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Chi ha letto i miei report degli anni precedenti, oltre a guadagnare punti per il paradiso, saprà che tendo a dare la precedenza alle plenarie perché normalmente gli interventi effettuati davanti a oltre 3.000 persone sono i più importanti.
I temi trattati nella prima plenaria, spesso danno l’idea dell’orientamento che avrà la conferenza o di ciò che “bolle in pentola” e, con gli interventi del Governo federale, bollono parecchie cose.

È interessante notare che la prima lettura è stata HIV Cure: A Translational Research Perspective, Ole S. Søgaard, Aarhus University, Aarhus, Denmark. Ma guarda un po’: il primo tema della prima plenaria è proprio la cura, ossia a che punto siamo con il trattamento per guarire da HIV.

La ricerca traslazionale, per dirla in parole povere, cerca di realizzare nuovi strumenti clinici a partire dalle scoperte scientifiche degli studi.
La foto del soffitto del ponte coperto che collega le due aree del centro congressi Moscone, (dedicato al Sindaco di S. Francisco assassinato insieme a Harvey Milk nel 1978) rende l’idea: per eliminare HIV, è necessario trovare l’unica lucina fasulla, ma in apparenza uguale alle altre, fra tutte quelle lucine. Togliere HIV dal nostro corpo è cosa estremamente complessa e il dott. Søgaard ce lo ha fatto capire molto chiaramente.

La HSCT, ossia il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (Hematopoietic stem cell transplantation), può curare ma non è sicura, volendo usare un garbato eufemismo stante che circa il 20% dei trapiantati muore. Tuttavia è una prova che HIV può essere curato.

Il problema principale nella lotta contro HIV è che il virus si integra nel DNA umano e lo si trova ovunque nel corpo. Ora… ovviamente comprendo che si tratta di un tema estremamente complicato, che abbiamo strumenti limitati, che queste ricerche costano moltissimo, lo comprendo. Ma quello che a mio avviso è importante è tenere un faro puntato su questo tema. Quando mi chiedono quali sono i bisogni insoddisfatti delle persone con HIV, la prima cosa che penso è che non siamo ancora guariti.

Tutti i pazienti tendono a voler guarire, perfino chi ha un cancro in fase terminale cerca una via per farcela. Chissà perché a noi questo obiettivo pare che non sia concesso, invece è un obiettivo politico da tenere sempre, costantemente sullo sfondo. Io sono un attivista, un politico, non un ricercatore e penso che in questa vicenda ognuno deve fare il suo mestiere. Il mio è quello di spingere perché i ricercatori trovino una soluzione, la ricerca la deve trovare.

Il dott. Søgaard è un ricercatore con il giusto atteggiamento e parte in quarta a descrivere le strategie perseguibili per eliminare HIV: 1) prendere di mira il provirus, 2) migliorare la risposta immunitaria. Sulla carta ci sono vari modi per raggiungere questi obiettivi ma sono tutti ancora in fase di studio, alcuni anche da molto tempo come la strategia “shock and kill”, fin’ora con scarsi risultati: si è visto che le LRA (Latency-reversing agents) possono incrementare HIV nelle cellule e nel plasma, ma non hanno alcun impatto nei reservoir. Ci sono poi le modifiche genetiche, la sfida dei vaccini terapeutici, gli inibitori del checkpoint a sua volta una forma di immunoterapia o gli anticorpi neutralizzanti.

Ci ha anche dato un’idea della cosiddetta cura funzionale, ossia la soppressione immuno-mediata della replicazione virale, ma anche su questo si parla di attendere anni.

Secondo il relatore, la ricerca si dovrebbe orientare verso:

  • Riduzione dei reservoir
    • abbiamo bisogno di strategie più specifiche e potenti per ridurre i reservoir (in modo sicuro)
  • indurre il controllo virale
    • acquisire una migliore comprensione di come e quando colpire la persistenza dell’HIVcostruire sulla base dei segnali positivi che arrivano dagli studi attualmente in corsoesplorare interventi combinati volti a migliorare l’immunità adattativa specifica
    • sviluppare strategie per superare la disfunzione immunitaria in coloro che hanno iniziato tardi la terapia antiretrovirale
  • mantenere il controllo virologico
    • esplorare approcci e modalità per mantenere alti livelli di aNAb (anticorpi neutralizzanti) e cellule T specifiche per l’HIV

Nella presentazione successiva, Chris Beyrer, del Duke Global Health Institute, Durham, NC, USA, ci ha relazionato sul tema The global HIV/AIDS pandemic: where are we now?

In sé un titolo tipico del riempitivo, non molto allettante, invece è stato vero il contrario. Il relatore ha esordito dicendo che l’accesso al trattamento ARV deve continuare… perché già alle attuali condizioni il 23% delle persone con HIV non è in terapia, nel mondo, e infatti il numero di morti per AIDS non sta calando con la rapidità attesa e le stime UNaids sul numero di nuove diagnosi è di 1 milione 300 mila persone nel 2023, un numero sottostimato a partire dal fatto che i dati ufficiali della Russia sono troppo bassi, almeno il 50% dei casi non vengono dichiarati.

In altre parole:

  • non abbiamo raggiunto gli obiettivi di UNAIDS 2025, tenendo presente che incidenza e mortalità per HIV sono in calo, ma troppo lentamente
  • l’incidenza in particolare è ancora troppo alta per poter raggiungere il controllo dell’epidemia per il 2025
  • in 3 Regioni (Europa e Asia Centrale, America Latina, Medio Oriente e Nord Africa nel 2025 sono in espansione epidemiologica

Anche nei Paesi dove le cose non vanno male, alcune fasce di popolazione continuano ad avere una incidenza ostinatamente alta (per esempio gli MSM afro-americani in USA).

Il relatore propone alcuni messaggi chiave:

  •  Per ottenere il controllo dell’epidemia serve implementare in modo significativo i programmi di prevenzione primaria
  • Purtroppo, a parte la prevenzione materno-fetale, i programmi di prevenzione finanziato con la PEPFAR sono in pausa
  • L’aderenza alla prevenzione primaria, compresi gli iniettabili a lunga azione, potrebbe ridurre notevolmente l’incidenza dell’HIV, ma solo se applicata su larga scala sia alla popolazione ad alta densità di incidenza (MSM, Sex Worker, TGW, ragazze adolescenti (AGYW) in contesti ad alto carico) sia a quella a bassa incidenza.
  • Per raggiungere il controllo epidemico occorre che oltre 40 milioni di persone sia messo in PrEP.

In questo quadro i cambiamenti apportati dal governo federale USA alle politiche sanitarie stanno creando un vero caos.

Per rendere l’idea,

prima della PEPFARCon PEPFAR
nei paesi africani ad alto tasso di HIVDopo oltre 20 anni e 110 miliardi di dollari investiti
l’aspettativa di vita media stava diminuendo di 10-30 anni25 milioni di vite salvate – hanno aiutato a colmare il divario di aspettativa di vita nei Paesi supportati
Il prodotto interno lordo in calo del 2,6% all’anno20,5 milioni di persone in ART
29 milioni di persone contagiate e senza accesso ai farmaci5,5 milioni di bambini nati senza HIV
Prodotto interno lordo pro capite in crescita del 2,1%

L’impatto atteso della PEPFAR nel periodo 2024-2030 era già stato calcolato e prevedeva, per esempio, 5,2 milioni di morti in meno nei 12 Paesi supportati, ma senza PEPFAR si prevede:

  • un aumento del 400% di morti per patologie AIDS correlate
  • raddoppio degli orfani a causa dell’AIDS dal 2023
  • la PrEP verrà offerta solo alle donne incinte o in allattamento

Le popolazioni chiave vengono rimosse dagli indicatori, dai report di monitoraggio, dalle linee guida, dal flusso di immissione dati e dai modelli.
Fra le sex worker si prevede un incremento del 30% di nuove infezioni, il 20% fra MSM e donne trans, il 15% fra drug user.

Sandro Mattioli
Plus aps

Recentemente mi è capitato sottomano l’abstract di uno studio francese (They Have to Make an Effort Too”: What Decliners Can Teach Us About HIV Cure/Remission-Related Clinical Trials? Results from a French Qualitative Study) che analizza le motivazioni che hanno spinto le persone con HIV a rifiutarsi di partecipare agli studi sulla cura di HIV. Studi che includono la famigerata ATI: analytical treatment interruption. Gli studi sulla cura, infatti, prevedono la sospensione del trattamento anti retrovirale.

Si tratta di qualcosa considerata morta e sepolta dalla pubblicazione dei risultati dello studio SMART (Strategies for Management of Anti-Retroviral Therapy), che arruolò 5.472 pazienti randomizzati a proseguire la terapia o a fare interruzioni strutturate in base al numero di CD4; dimostrò che tale strategia determinava un significativo incremento di mortalità e di complicanze cardiovascolari.

Le persone con HIV meno giovani, ricorderanno che prima dello SMART era “di moda” la cosiddetta vacanza terapeutica, ossia la sospensione della terapia ARV per un certo periodo di tempo al fine di “dare respiro” all’organismo e consentirgli di riprendersi dallo stress del trattamento ARV. Salvo poi capire, grazie allo studio SMART appunto, che la sospensione è stata un grave errore che ha messo a rischio la salute dei sieropositivi… come se non ne avessimo già abbastanza.

Tornato allo studio francese, la cosa che ha sorpreso anche i ricercatori è che la motivazione di fondo per il rifiuto non era tanto la ATI, quanto i frequenti monitoraggi. Una delle ragioni di fondo del rifiuto è stata che partecipare avrebbe significato “rompere l’atteggiamento spensierato nei confronti della malattia“, riflettendo il notevole peso psicologico associato alla partecipazione.

L’atteggiamento spensierato mi ha lasciato di stucco. Mi rendo perfettamente conto che è un pensiero sempre più diffuso anche basato sull’efficacia delle terapie, su U=U, ecc. Tengo conto del fatto che oltre 40 anni di paura di HIV possono spingere a sopravvalutare le condizioni attuali che se, da un lato, ci consentono di tenere sotto controllo la replicazione virale e di tenere lontano lo spettro di una malattia mortale, dall’altro non ci hanno risolto il problema. HIV è ancora li e cerca ugualmente di ammazzarci. Sono ancora tantissime le cose che non sappiamo di HIV, infatti non abbiamo né una cura né un vaccino per questo motivo non perché le multinazionali tendono nascosta la molecola che abbatte HIV, con buona pace dei complottisti. HIV è ancora pericoloso perché la sua semplice presenza nell’organismo, anche residuale, anche defettiva, attiva il sistema immunitario che provoca una infiammazione cronica, che con il tempo porta verso l’invecchiamento accelerato, la formazione di neoplasie, problemi cardiovascolari, ecc. e anche quella faccenda dell’aspettativa di vita equivalente alla popolazione generale, intanto non è ancora uguale e soprattutto si applica a chi ha avuto una diagnosi precoce. In Italia il 60% delle nuove diagnosi è tardivo, un dato imbarazzante per un Paese industrializzato.

In altre parole, HIV cerca di ammazzarci lo stesso, anche se la via che gli è rimasta è molto più lenta, lunga e tortuosa rispetto a quella dell’AIDS.

Con questo non intendo dire che dobbiamo vivere una vita fatta di preoccupazioni e pensieri di morte, ovviamente no. Ma atteggiamento spensierato spesso significa non voler sapere, non accedere alle informazioni, addirittura non voler conoscere il proprio stato di salute. Mi capita di frequente di parlare con persone con HIV che non hanno idea del loro stato di salute, non sanno quanti CD4 hanno e si limitano a rispondere il medico dice che sto bene, e tanto gli basta. Evidentemente hanno scelto di non volere nessun livello di consapevolezza, di partecipazione alla gestione della patologia cosa che, tra parentesi, potrebbe risultare limitante anche per il medico se serio.

In altre parole la spensieratezza è letta come superficialità, un atteggiamento che aiuta molto HIV nel suo lento ma costante progredire in Italia e nel mondo.

Nel nostro Paese c’è pochissima conoscenza di HIV, ignoranza = paura scriveva Act Up, per cui chiunque diffonda messaggi di prevenzione anche se belli e concettualmente avanzanti ne deve tenere conto. La volontà di normalizzazione del test per HIV, per esempio, che da alcuni anni viene portata avanti da numerosi enti e perfino qualche associazione, pur corretta e condivisibile, inserita nel contesto italiano sta ratificando l’idea generale che HIV sia un problema risolto e che non ha senso perdere tempo e farsi venire l’ansia per fare dei test, “alla peggio prenderò una pillola al giorno, che sarà mai” – come mi ha scritto un ragazzo pochi mesi fa – “come per la pressione alta”, come se assumere il ramipril per l’ipertensione o un farmaco anti retrovirale per HIV fosse la stessa cosa. Oggi è contro questa idea facilona che dobbiamo combattere perché pur tenendo conto del progresso scientifico incredibile, nel quadro dato HIV è ancora pericoloso.

Sandro Mattioli
Plus aps

Qualunque persona affetta da una qualsiasi patologia vuole guarire. Perfino quelli segnati dal destino, di solito lottano. Le prime persone colpite da HIV spesso provavano su sé stessi qualsiasi prodotto, farmaco, radice che potesse irrobustire il sistema immunitario e magari guadagnare qualche mese di vita.

Come sostengo ormai da anni, HIV non è finito. Abbiamo scelto di credere che le attuali armi che la scienza ci ha messo a disposizione siano risolutive, ma non è così.

Abbiamo guadagnato anni, anche decenni, di vita (il che non è poco!) ma HIV è ancora li. Se oggi i farmaci ARV hanno bloccato la progressione verso la fase avanzata della malattia impedendo la realizzazione del deficit immunitario che infiniti addusse lutti, abbiamo HIV ancora presente nel corpo, malconcio ma ancora capace di qualche azione replicativa sia pur residuale, ancora in grado di produrre qualche enzima anche se defettivo. La sola presenza di HIV o dei suoi “scarti di produzione” attiva il sistema immunitario che avvia il normale processo infiammatorio quello si cronico, e sistemico. Ottimo, penserà qualcuno, così saremo super protetti. No carə, non funziona così. Il sistema immunitario va attivato on demand – come la PrEP – se è sempre attivo alla lunga causa danni al nostro corpo, al cervello, al cuore, alle ossa, a fegato, reni. Non è per caso che sempre più studi scientifici ci parlano di invecchiamento accelerato delle persone con HIV, da non confondersi con il fatto che viviamo più a lungo. Invecchiamento accelerato causato dall’azione di HIV, vuol dire che nella decade dei 60 anni avremo i problemi geriatrici che la popolazione generale ha nei loro 80 a partire dalla sindrome geriatrica.

Un logoramento generale che porta a diagnosi di cancro, in particolare HPV correlato, molto più frequenti rispetto alla popolazione generale.

Non so bene il motivo, ma sembra che noi per primi – attivisti – ci siamo seduti. Ci siamo accontentati, abbiamo smesso di sognare e spingere perché la ricerca affronti questi temi in modo serio. Al contrario sento spesso ricercatori chiedere se vogliamo vivere per sempre. Domanda ovviamente stupida ma comprensibile stante il fatto che siamo noi, non loro, ad avere una patologia a possibile esito infausto, siamo noi a dover insistere perché la scienza ci dia delle risposte.

Sarò strano, ma non mi voglio arrendere. Come ci sono andato io su google a fare una ricerca sul carcinoma all’esofago, ci sarà andato anche Giulio Maria Corbelli. Ma, nonostante le basse percentuali di sopravvivenza, Giulio non si è mai arreso. Nel comunicarmi la diagnosi di cancro, ha subito aggiunto “non ti azzardare a togliermi delle responsabilità”.

Non capirò mai perché per HIV debba diverso. Io voglio guarire, voi?

Sandro.

“È un problema dei gay!”

“È un problema degli africani!”

O peggio ancora: “perché farmi venire l’ansia per il test, nella peggiore delle ipotesi prenderò 1 pillola al giorno come per tante altre malattie. Non è un gran problema.”

Queste sono alcune delle risposte che ci vennero date all’Università di Bologna, quando aiutammo un gruppo di studentesse per una tesi che comprendeva una piccola survey.
Non ne sono particolarmente stupito per vari motivi.
In molti dicono che di HIV non se ne parla più, lo dicono soprattutto coloro che si occupano di informazione e, di conseguenza, di fare cultura sul tema. Ma c’è dell’altro: quando se ne parla in termini “seri”, si tende a normalizzare HIV e tutto ciò che gli gira intorno: i test, le terapie, ecc.

Ma è davvero così?

Una cosa è vera: di HIV non se ne parla molto e, grazie a questo, oggi ci troviamo a sguazzare in una situazione di ignoranza generale. In questo quadro la normalizzazione richiamata spesso dagli stessi specialisti, finisce per essere un danno. Ormai buona parte della popolazione non considera più HIV un problema o al massimo lo relega in ambiti particolari: il mondo omosessuale, chi è promiscuo, ecc.

In altre parole piano piano stiamo tornando alle idiozie che i bravi cattolici sostenevano negli anni ’80 quando addirittura il ministro della sanità dichiarava che l’infezione se la prende chi se la va a cercare. Del resto era in buona compagnia: la gerarchia cattolica non era da meno, fior di cardinali e perfino due papi si sono battuti affinché fosse l’etica cattolica a guidare la lotta contro questa epidemia mondiale, con buona pace delle informazioni scientifiche.
Del resto anche negli Stati Uniti, land of the free, ci fu chi propose al Congresso di chiamare G.R.I.D. (gay related immunodeficiency disease) quello che oggi, per fortuna, si chiama AIDS.

Torniamo al tema ma restiamo negli anni ’80. Keith Haring, uno dei padri della street art e della cultura pop, nel 1989 produsse un’opera diventata il manifesto della lotta contro HIV, dal titolo quanto mai attuale Ignorance = Fear / Silence = Death. La parte “Ignoranza = Paura” ci spiega come la mancanza di conoscenza su HIV fa sì che le persone abbiano paura di questa infezione e delle persone HIV positive, mentre la parte dell’immagine “Silenzio = Morte” rappresenta come la mancanza di consapevolezza e conoscenza porterà a più sofferenza e morte per le persone.
Chissà, forse è per questo che ancora oggi un milione e mezzo di persone ogni anno si contagiano. E non solo in Africa, come sosteneva quello studente ignorante, ma anche in Europa. In termini di contagi la situazione in Europa orientale e in Russia in particolare non ha niente da invidiare all’Africa Sub Sahariana.

Anche solo per il fatto che i contagi non calano nonostante gli indubbi passi in avanti della ricerca, avremmo dovuto capire che HIV non è affatto finito ed è ancora un problema. Ma è proprio grazie alla ricerca che sappiamo qualcosa di più.

Da un punto di vista patogenetico, è cosa nota che HIV cerca di distruggere il nostro sistema immunitario e ci rende attaccabili da patologie molto pericolose. Su questo punto la ricerca ha prodotto farmaci molto potenti che riducono ai minimi termini la replicazione virale bloccando ad HIV la strada verso l’AIDS.

Tuttavia l’azione del virus non è solo questa.

Infatti HIV non solo distrugge il sistema immunitario, ma lo attiva. La solo presenza di HIV, anche residuale, è in grado di attivare il nostro sistema immunitario e, come naturale conseguenza, si attiva anche un processo infiammatorio sistemico e cronico.
In effetti in un organismo sano il sistema immunitario si attiva solo quando necessario, mentre in chi ha HIV è sempre attivo.
Questa attivazione non fa bene al nostro corpo, è come avere un campanello d’allarme che squilla incessantemente in tutto l’organismo. Un campanello che provoca un lento logoramento degli organi, reni, ossa, cervello, ecc. e facilita la formazione di neoplasie. Non è un caso infatti che la popolazione con HIV abbia un’incidenza di problemi oncologici palesemente più alta della popolazione generale e tenda ad invecchiare più rapidamente rispetto ai pari età della popolazione generale. Nella mia esperienza ho potuto ascoltare le relazioni di diversi geriatri che affermano che i problemi che trovano nei loro pazienti nella decade degli 80 anni, come la sindrome geriatrica per esempio, li ritrovano in pazienti con HIV nella decade dei 60 anni, in qualche caso addirittura prima.

Quello che ci serve è una cura che eradichi HIV. Come qualunque paziente di qualunque patologia noi vogliamo guarire, senza se e senza ma.
Purtroppo i ma ci sono eccome perché la ricerca scientifica è ben lontana da questo obiettivo e, stante il fatto che non se ne parla, non sappiamo neppure se si stia occupando del tema.

Quello che sappiamo è che qui e ora non abbiamo né eradicazione né remissione, per tacere del vaccino i cui studi vengono fermati uno dopo l’altro per manifesta inefficacia.

A mio parere l’attivismo, le associazioni, dovrebbero tenete presenti questi temi, tenerli alti e favorire la discussione politica, scientifica e sociale.
In tutto questo fare il test, essere consapevoli del proprio stato di salute è ancora molto importante. Una diagnosi precoce e il conseguente inizio precoce del trattamento è decisamente meglio che arrivare alla diagnosi di HIV quando si è ormai in AIDS o prossimi a diventarlo e quando HIV ha riempito i serbatoi di virus latente.

Il test per HIV è ancora necessario. Fate il test, alla peggio mangiate un ansiolitico, ma fate il test. Fatelo al BLQ Checkpoint, in ospedale, dove volete ma fatelo. Almeno una volta all’anno o con la frequenza adatta alla vostra vita sessuale.

Sandro Mattioli
Plus aps

Oggi è iniziata la conferenza europea sull’AIDS.
Non la frequento spesso perché, da diversi anni, è di fatto una dependance del CROi o della IAS quando non di altre conferenze internazionali che, negli anni, hanno acquisito maggior prestigio.
Tuttavia quest’anno ho deciso di andare, anche avevo banalmente voglia di rivedere diversi attivisti, soprattutto di EATG, che non vedevo fisicamente da tempo causa covid.
In effetti ho rivisto diversi fra loro ed è sempre una gioia parlare de visu con persone acute, non per caso il top dell’attivismo europeo.
Sono a Varsavia insieme a Enrico Turchetti, un attivista di Plus tra i più energici, alla sua prima conferenza internazionale.

La prima giornata della conferenza si è aperta con i corsi pre-congressuali e noi abbiamo entrambi scelto di partecipare al workshop proposto da EATG sulla cura, fortemente voluto da Giulio Maria Corbelli al quale è stato dedicato con un toccante commemorazione a cura di uno dei membri storici dell’associazione continentale: Brian West.
Vi dico subito che, come era facile immaginare, siamo molto lontani da trovare la chiave per eliminare HIV dal nostro organismo. Infatti i relatori hanno cercato di spiegarci quale tipo di approccio o di strategia potrebbe essere sensato ricercare, stanti le conoscenze attuali che sembrano ampie, e in generale lo sono, ma sul tema eradicazione non lo sono affatto.
Tanto è vero che prende piede l’ipotesi di cercare il modo di tenere controllata la replicazione virale senza la ART (terapia anti-retrovirale).

Un modus operandi che trovo irritante, sia perché non tiene per nulla conto della volontà di chi vive con HIV (guarire?), sia perché avere HIV nel corpo, anche residuale, ci espone comunque all’attivazione del sistema immunitario e alla successiva infiammazione.Non so quanti ne siano realmente al corrente: HIV è certamente noto perché distrugge il sistema immunitario e ci espone alle patologie AIDS correlate. Tuttavia HIV agisce anche attivando il sistema immunitario. A sua volta questa azione comporta uno stato infiammatorio cronico che danneggia gli organi, aiuta l’insorgenza di patologie anche gravi e neoplasie.Qualcuno dice che l’eradicazione oggi è una chimera, tuttavia, da quello che ho sentito nelle presentazioni, anche la remissione (il controllo di HIV senza ART) sembra tutt’altro che a portata di mano. Mi chiedo quindi se non abbia senso investire in una ricerca di alto profilo.

Dopo pranzo, e dopo altre pubbliche relazioni varie, abbiamo partecipato alla cerimonia di apertura. Una fra le più tristi a cui abbia mai assistito, a partire dalla lettura fatta da una ricercatrice polacca che ha incentrato la relazione principalmente sull’evoluzione epidemiologica di HIV nell’Est Europa e sulle differenze con l’Ovest: l’Est vede una consistente maggioranza di diagnosi fra eterosessuali e IDU (utilizzatori di sostanze per via iniettiva), mentre l’Ovest vede un numero alto di MSM (maschi che fanno sesso con maschi), e ci mostra una serie di dati epidemiologici francamente ridicoli. In buona parte dell’Est Europa, Polonia inclusa, lo stigma e la discriminazione verso gli MSM sono ancora altissimi, se possibile peggio che in Italia. Ovvio che pochissimi MSM dichiarano sesso fra maschi come causa di contagio. Speriamo che le nuove elezioni polacche portino qualche cambiamento, ma fino a ieri era in voga la teoria della zona LGBT free. Almeno avesse avuto l’intelligenza di far presente questo bias, secondo me molto consistente.

Sono seguiti i soliti interventi delle autorità (Ministro della Salute in primis) che, al contrario di ciò che accade in Italia, hanno partecipato e parlato. Ricordo, così per sfizio, che all’ultima conferenza mondiale AIDS tenuta in Italia, a Roma, venne il Sindaco della capitale a porta i suoi saluti. Nessuna istituzione nazionale si affaticò a partecipare. Tanto per dire quanto in Italia il tema HIV/AIDS sia di interesse per la politica e i vari ministri. Non posso fare a meno di pensare che le posizioni letteralmente fuori dal mondo che il Ministro Donat Cattin ebbe il coraggio di esprimere in piena crisi AIDS anni fa, abbiano ancora un certo appeal fra certi tromboni, autocentrati della politica italiana.

Le associazioni locali si sono date molto da fare per l’occasione. Hanno preparato diversi eventi sociali tesi a far capire alla popolazione generale che HIV non ha affatto finito di far danni. Fra gli altri uno spettacolo di una stella drag locale, una maratona (alla quale un attivista ha insistito per mezz’ora perché partecipassi, inutile dire che non ci penso proprio) e così via.

La serata si è chiusa con un breve spettacolo di un artista rock locale (mondialmente noto a Varsavia) e con il cosiddetto welcome reception ossia cibo e beveraggio gratis. Enrico non ha smesso un attimo di lamentarsi perché stava mangiando troppo (continuando a mangiare ovviamente). Adoro.

Sandro Mattioli
Plus aps

Un uomo di San Paolo che – almeno secondo i test effettuati finora – non mostra alcun segno di HIV dopo più di 15 mesi dall’interruzione della terapia antiretrovirale potrebbe rappresentare il primo caso di una cura funzionale senza i rischi legati al trapianto di cellule staminali, secondo un rapporto presentato oggi (ieri 7 luglio, ndt) alla 23a Conferenza internazionale sull’AIDS (AIDS 2020: virtual).

Il  ricercatore capo Dr Ricardo Diaz. Università Federale di San Paolo / www.unifesp.br

All’interno di uno studio clinico, l’uomo di 35 anni ha aggiunto al suo regime standard di tre farmaci altri due antiretrovirali, l’inibitore dell’integrasi dolutegravir (Tivicay) e l’inibitore dell’entrata Maraviroc (Celsentri). Inoltre, ha ricevuto nicotinamide, una forma solubile in acqua di niacina o vitamina B3.

Nel marzo 2019 ha interrotto il trattamento sotto stretto monitoraggio medico. Più di 15 mesi dopo, continua ad avere l’RNA dell’HIV non rilevabile (la forma di materiale genetico virale misurata in un tipico test di carica virale) così come il DNA dell’HIV (la forma che in gran parte costituisce il serbatoio virale).

Tuttavia, gli esperti mettono in guardia dal trarre conclusioni affrettate da questo caso, dal momento che ha coinvolto solo un singolo individuo e non sono ancora stati condotti test approfonditi per le tracce dell’HIV in vari siti del corpo umano.

“Il fatto che si tratti di un singolo caso suggerisce che questo potrebbe non essere reale”, ha dichiarato ad aidsmap il dott. Steven Deeks dell’Università della California a San Francisco. “Sappiamo che alcune persone possono ottenere quella che sembra essere la remissione con i soli farmaci antiretrovirali. Questa potrebbe essere semplicemente una persona che ha avuto fortuna con gli antiretrovirali.”

Finora, due persone sembrano essere state curate dall’HIV. Timothy Ray Brown, precedentemente noto come Berlin Patient, non ha tracce di HIV competente per la replicazione in nessuna parte del suo corpo da più di 13 anni. Il secondo uomo, soprannominato London Patient, non ha ancora alcun virus rilevabile mentre si avvicina a tre anni senza terapia antiretrovirale (ART).

Entrambi gli uomini hanno ricevuto trapianti di midollo osseo per il trattamento della leucemia o del linfoma usando cellule staminali da un donatore con una rara mutazione genetica nota come CCR5-delta-32, che si traduce nella perdita di co-recettori CCR5 sulle cellule T, il gateway che la maggior parte dei tipi di HIV usa per infettare le cellule. Prima dei trapianti, hanno ricevuto la chemioterapia per uccidere le loro cellule immunitarie cancerose, essenzialmente permettendo alle cellule staminali del donatore di ricostruire un nuovo sistema immunitario resistente all’HIV.

Ma questa procedura è troppo pericolosa per le persone la cui vita non è già minacciata dal cancro avanzato. Inoltre, richiede un intenso intervento medico, è estremamente costoso e probabilmente non potrebbe essere sufficientemente reso disponibile a una scala tale da raggiungere milioni di persone che vivono con l’HIV in tutto il mondo.

Ciò ha portato i ricercatori a chiedersi se una giusta combinazione di farmaci potesse offrire un percorso più sicuro e meno costoso per la remissione a lungo termine o, in definitiva, una cura.

Il dott. Ricardo Diaz dell’Università di San Paolo in Brasile, il dott. Andrea Savarino dell’Istituto superiore di sanità di Roma e il loro team hanno condotto uno studio clinico noto come SPARC-7 per valutare molteplici interventi volti a ridurre le dimensioni del serbatoio dell’HIV.

Questo serbatoio è composto da HIV latente integrato in cellule ospiti inattive, principalmente cellule T. Gli antiretrovirali non possono raggiungere questo virus nascosto, ma se il trattamento si interrompe e le cellule si riattivano, possono ricominciare a produrre nuove copie del virus.

Lo studio ha arruolato adulti sieropositivi che erano al primo regime antiretrovirale, avevano soppressione virale da più di due anni e non avevano mai avuto una conta di CD4 inferiore a 350 cellule/mm3 .

Cinque dei partecipanti hanno aggiunto al loro regime antiretrovirale a tre farmaci dolutegravir, maraviroc e 500 mg due volte al giorno di nicotinamide per 48 settimane. Sono poi tornati alla ART standard e infine hanno subito un’interruzione del trattamento monitorata, in cui la carica virale e altri parametri sono attentamente controllati.

L’intervista in inglese di aidsmap a Andrea Savarino, ISS.

Come ha spiegato Savarino in un’intervista con aidsmap prima della conferenza (guarda l’intervista in inglese qui sopra), la nicotinamide è stata scelta perché sembra combattere l’HIV con molteplici meccanismi. Disponibile come un economico integratore orale, la nicotinamide viene studiata come trattamento per il cancro a causa delle sue proprietà di potenziamento del sistema immunitario. Aiuta a prevenire la morte (apoptosi) delle cellule T esauste inibendo l’attività degli enzimi chiamati PARP che riparano il DNA rotto. Può anche agire come un inibitore dell’istone deacetylase (HDAC) che mantiene le cellule T fuori da uno stato latente. Anche Maraviroc può agire come agente di inversione della latenza oltre al suo effetto più noto di bloccare l’ingresso dell’HIV nelle cellule.

Il brasiliano che rimane in remissione è stato diagnosticato con HIV nell’ottobre 2012, quando aveva il numero di cellule CD4 più basso di sempre (372 cellule/mm3) e una carica virale (oltre 20.000 copie/ml) caratteristica dell’infezione cronica. Due mesi dopo, ha iniziato il trattamento con efavirenz (Sustiva), zidovudina (AZT) e lamivudina (3TC), sostituendo la zidovudina con tenofovir disoproxil fumarato (TDF) nel 2014.

L’uomo si è arruolato nella sperimentazione clinica nel settembre 2015 e ha iniziato il regime di ART intensificato più nicotinamide. Tra i 30 partecipanti che hanno ricevuto vari regimi sperimentali nello studio, è stato l’unico a sperimentare blip virali di basso livello durante il suo trattamento sperimentale (alle settimane 16 e 24), ma in seguito la sua carica virale è rimasta non rilevabile.

Dopo aver completato 48 settimane con questa combinazione, è tornato al precedente regime a tre farmaci, sostituendo in seguito efavirenz con nevirapina (Viramune) e infine dolutegravir. Per tutto il tempo ha mantenuto la soppressione virale.

Nel marzo 2019, ha iniziato un’interruzione del trattamento monitorata, interrompendo la sua terapia antiretrovirale sotto controllo medico. Oggi, la sua carica virale rimane non rilevabile secondo gli esami del sangue dell’HIV RNA eseguiti ogni tre settimane. Il suo ultimo test è stato il 22 giugno 2020, il che significa che ha mantenuto la soppressione virale per oltre 65 settimane dalla interruzione degli antiretrovirali.

La conta di cellule CD4 dell’uomo è stata generalmente stabile durante il regime sperimentale intensificato, si è alzata dopo essere tornato alla terapia standard a tre farmaci e poi si è abbassata dopo aver iniziato l’interruzione del trattamento.

Vari marcatori di attivazione delle cellule CD8 – il tipo di cellule T che combattono l’HIV – sono diminuiti dopo aver iniziato il regime intensificato e sono rimasti al di sotto del livello di base.

Osservare altri parametri può aiutare a capire se l’HIV rimanga presente ma sotto controllo o sia stato veramente eliminato.

Il livello di DNA dell’HIV nelle cellule immunitarie del sangue periferico è aumentato dopo aver iniziato il regime sperimentale – suggerendo che il trattamento potrebbe aver riattivato le cellule del serbatoio latente – ma poi è sceso a un livello non rilevabile dopo aver ripreso l’ART standard. È rimasto non rilevabile durante l’interruzione del trattamento.

Il DNA dell’HIV nei campioni di biopsia intestinale dell’uomo è diminuito mentre era in regime intensificato. Saranno necessarie ulteriori analisi dell’HIV nel tessuto intestinale, nei linfonodi e in altri siti – come ha subito Timothy Brown – per dimostrare se l’uomo è effettivamente guarito funzionalmente. Tuttavia, Savarino ha detto a aidsmap che questi test più invasivi sono stati sospesi a causa delle restrizioni dovute a COVID-19 sui servizi sanitari in Brasile.

La presenza di anticorpi anti-HIV indica che, anche durante il trattamento, rimane abbastanza virus da stimolare la produzione di anticorpi in corso. In questo caso, il livello di anticorpi dell’uomo è diminuito costantemente mentre era in regime sperimentale e ha continuato a diminuire dopo aver ripreso la terapia con tre farmaci. Durante l’interruzione del trattamento, ha mantenuto un livello di anticorpi molto basso – così basso da rendere negativo un test anticorpale rapido.

È importante sottolineare che, come ha detto Savarino a aidsmap, altri quattro individui trattati con lo stesso regime intensificato non hanno mantenuto la soppressione virale.

Parlando a un briefing mediatico, il copresidente della conferenza, il dott. Anton Pozniak del Chelsea e del Westminster Hospital, ha ricordato che abbiamo già sentito parlare di molte altre potenziali cure per l’HIV – inclusa la famosa bambina del Mississippi, che ha mantenuto la soppressione virale dagli antiretrovirali per più di due anni prima che il suo virus si rialzasse – ma finora alla fine quasi tutti questi casi sono stati delle delusioni.

Deeks ha sollecitato cautela nel “sovrainterpretare” i risultati di questo caso, e che esso non suggerisce alcun intervento che le persone affette da HIV dovrebbero intraprendere da sole in questo momento. In particolare, le persone non dovrebbero iniziare a prendere nicotinamide o niacina, che possono causare un effetto collaterale di rossore a dosi elevate.

“Vorrei certamente incoraggiare le persone a non precipitarsi su questo trattamento. Questo caso potrebbe non essere reale e il trattamento potrebbe effettivamente causare danni”, ha detto. “Non incoraggerei nessuno a correre al negozio di alimenti naturali locale per ottenere questo farmaco o, peggio, a smettere di assumere antiretrovirali.”

Articolo originale di Liz Highleyman su aidsmap, tradotto da Giulio Maria Corbelli per Plus