Articoli

La plenaria di oggi era una cosa stranissima, difficilissima per virologi. Quasi sicuramente non avrei capito niente, per cui ho deciso di usare questo tempo per farmi qualche chilometro nella sala dei poster. Quest’anno, infatti, i poster – che sono abstract degli studi accettati, non cartelloni promozionali di qualcuno – sono tornati ad essere cartacei, qualcuno ha decido di usare una specie di stoffa sintetica al posto della carta, oltre a inviare un pdf per chi preferisce leggerli dal laptop.

Ognuno degli abstract inviati alla conferenza, sono sottoposti al giudizio di 10 revisori e, ciò nonostante, alcuni lavori sono decisamente insoliti… almeno per un attivista italiano. Ho trovato diversi abstract interessanti, notizie buone e altre meno. Quindi cominciamo con le buone, giusto?

Lo studio Cannabis use enhances mucosal immunity and and the microbiome in individuals with HIV, presentato dalla facoltà di medicina dell’università del Minnesota riguarda la cannabis e il buon lavoro che fa nel proteggere il microbioma e l’immunità delle mucose. Quindi, cari amici con HIV, ok che abbiamo avuto questa sfiga ma possiamo spararci canne come se piovesse. Sembra infatti che la cannabis abbia proprietà di ridurre lo stato infiammatorio e le alterazione del microbioma.

Uno studio importante e che va nella giusta direzione rispetto a quanto già detto sull’uso della doxy come pep per le IST, è Impact of Doxycycline as STI PEP on the gut microbiome, che cerca di capire cosa succede al nostro intestino assumendo quell’antibiotico. Il follow up è di circa 6 mesi per cui serviranno altri studi, ma per ora sembra non alteri in maniera significativa la flora batterica intestinale, tuttavia anche questo studio pone il dubbio perché accomuna le dosi di doxy PEP a un accumulo di ARG (antibiotic resistance genes) pur dicendo anche che servono ulteriori studi… insomma occhio a non fare troppo gli americani: funziona, lo uso.

Lo studio della Johns Hopkins su MSM sexworker (sic!), Optimizing PrEP outcomes for MSM who sell sex: the role of stigma, violence and menthal health, ci dice che in questa popolazione lo stigma è associato a un calo di aderenza nella PrEP orale daily, ma anche all’incremento di interesse per la PrEP long acting iniettiva. Quindi lo stigma è una barriera per l’accesso ai servizi sanitari. Aggiungo che una delle principali Università al mondo fa studi su prostituti maschi… la mente va alla persistente ignoranza cogliona presente nel nostro Paese dove non vengono neppure presi in considerazione… se e no si parla di sexworker donne, possibilmente cis.

Declines in HIV testing and diagnosis: unanticipated consequences of the Trump administrations’ 2019 sicuramente ha attirato la mia attenzione. Sta a vedere che Trump ha causato problemi anche in questo campo, nel caso stupirebbe quel “conseguenze inattese…”. Il programma di Trump sulla salute sessuale e riproduttiva era ben centrato sull’impedire l’aborto, da quel che ricordo. A quanto pare tutte le sue tirate sui valori della famiglia e bla bla bla hanno ottenuto una ripresa della corsa di HIV a seguito di un calo di test e un aumento di diagnosi. Fidatevi di questi esaltati conservatori!

Lo studio Long acting ART in a community Health Center, parla già da solo. Come ho letto il poster ho commentato ad alta voce “si può fare allora!”, si basta avere un sistema sanitario collaborativo e non chiuso a riccio sulla conservazione del proprio potere. Infatti lo studio evidenzia una collaborazione multidisciplinare che ha ottenuto un buon risultato. In sintesi i pazienti con HIV hanno fatto le iniezioni di cabotegravir e rilpivirina long acting in un centro di comunità. Lo studio rileva un alto tasso di mantenimento della soppressione virale e, cosa che preoccupa gli ospedali, un alto tasso di puntualità da parte dei pazienti.

Meno bello lo studio Older adult living with HIV have low expectation regarding aging, despite improved survival, mette il dito nella piaga e conferma quello che vado dicendo da tempo. E’ vero che viviamo più a lungo ma avremo una vita meno in salute dei pari età senza HIV. Per cui mi sembra ipocrita parlare oggi di aspettativa di vita – che ovviamente è un dato positivo – sarebbe più etico e corretto fare valutazioni sulla qualità della vita dopo anni che HIV ci gira dentro. Anzi lo studio lascia chiaramente intendere che il problema prescinde il numero di anni dalla diagnosi. Per cui sono necessari interventi relativi alla salute fisica e mentale di persone che spesso devono fronteggiare sindromi depressive, mancanza di supporto familiare o sociale, ecc.

Lo studio Effects of recent air pollution exposure on cognition, inflammation and neurodegeneration in HIV penso che parli da solo. Questo studio associa il comune inquinamento dell’aria all’incremento di marker infiammatori e al decadimento cognitivo, induce una risposta immunitaria nelle persone con HIV. Quindi rega tutti a Gran Canaria dove l’aria oceanica è più pulita e gli uccelli volano.

C’è poi lo studio, molto meno bello, Residual HIV viremia double CVD incidence indipendent of classical risk factor, dove, in pratica, si sostiene un’altra cosa che dico in giro da tempo: HIV è un rischio cardio vascolare in sé, che si aggiunge agli altri fattori di rischio. Anche con una viremia residuale comunemente detta non rilevabile. Infatti lo studio ha trovato marker infiammatori specifici alcuni dei quali sono presenti anche in popolazione senza HIV che ha avuto malattie cardio vascolari. Lo studio individua nella viremia residua il problema.

Da ultimo cito un case study relativo a un ragazzo di 23 anni in PrEP con i long acting iniettivi, ovviamente HIV negativo che ha dovuto interrompere le iniezioni alla quinta somministrazione a causa della perdita della tutela assicurativa. Dopo sei mesi si ripresenta in clinica per riprendere la PrEP iniettiva, fa un test anticorpale che risulta negativo e, dopo 20 giorni, riprende il trattamento. Dopo i soliti 28 giorni il ragazzo di ripresenta per il secondo set di iniezioni e ovviamente rifà il test per HIV che, poco dopo, viene restituito dal laboratorio con esito reattivo agli anticorpi e positivo al test HIV RNA con 451 copie/ml.
Due giorni dopo inzia la ART. Chiaramente lo hanno rivoltato come un calzino, esami su esami anche per studiare la sua situazione per futuro visto che, per fortuna, è molto rara. Esami sulla concentrazione del farmaco nel plasma, esami sulle resistenze che sono purtroppo arrivate, di farmacocinetica. Che dire… sappiamo tutti che il sistema sanitario USA fa acqua da tutte le parti ma questi non si rassegnano, che le assicurazioni così come gli ospedali antepongono il profitto alla salute, ecc. però è sempre qualcosa che fa resta basiti.

Di seguito trovate le foto che ho fatto ai poster, così potete darci un’occhiata anche voi.

Dopo questa vado al Bubba Gump Shrimp Co e urlo io mi chiamo Forrest Gump.

Sandro Mattioli
Plus aps

Nota di colore: stanotte ho dormito poco e male fra jet leg e allergia, per cui ho avuto la bella idea di andare presto al centro congressi. Niente di meglio di una bella passeggiata a -3 per svegliarsi… anche l’orso blu sembra darmi del pirla.

In questo tipo di conferenze le plenarie sono verosimilmente organizzate in modo oculato dalla direzione scientifica, la scelta degli argomenti ci da anche idea dell’orientamento che prende la conferenza, in termini scientifici e non solo.

La plenaria di oggi ha visto di nuovo al primo posto i vaccini. Chiunque con un minimo di esperienza ha ormai capito quanto scocci agli istituti di ricerca statunitensi il disastro degli ultimi studi sui vaccini contro HIV e, soprattutto, quanto siano preoccupati per la più che probabile perdita di finanziamenti.

Il mio inglese è lontano dalla perfezione, ma giurerei che la dott.ssa McElrath che ha inaugurato la plenaria con una lettura dal titolo “what’s new in HIV vaccines”, ha iniziato mostrando una slide con una lunga serie di studi inefficaci ed ha detto che sono studi di successo anche se poi sono andati male in termini di efficacia, il motivo è che hanno imparato moltissimo. Ripeto spero di aver capito male, ma è una mentalità “driven by money” che sembra non tener conto che i “topi da laboratorio” erano persone per lo più di Paesi in via di sviluppo. Senza nulla togliere all’importanza delle nuove conoscenze acquisite, a me sembra un modo di pensare davvero lontano dalla mia sensibilità. Detto questo a che punto siamo coi vaccini? Siamo a quello di sempre: uno dopo l’altro falliscono tutti, non funzionano ma impariamo nuove cose. Continuiamo a sperare e a studiare è ovvio, ma vorrei vedere meno titoli sensazionalistici in giro e stare su un dato di realtà perché abbiamo a che fare con delle vite. Grazie a quello che abbiamo imparato ora sono al vaglio diverse strategie, percorsi alternativi che hanno guidato la ricerca verso altri studi su nuovi vaccini. Incrociamo le dita e speriamo che vada meglio, ma è chiaro che al momento siamo ancora alle sfide e alla necessità di invogliare i giovani ricercatori a raccogliere la sfida.

Negli ultimi 20 anni ho sentito molte volte richieste di questo tenore, in genere vuol dire che ci sono delle difficoltà e sui vaccini è palese che ci sono.

La seconda lettura è stata tenuta dalla kenyana Nelly Mungo sul tema scottante del HPV. Ci ha parlato quasi esclusivamente di cancro cervicale, dichiarando con disinvoltura che si gli MSM hanno un serissimo problema di cancro anale HPV derivato, ma meno persistente per cui non ne avrebbe parlato. Io sono assolutamente favorevole alla medicina di genere e ancora più favorevole a che si parli di cancro cervicale perché è una vera piaga, ma questo non giustifica tale precisazione che denota mancanza di professionalità e serietà scientifica. Non capisco che senso ha farci vedere una slide come quella che pubblico qui a lato, per poi dire io non ne parlo. Non farla vedere e non parlarne avrebbe avuto più senso.

Detto questo, resta il fatto indiscutibile che il cancro da HPV è fra le patologie più frequenti con oltre 2 milioni di casi all’anno (dati del 2018) e, tanto per cambiare, l’Africa sub-sahariana di distingue per numero di casi e disuguaglianze nell’accesso alle vaccinazioni e ai trattamenti. Geograficamente parlando l’area di azione di HPV è pressoché sovrapponibile a quella di HIV, infatti alcuni studi citati dalla Mungo ci fanno pensare che la presenza di una infezione da HPV correli con una incrementata possibilità di contagio con HIV.

Tuttavia Nelly Mungo ci fa anche notare che il cancro alla cervice uterina è uno dei pochi dove la prevenzione è possibile ed efficace grazie agli screening sulle lesioni pre-cancerose, alla vaccinazione efficace già con una sola dose (presenta diversi studi a sostegno della tesi), ecc. Tuttavia sono ancora molte le sfide che vanno dall’implementazione della dose singola, all’incremento dei test di screening e cita soprattutto le donne che vivono con HIV.

Chiude dicendo che le comunità non devono ignorare le malattie derivate dall’azione di HPV, il che è buffo stante lei ha deciso di ignorare gli MSM. Mah…

Ho deciso di seguire una sessione sulla prevenzione perché sono stati presentati i dati relativi a un primo studio sul TAF (Tenofovir alafenamide) su impianto sottocutaneo annuale di silicone. I dati preclinici su modelli animali erano buoni, ma lo studio – tenuto in Sud Africa su donne cis – non è andato ugualmente bene. Il numero relativamente esiguo di arruolate, 36, denota che si tratta di un primo approccio al tema, ma resta il fatto che il 31% non ha tollerato l’impianto che è stato rimosso prima della fine dello studio, in aggiunta numerose donne hanno avuto problemi cutanei nella zona di inserimento pertanto il risultato finale – poor tolerability – non è stato un successo.

A seguire sono stati presentati diversi studi sulla famosa doxypep ossia la profilassi post esposizione con un antibiotico (la doxiciclina) che sembrava dare buoni risultati contro gonorrea, clamidia e sifilide. Purtroppo non è così semplice.

Forse ricorderete che in un post sulla conferenza EACS avevo descritto i dati preliminari dello studio di Molina – il papà della PrEP on demand – su doxypep e vaccino contro meningococco B (menB). A questo CROI hanno presentato i dati finali dai quali è emerso che il menB sembra meno efficace del previsto contro gonorrea, pur nella necessità di altri studi non mi sembra un dato da prendere sottogamba. Doxy è si efficace contro clamidia e sifilide, ma visibilmente meno contro gonorrea dove si registra lo sviluppo di resistenze nel 35% dei casi.

Gli studi americani presentati partono da un presupposto diverso. In estrema sintesi: c’è un background di crescita di IST che la doxy abbatte, dunque la diamo a tutti poi l’utente deciderà quando usarla. Nessun accenno a counselling almeno di ordine medico, immagino che venga fatto. Trovo sconcertante questo modus operandi non foss’altro per il fatto che la strategia test and treat sappiamo che funziona e che può essere utilizzata e promossa nel mentre che cerchiamo di capire se è il caso di rischiare di giocarci un antibiotico importante, rispetto alla cui azione qualcuno pone dubbi sul comportamento degli altri batteri che ospitiamo nel nostro corpo. Tanto è vero che nelle conclusioni si richiama la necessità di studi di più lunga durata, ma nel frattempo la usiamo. OK.

Come sapete Plus ha sempre basato le sue decisioni e le sue battaglie partendo dall’evidenza scientifica. Su doxypep non mi sembra proprio che ci siano tali evidenze, il fatto che funzioni contro clamidia è un dato che sembra chiaro, ma è sufficiente rispetto a ciò che ancora non sappiamo per certo. Inoltre, piccolo dato di natura burocratica, in Italia non ci sono linee guida sul tema. Visto che non siamo disarmati, che non parliamo di patologie letali, che abbiamo già strategie che funzionano, non vedo la necessità di affrettare decisioni senza avere dati definitivi.

Sandro Mattioli
Plus aps

Nelle grandi conferenze le “opening session” comprendono i saluti del/dei presidenti della conferenza che mostrano una serie di dati positivi, seguono le letture magistrali utili, a chi non è proprio invornito, a indicare la direzione verso cui la conferenza si orienta o, quantomeno, a denotare quali sono i punti salienti nella lotta contro HIV e altre infezioni che la direzione scientifica ha ritenuto importante sottolineare.

CROI ha seguito questa “tradizione”. Il Presidente del CROI ci ha mostrato i dati della conferenza:

3.635 partecipanti in presenza, più 438 virtuali, in rappresentanza di 73 Paesi. Il 38% dei partecipanti non è statunitense e costoro hanno presentato 359 abstract. Poi dicono che è la più importante conferenza al mondo. In totali gli abstract sono stati 1.682, accettati 966. Infatti ogni abstract subisce la review di 10 esperti interni e esterni. Sono state erogate 261 scholarship a giovani ricercatori (42 internazionali), 22 community educator (ricordo che è una conferenza medica, ma che comunque trova il modo di collaborare con la comunità dei pazienti). La conferenza si tiene nella cornice del Colorado Convention Center caratterizzata dalla presenza di una gigantesca statua che rappresenta un orso blu che sembra voler entrare.

Sono state presentate 3 letture magistrali. Come avviene anche in Italia, sia pur con qualche insistenza, le 3 letture sono dedicate a personaggi che hanno profondamente segnato la storia della lotta contro HIV, e sono la Bernard Field lecture che ha visto la presentazione di B. S. Graham (Vaccine Research Center NIAID, USA), la N’Galy-Mann lecture con la presentazione di D. M’bori-Ngacha (UN Children’s Fund, Kenya) e la Martin Delaney trattata da F. Mugisha, un bravissimo attivista di Sexual Minorities Uganda (SMUG), Uganda.

Con il titolo “Modern Vaccinology: a legacy of HIV research”, Barney Graham ha ampiamente parlato di vaccini. Dopo l’ennesimo insuccesso degli studi Mosaico e Imbodoko, era atteso che la comunità scientifica USA ponesse l’accento sull’importanza di insistere a cercare un modo per vaccinare la popolazione mondiale contro HIV, con buona pace degli indubbi risultati ottenuti coi farmaci. Tutta la presentazione è stata incentrata sui successi “altri” in questo campo, covid incluso perché, con buona pace degli scettici, in breve tempo la scienza ha trovato il modo di limitare fortemente i contagi… sempre che si nasca nel posto “giusto”, ovviamente. Buona parte della presentazione è stata usata per dimostrare come le nuove tecnologie, pressoché tutte sviluppate per cercare un vaccino contro HIV, hanno potuto accelerare in modo impressionate lo sviluppo e la produzione di vaccini. In poche parole con le tecnologie del 20simo secolo ci sono voluti anni per sviluppare i vaccini, in qualche caso decadi. Il 21esimo secolo ha visto uno sviluppo impressionante delle tecnologie vaccinali, tecnologie che ci consentono di individuare e produrre vaccini in pochi anni se non addirittura mesi. Il virus del covid, che ha contagiato 800 milioni di persone e si stima che ne abbia uccise 30, è stato messo sotto controllo nel giro di un paio di anni grazie alle vaccinazioni … in Africa meno del 5% della popolazione era stata immunizzata a fine 2021, ma si sa che prima viene chi ha soldi.

In conclusione l’anziano ricercatore spara tutte le sue cartucce: stiamo vivendo una nuova era per la scienza dei vaccini grazie alle nuove tecnologie derivate dalla ricerca su HIV. La progettazione precisa dell’antigene con la produzione rapida di piattaforme fornisce una soluzione ingegneristica per ottenere approcci vaccinali generalizzabili e, quindi, stigmatizza il fatto che dopo Mosaico sono crollati gli investimenti su sul vaccino per HIV che, del resto, ancora non sappiamo come fermare.

Dorothy M’bori-Ngacha ha ci ha offerto uno spaccato dei problemi sulla ricerca relativa all’allattamento al seno, in particolare in Africa ma non solo. Come è facile immaginare non è il nostro campo di azione, ma comunque va citata perché per molti paesi del cosiddetto terzo mondo questo è l’unico modo per non far morire di fame i neonati il che ci porta agli oltre 3 milioni di bambini contagiati per questa via. Un dato in calo negli ultimi anni, ma pur sempre con numeri inimmaginabili per le possibilità che abbiamo oggi. Del resto le possibilità di accesso alla terapia per le madri cambiano profondamente da regione a regione in Africa e sul piano globale l’incidenza dell’infezione da HIV fra le donne incinte e che allattano al seno resta una importante fonte di infezioni pediatriche da HIV.

Come già scritto, la presentazione di Frank Mugisha dal titolo “Unveiling the power of Uganda’s LGBTIQ advocacy in shaping HIV response and health care”, è stata la più emozionante della apertura. Mugisha con la prima slide ci mostra re Mwanga II che in epoca pre-coloniale, riconosceva il valore delle coppie dello stesso sesso tanto che era cosa nota che avesse un consorte maschio. Tuttavia con l’avvento del colonialismo, l’influenza britannica portò a criminalizzare e stigmatizzare gli omosessuali. Oggi dei 55 stati africani, in ben 33 l’omosessualità è un crimine punito con il carcere. Visioni alternative su sessualità e genere sono sempre esistente nei vari paesi africani, tuttavia oggi è in atto una criminalizzazione estesa: Kenya, Ghana Namibia, Niger, Tanzania a Uganda hanno fatto passi per finalizzare leggi anti omosessualità. Anche nei Paesi dove ci sono stati alcuni progressi nei diritti LGBTQ+, stanno venendo avanti situazioni stigmatizzanti. Per esempio nel Sud Africa che pure offre una importante protezione legale, continuano a verificarsi scontri contro le persone LGBT tanto che nel 2021 almeno 24 persone sono state uccise a causa di attacchi motivati da pregiudizi. Nelle Seycelles, che nel 2016 hanno decriminalizzato il sesso gay, persistono ambiguità normative sui diritti delle persone LGBTQ+ che li lasciano vulnerabili e senza protezione legale in vari aspetti della vita. Peraltro, l’Uganda non è nuovo a questo approccio: già nel 1950 un nuovo articolo del codice penale – penale! – mette fuorilegge le relazioni fra persone dello stesso sesso. Similmente all’Italia, anche in Uganda parlare di sesso è un tabu così come le è essere identificati come gay. In generale grazie a queste manovre normative, si è dato la stura a una disapprovazione sociale verso gli omosessuali che vengono rifiutati, ostracizzati.

Ovviamente le cose non succedono per caso. Come accade anche in Italia, da tempo in Uganda gruppi religiosi anti gay e anti gender lavorano per radicalizzare nel paese sentimenti di odio inventando miti e cospirazioni che portano a equiparare gli omosessuali ai pedofili o che reclutano giovani per trasformarli in gay, ecc. Queste idiozie compaiono da anni su tutte le piattaforme social anche attraverso interviste sensazionalistiche con ex attivisti gay. Situazione che non solo creano timori negli ugandesi, ma anche odio che, a sua volta, porta a molestie e violenze.

L’associazione di Frank, SMUG, è stata chiusa d’autorità nel 2022 dal Governo che, allo stesso tempo, ha prodotto una lista di 22 NGO da chiudere perché promuovono l’omosessualità. A maggio 2023 il presidente ha firmato una legge anti omosessualità. Del resto è la seconda volta che accade: nel 2009 venne firmata una legge denominata “Kill the Gay”. Attualmente Frank e altri attivisti si sono rivolti ai tribunali perché blocchino la legge del 2023 e a breve dovrebbe esserci la sentenza.

La nuova legge introduce il reato di omosessualità aggravata che prevede la pena di morte. Per esempio l’aggravante è fare sesso consensuale con una persona HIV+ dello stesso sesso. Inoltre introduce il reato di promozione dell’omosessualità, mettendo di fatto fuori legge tutti gli attivisti che rischiano fino a 20 anni di prigione. I medici, i datori di lavoro e perfino i familiari sono tenuti a denunciare chiunque sia sospettato di essere omosessuale.

In altre parole, i servizi sanitari, soprattutto in ambito sessuale, per le persone LGBT sono diventati irregolari e inadeguati.

La legge è arrivata al culmine di una lunga serie di violenze e abusi. Oltre 300 casi sono i casi di violazione dei diritti umani, abusi e violenze motivati dall’omofobia che SMUG ha documentato quali sfratti, trasferimenti forzati così come casi di tortura, trattamento degradante, aggressioni commessi da privato o dallo stato. Le conseguenze, come era facile immaginare, vedono un palese incremento di problemi di salute mentale così come traumi. Gay esiliati dentro e fuori il Paese, aumento dei senza tetto, violenze sessuali, esami anale forzati. Abusi amplificati dai media con arresti sensazionalistici (mi ricorda qualcosa accaduto anche da noi). Lo scorso gennaio un attivista amico di Frank è stato attaccato e accoltellato per la strada, al punto che ha dovuto subire un delicato intervento chirurgico.

Una norma, quindi, che finirà per incidere anche sull’epidemia da HIV che pur l’Uganda era riuscito a gestire meglio di altri. La discriminazione genera un sentimento di paura che scoraggia le persone LGBT+ dal rivolgersi ai centri per il test HIV, ai servizi di prevenzione e trattamento perché temono di essere giudicati, discriminati, di subire violenze e ripercussioni legali. Nonostante che il Ministero della salute ugandese abbia emanato 2 circolari con l’invito al personale sanitario a non discriminare (maledetti ipocriti), il numero di persone LGBT+ che si rivolte ai servizi sanitari continua a calare appunto a motivo della legge discriminatoria che erode la fiducia verso i servizi sanitari pubblici e rende più complicato l’accesso e ricevere servizi adeguati.

Frank è molto educato ma è evidente che assegna buona parte della responsabilità della situazione ai leader anti gay e anti gender, per lo più occidentali, che li ritrova a fianco dei politici e dei leader religiosi africani a minare i diritti LGBTQ+, a promuovere le terapie di conversione come cura per l’omosessualità ecc. e cita Open Democracy per l’Uganda come uno di questi influenti gruppi foraggiati da gruppi cristiani oltranzisti occidentali.

Qualcosa di simile viene tentato anche in Europa e in USA ma con importanti battute d’arresto, forse grazie a una società civile forte che, in molti casi, reagisce. Per cui l’Africa è percepita come il campo di battaglia finale da alcuni gruppi cristiani estremisti che diffondono sentimenti di odio contro i gay attraverso la “promozione dei valori della famiglia”. A ben vedere, conclude Frank, è l’omofobia, non l’omosessualità, che è estranea all’Africa.

Non è solo un suo parere, ci sono evidenze: nel 2023 il Parlamento ugandese ha organizzato la conferenza “family values”, i contenuti della conferenza erano totalmente anti gay e anti gender (pure questo mi ricorda qualcosa), gli invitati erano tutti attivisti anti gay/gender di altri stati africani, nel comunicato finale la conferenza (organizzato da un organo dello Stato, lo ricordo) invitata tutti gli stati africani a dotarsi di leggi simili, un parlamentare kenyano, che era presente, ha poi portato in Parlamento un progetto di legge anti gay. Questo è un po’ il trend che si sta verificando in Africa.

Il dato positivo è che davanti a questa legge molti stakeholder si stanno muovendo, è stato perfino organizzato un Pride in Uganda. Gli USA usano la Pepfar come sanzione, hanno posto il visto d’ingresso, avvisi per chi viaggia in Uganda, le banche internazionali hanno bloccato i prestiti. Le grandi aziende multinazionali (Google, Amex, AT&T, Microsoft, ecc.) si sono espresse contro questa legge dando la stura ad un effetto negativo su alcuni interessi economici, la comunità LGBTQ+ locale e internazionale sta agendo. Frank chiude chiedendo anche la solidarietà dei clinici presenti, perché la situazione sanitaria sta peggiorando in particolare su HIV.

Una relazione forte e commovente allo stesso tempo che la platea ha salutato con un lungo applauso, al quale, spero, seguano azioni della IAS con contrastare questa assurda situazione.

Sandro Mattioli
Plus aps

Devo dire la verità: ho fortemente voluto partecipare a questa conferenza CROI (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infection) perché, oltre ovviamente ad essere una delle principali al mondo, è a Denver.

Denver (Colorado, USA) è il luogo dove nel 1983 un gruppo di attivisti delle primissime battaglie contro la discriminazione delle persone sieropositive, scrissero e pubblicarono una carta di principi che sono stati e sono ancora oggi basilari per qualunque attività di advocate su HIV e che sono il fulcro della mia azione di attivista HIV positivo.

Buona parte del lavoro che facciamo oggi nel CTS, nelle commissioni regionali AIDS (cambiare nome, no?), nelle associazioni di pazienti e di lotta contro HIV, con e per le persone che vivono con HIV si basa sulla carta di Denver, sul lavoro che ci hanno lasciato dei ragazzi prima di morire di HIV.

Pur nella loro condizione, queste persone hanno scritto dell’importanza dell’empowerment di chi vive con HIV (perché l’ignoranza e la non accettazione ci fanno morire prima), dell’importanza di essere trattati con dignità (in un periodo in cui le persone con HIV venivano abbandonate a loro stesse, anche dalle famiglie, per la vergogna); dell’importanza di essere inclusi sulle decisioni che ci riguardano (nothing on us without us) cosa che ancora oggi in Italia è pochissimo rispettata spesso per assurde posizioni burocratiche praticate da chi, sanità pubblica o multinazionali per esempio, tende ad anteporre le procedure agli interessi dei pazienti; l’importanza del linguaggio e la condanna di ogni tentativo di pietismo e di relegarci in una condizione di sottomissione, di vergogna, di passività. “People living with HIV/AIDS”, che ho usato anche qui sopra, è una definizione che risale ai principi.

Queste persone non si sono rassegnate e sono un esempio per tutti coloro che vivono con HIV.

Per me è un onore calpestare le stesse strade che li hanno visti in azione, quando in Italia il Ministro della Salute prendeva sottogamba l’epidemia e pretendeva di combatterla con l’etica e la morale cattolica, quando gli omosessuali, che ora chiamiamo MSM, vivevano ancora troppo nascosti e le statistiche si concentravano falsamente altrove, quando perfino il movimento decise che di questo tema se ne sarebbero occupati altri per paura della discriminazione o dell’eccesso di impegno per i quattro gatti che si davano da fare allora. Poi si chiedono perché mi inalbero quando gli MSM, pur essendo una popolazione chiave in UE, non vengono presi in considerazione a livello di strategie di prevenzione e ci dobbiamo sbattere con i Checkpoint per colmare le difficoltà del Sistema Sanitario. E ciò nonostante, ancora oggi c’è una minoranza della popolazione italiana che produce il 40% delle nuove diagnosi, ma non sembra che la cosa sia di grande interesse. Ecco… capite perché il principio di Denver sull’empowerment è così importante? Se non pensiamo noi a noi stessi, non lo farà nessuno incluso il cosiddetto movimento LGBTQ+, tanto attento a mille sfaccettature umane, ma distratto e distante dalla discriminazione multipla subita dalle persone MSM che vivono con HIV. Una discriminazione radicata e, spesso, interiorizzata, a tal punto da essere comunemente accettata, ma è proprio in questa condizione passivamente subita dalla community LGBT+ che HIV trova spazio di azione.

Sono stati fatti molti passi in avanti nella lotta contro l’epidemia da HIV. I ragazzi di Denver lottavano per le loro vite, noi oggi lottiamo per la qualità della vita che, in estrema sintesi, significa cercare di non morire per quelle patologie che HIV aiuta a svilupparsi, cancro e problemi cardiovascolari in primis. Detto questo, rispetto agli attivisti di Denver noi viviamo molto più a lungo, noi possiamo ragionare in termini di decenni non di mesi e sicuramente non è poco. Tuttavia, chi crede che la lotta contro HIV sia finita commette un errore clamoroso. Non è un caso che non abbiamo una cura eradicante e che i ricercatori ammettano, a denti stretti, che non abbiamo gli strumenti per trovarla. Il vaccino, a ben vedere, non gode di miglior salute stante che tutti gli studi tentati fino ad oggi sono clamorosamente falliti, incluso il Mosaica sul quale c’erano molte attese e speranze. Tuttavia molti pensano che HIV non sia un grosso problema. In Italia molti pensano che sia un problema del Continente africano o dei gay e mettono la testa sotto la sabbia.

In questi giorni, alla conferenza CROI potremo fare il punto della situazione su tutto ciò che riguarda questo virus che ci accompagna da troppo tempo e che nel mio Paese è ancora causa di stigma e discriminazione nei confronti delle persone omosessuali.

Sandro Mattioli
Plus aps