, 700 bambini ricoverati, 9.000 operazione annue, di Kiev prima e dopo la sua distruzione a opera dei missili russi.

Con la voce rotta Olga ci ha raccontato le vicissitudini sanitarie di un Paese in guerra. Un Paese che aveva ottenuti buoni risultati nella lotta contro HIV convincendo lo Stato a farsi carico centralmente del problema. Con la guerra l’Ucraina ha rischiato il crollo sui nostri temi, lo Stato ha dovuto cessare qualunque investimento come è facile immaginare, ma ha saputo reagire. A fronte della distruzione dei principali centri clinici del Paese il Ministero ha attuato una fitta azione di decentralizzazione utilizzando, da un lato, tutte le risorse disponibili nelle province anche le strutture associative; dall’altro lato chiedendo aiuto al fondo monetario internazionale e al fondo globale per HIV, TB e malaria che stanno tenendo in piedi la situazione. Grazie al supporto internazionale l’Ucraina sembra essere riuscita a riprendere il controllo e a tornare ai valori prebellici.

Sono arrivato nella capitale della Baviera per partecipare alla conferenza mondiale AIDS 2024, con un volo che è andato bene, tranne che l’attesa per i bagagli è durata più del volo. Ai miei colleghi è andata peggio perché Lufthansa gli ha cancellato il volo sotto al naso, poco prima dell’imbarco, facendo perché un’occasione agli attivisti e soldi all’associazione, che di certo non ne ha da buttare via. Almeno per quello che riguarda la mia esperienza, Lufthansa si è sempre dimostrata una compagnia brava nel fare soldi.

Ma invece di darle le perle, torniamo alla conferenza che ovviamente un po’ ha sofferto della situazione voli, così come visti perché pure i tedeschi quanto a leggi immigratorie non scherzano. Il mio amico Marco Stizioli ha già fatto notare che sono tutti a dire di non voler lasciare indietro nessuno o di mettere le persone al centro e poi quelle persone manco riescono ad ottenere un visto per entrare in Germania. Situazione comune ad altre grandi civiltà che pur di dotano di leggi immigratorie che non esito a definire assurde, che so… gli USA?

Dico questo perché la sessione a cui volevo partecipare stamattina verteva su un progetto del Kenya che ha posto al centro le farmacie di comunità per implementare il numero di persone in terapia, ma non sapremo mai che cosa sono le community pharmacy perché la sessione non si è potuta tenere proprio per un problema di vista (secondo i gossip).

Pertanto mi sono fatto un giro al Global Village, ridente, colorato e vibrante villaggio popolato da tutte quelle marginalità, quelle persone che vivaddio non sono normali secondo le elucubrazioni di qualche militare italiano. E così camminando fra sieropositivi orgogliosi, persone trans, sex worker, prepster ecc. ecc. mi sono ritrovato nello spazio che EATG (European AIDS Treatment Group) ha deciso di dedicare non già ai tre 95, ma a quelli che restano fuori: i tre 5. E infatti lo spazio si chiama 5-5-5. Una idea geniale.

Proprio in questo spazio, Marco Stizioli – ormai membro EATG a pieno regime – ha presentato l’intervento che Marco Barracchia ha realizzato con l’aiuto di PrEP in Italia e un pochino anche di Plus (trovate il video nel canale you tube dell’associazione). La presentazione è andata molto bene, è stata centrata sui tempi della PrEP che in Italia è arrivata anni dopo gli USA, sui problemi socio-culturali, di discriminazione strutturale che guastano il nostro Paese, ma anche sui successi che, anche se tardivi, siamo riusciti ad ottenere.
Un’attivista, credo africana seduta di fianco a me, ha commentato con “i soliti privilegiati” una slide che descriveva la situazione degli MSM. Le ho fatto notare che in Italia i privilegiati cubano il 40% delle nuove diagnosi e che il suo commento era quanto di più offensivo e discriminatorio potessi sentire, completamente fuori luogo nel Globale Village. Lei mi ha dato ragione e si è scusata. Finita la sessione è andata via quasi correndo. Sicuramente era in ritardo per un altro evento, ma mi piace pensare che fosse un po’ dispiaciuta per l’accaduto e volesse evitare il confronto. Nel frattempo qualcuno ci ricorda cosa sta accadendo il Palestina e tutto riacquista la giusta dimensione.

La “Opening Session” quest’anno è stata abbastanza spartana e, per la verità, spero che anche le prossime conferenze mondiali seguano l’esempio tedesco. Al di là delle solite parole di benvenuto, i due interventi più interessanti sono stati quelli di Winnie Byanyma, attivista ugandese di lungo corso, ingegnere, politica, diplomatica, nonché direttrice esecutiva di UNAIDS per 4 anni. Quindi abile nell’usare le parole e, infatti, ha iniziato ringraziando la ricerca, gli attivisti, i politici, perché oggi il 77% delle persone con HIV nel mondo sono in terapia. Erano il 47% dieci anni fa. Siamo cresciuti del 30%, “good job” grida Winnie. Ma, c’è sempre un ma quando si comincia con gli aspetti positivi, i politici iniziano a fare marcia indietro, i fondi stanno calando e devono essere mantenuti e devono andare nella direzione di proteggere le donne in particolare, che ancora oggi raggiungono percentuali di incidenza da capogiro.

Una piccola pause e poi il colpo di teatro: l’attivista chiama in causa direttamente e più volte Gilead, la multinazionale del farmaco. “I know you are in the room” – dice Winnie – e la ringrazia perché Gilead è riuscita a creare un farmaco iniettivo che si chiama lenacapavir (il primo inibitore del capside che si pensa possa essere efficace per sei mesi come PrEP iniettiva), che come prevenzione è un miracolo. Ma nei Paesi africani ha un prezzo troppo alto, quindi un miracolo inutilizzabile. L’attivista arriva a chiedere un prezzo di 100$ all’anno. Un farmaco così sarebbe perfetto per prevenire HIV nelle donne africane che non rischierebbero di essere aggredite perché viste mentre ingoiano le pillole di PrEP.

Gli applausi sono scrosciati manco a dirlo. Da che ho memoria, non ricordo che qualcuno abbia tirato in ballo direttamente, con tanto di ragione sociale, una big pharma e abbia citato il nome di un principio attivo. È stata brava e coraggiosa. Tuttavia non posso non sottolineare che la politica ugandese non ha detto una parola sulla legge che proprio in Uganda sta mettendo alle strette la popolazione LGBT che rischia il carcere, se non la pena di morte. Dubito che questa norma aiuterà la lotta contro HIV.

A seguire l’intervento del Cancelliere Scholz. Il quale ha colto al volo le richieste di chi l’ha preceduto e ha ricordato l’enorme finanziamento che ogni anno la Germania eroga al fondo mondiale per la lotta contro HIV, TB e malaria e che continuerà a versarlo; che la Costituzione tedesca tutela la dignità umana a prescindere dal genere, dal colore della pelle, da chi ami ecc. e continuerà a farlo… e così via le cose che tutti i politici dicono, con la differenza che forse in Germania chi prende impegni in un consesso internazionale poi si ricorda di averli presi. In Italia i politici nazionale non partecipano pressoché mai neppure alla conferenza italiana per cui non si pone neppure il problema di quel che raccontano.

Nel mentre che veniva annunciato lo spettacolo di chiusura, si sente una voce dal microfono della platea. È una ragazza che legge un comunicato, in un inglese un po’ affaticato che compensa con l’autenticità e la rabbia di chi non vuole più essere di scriminata perché trans.

Rabbia che esprime leggendo con la foga di chi non ne può più. Legge una lunga serie di “basta”, di richieste e man mano che legge alte persone si alzano e le vanno vicino. Alla fine saranno diverse decine di persone vicino a lei e tutta la platea la incita con grida e applausi, finché concludono tutti insieme con “trans rights now”. Un bellissimo esempio di comunità che lotta per i diritti di una sua parte, molto emozionante. Spero davvero che porti a qualcosa.

Sandro Mattioli
Plus aps