HIVoices – Laboratorio residenziale su sieropositività e identità sessuale
rivolto a MSM che vivono con HIV. Giunta alla sua quinta edizione, HIVoices ha già visto la partecipazione di 84 uomini omo-bisessuali HIV+.
Essere omo/bisessuali con HIV è difficile, anche all’interno della realtà lgbtq: nei locali, nei luoghi di incontro sessuale, nelle associazioni, sui social network. “Perché se lo dico, poi non scopo più!”. “Perché se lo dico, poi mi trattano in modo diverso”. Dire (o non dire) di essere sieropositivo non è come dire di essere omo-bisessuale. Anzi, spesso, tutta la ‘fatica’ fatta nel coming out del proprio orientamento sessuale non torna utile nel processo di accettazione e comunicazione della propria sieropositività. La paura di essere accettati e visibili in quanto persona dotata di un orientamento sessuale altro che si somma alla paura di essere discriminato in quanto persona sieropositiva.
Ma attenzione: se, come, quando e a chi comunicare la propria sieropositività è una scelta individuale. C’è chi (al momento opportuno) lo dice a tutt* e ne fa una bandiera di visibilità; c’è chi invece non lo dice neppure alle persone più care; c’è chi è attivista lgbtq senza dichiarare la propria sieropositività; e c’è chi, essendo sieropositivo e facendo sesso con uomini, non accetta la propria omo-bisessualità, neppure arriva a chiamarla con questo nome.
Un ventaglio di possibilità molto ampie; una pluralità di voci differenti. È così che è nato HIVoices, un laboratorio originale ed atipico nel panorama lgbtq, nel quale i partecipanti possano sentirsi accolti, sia in quanto uomini-che-fanno-sesso-con-altri-uomini, sia in quanto sieropositivi.
HIVoices è un laboratorio intensivo, rivolto ESCLUSIVAMENTE a persone che vivono con HIV omosessuali, bisessualie MsM (maschi che fanno sesso con maschi), pensato NON per ‘convincere’ a fare coming out rispetto al proprio stato sierologico positivo, ma piuttosto come un’esperienza per poter vivere meglio e in maniera più consapevole la propria identità di persona omo/bisessuale che vive con HIV.
Non si tratta di terapia di gruppo. Non è un gruppo di auto-aiuto. Non è un gruppo gay di amanti della natura.
HIVoices è un percorso di sperimentazione nella relazione con sé e con l’Altro; un’occasione di crescita individuale nel gruppo-di-pari, per migliorare la propria autostima, accettazione e consapevolezza emotiva. Un luogo in cui ritrovarsi con persone differenti, ma simili; un tempo in cui non nascondere la propria identità di uomo sieropositivo dotato di un orientamento sessuale altro.
Il gruppo come potente cassa di risonanza, per meglio comprendere ciò che si sa, si fa e si sente – ovvero di ciò che si è.
Hivoicesè un percorso formativo costruito attorno al concetto di auto-apprendimento, attraverso metodologie di educazione non-formale. Un’occasione per acquisire strumenti per ‘inventare il propriobenessere‘ e valorizzare le proprie capacità individuali, in particolare nella piena affermazione di sé.
Abbiamo pensato ad una struttura residenziale, un luogo accogliente e ‘protetto’. Ai partecipanti offriamo quindi la certezza che la loro privacy sarà tutelata.
QUANDO: venerdì 17, sabato 18 e domenica 19 giugno 2016. DOVE: in una struttura attrezzata per gruppi residenziali sull’Appennino romagnolo. COSTO: 30 € a testa. SCADENZA ISCRIZIONI: è possibile iscriversi fino a domenica 4 giugno 2016. INFO ED ISCRIZIONI: info@plus-onlus.it
iniziativa realizzata con il supporto con condizionato di ViiV healthcare
HIVoices – Laboratorio residenziale su sieropositività e identità sessuale
rivolto a MSM che vivono con HIV
Essere omo/bisessuali con HIV è difficile, anche all’interno della realtà lgbtq: nei locali, nei luoghi di incontro sessuale, nelle associazioni, sui social network. “Perché se lo dico, poi non scopo più!”. “Perché se lo dico, poi mi trattano in modo diverso”. “Perché se lo dico, poi mi guardano come se fossi un untore”.
Dire o non dire di essere sieropositivo non è come dire di avere l’influenza. Dire o non dire di essere sieropositivo non è neppure come dire di essere omosessuale o bisessuale. Anzi, spesso, tutta la ‘fatica’ fatta nel coming out, il lungo percorso di negoziazione con sé e con gli altri rispetto al proprio orientamento sessuale, non torna utile nel processo di accettazione e comunicazione della propria sieropositività.
La paura di essere accettati e visibili in quanto persone dotate di un orientamento sessuale altro da una società a maggioranza eterosessuale, machista, sessista, che si somma alla paura di essere discriminati – dentro e fuori la comunità lgbtq – in quanto persone sieropositive.
Se, come, quando e a chi comunicare la propria sieropositività è una scelta individuale. C’è chi (al momento opportuno) lo dice a tutt* e ne fa una bandiera di visibilità; c’è chi invece non lo dice neppure alle persone più care; c’è chi è attivista lgbtq senza dichiarare la propria sieropositività; e c’è chi, essendo sieropositivo e facendo sesso con uomini, non accetta la propria omosessualità, neppure arriva a chiamarla con questo nome.
Un ventaglio di possibilità molto ampie; una pluralità di voci differenti. Per questo è nato HIVoices, un laboratorio originale ed atipico nel panorama lgbtq, nel quale i partecipanti possano sentirsi accolti, sia in quanto uomini-che-fanno-sesso-con-altri-uomini, sia in quanto sieropositivi.
HIVoices è un laboratorio intensivo, rivolto ESCLUSIVAMENTE a persone che vivono con HIV omosessuali, bisessuali e MsM (maschi che fanno sesso con maschi), pensato NON per ‘convincere’ a fare ‘coming out’ rispetto al proprio stato sierologico positivo, ma piuttosto come un’esperienza per poter vivere meglio e in maniera più consapevole la propria identità di persona omo/bisessuale che vive con HIV.
Non si tratta di terapia di gruppo. Non è un gruppo di auto-aiuto. Né tanto meno un gruppo gay di amanti della natura.
HIVoices è un percorso di sperimentazione nella relazione con sé e con l’Altro, sul rapporto fra identità sessuale e sieropositività; un’occasione di crescita individuale nel gruppo-di-pari, per migliorare la propria autostima, accettazione e consapevolezza emotiva. Un luogo in cui ritrovarsi con una pluralità di persone differenti, ma simili; un tempo in cui non nascondere la propria identità di uomo sieropositivo dotato di un orientamento sessuale altro.
Il gruppo come potente cassa di risonanza, per meglio comprendere ciò che si sa, si fa e si sente – ovvero di ciò che si è.
Abbiamo pensato ad una struttura residenziale, un luogo accogliente e ‘protetto’, tanto rispetto al ‘mondo eterosessuale’, quanto alla comunità lgbtq. Ai partecipanti offriamo quindi la certezza che la loro privacy sarà tutelata.
HIVoices è un percorso formativo costruito attorno al concetto di auto-apprendimento, attraverso attività strutturate e semi-strutturate secondo metodologie di educazione non-formale. Un’occasione per acquisire strumenti per ‘inventare il proprio benessere‘ e valorizzare le proprie capacità individuali, in particolare nella piena affermazione di sé.
Giunta alla sua quarta edizione, HIVoices ha già visto negli anni passati la partecipazione di 66 MSM HIV+.
QUANDO: venerdì 15, sabato 16 e domenica 17 aprile 2016. DOVE: in una struttura attrezzata per gruppi residenziali sull’Appennino bolognese. COSTO: 20 € a testa. SCADENZA ISCRIZIONI: è possibile iscriversi fino a domenica 10 aprile 2016. INFO ED ISCRIZIONI: info@plus-onlus.it
iniziativa realizzata con il supporto con condizionato di ViiV healthcare
E va bene provo a dire la mia sui diritti omosessuali, spinto dagli articoli apparsi sul quotidiano La Stampa e, soprattutto, dalla linea editoriale scelta dal quotidiano ossia quella di non scegliere. Tipica della stampa italiana che da tempo ha scelto di smettere di fare il proprio mestiere: fare cultura, far crescere la capacità della scatola cranica degli italiani infondendo il dubbio e la capacità critica. La Stampa ha posto un articolo di Emanuele Felice di fianco a quello di Franco Garelli. Uno pro e uno meno pro, per non dire contro. Linea editoriale in stile un colpo al cerchio e uno alla moglie ubriaca (cit.)
Emanuele Felice scrive un buon articolo, forse leggermente troppo di cuore, ma buono, dal titolo “Italia ultima sui diritti per colpa della politica”. Buono nel senso che descrive lo stato di fatto del nostro paese. Un luogo dove le persone omosessuali faticano a vivere e dal quale spesso emigrano. In effetti basta attraversale le Alpi e voilà: diritti e matrimoni si sprecano. Ma non è solo questo. “Qui a Madrid, l’aria che si respira è diversa…” ricordo ancora le parole testuali di uno dei miei tanti amici, omosessuali come me, che hanno abbandonato l’Italia (e non sempre per vivere in un Paese più ricco), stanchi di vivere e respirare discriminazione quotidiana in qualsivoglia ambiente: dallo sport alla politica, dalla religione alla scuola, alla cultura.
L’Italia è un paese che discrimina e al quale piace discriminare perché, diversamente, avrebbe messo mano alle leggi vigenti quando era il momento: 10-20 anni fa, quando anche le altre nazioni dell’Europa occidentale discutevano e legiferavano su temi come quelli di cui si discute oggi.
La tanto citata norma tedesca alla quale il nostro governo fa riferimento, è stata approvata, vado a memoria ma non credo di sbagliare, nel 2001. Pertanto, contrariamente a quanto sostiene Franco Garelli nel suo articolo su La Stampa, l’eventuale approvazione del ddl Cirinnà non ci toglierebbe affatto dalla scomoda posizione di fanalino di coda dell’Europa: raggiungeremmo solo la Germania, che non ha certo la legislazione più avanzata d’Europa, con 15 anni di ritardo.
Una norma che, ripeto, se approvata, consentirebbe a fatica solo un mezzo riconoscimento delle unioni omosessuali, inclusa la tanto discussa stepchild adoption che fa riferimento solo alla possibilità di adottare i figli del partner. Per chi non ha avuto figli da precedenti rapporti, l’adozione resta preclusa. Con buona pace della capacità di crescita, di sviluppo, di inserimento sociale della maggior parte delle coppie omosessuali italiane.
Capiamoci ragazze e ragazzi: è su questa roba qui che siamo chiamati ad animare le strade. Una norma che nasce vecchia di 15 anni e che, comunque, non rende giustizia a decenni di lotte del movimento italiano.
Una norma che, come scrive Felice, ricalca le volontà dei conservatori europei laddove il nostro Governo si dovrebbe richiamare a un ideale progressista. Ebbene così non è. Stiamo lottando per dare alla popolazione omosessuale un contentino discriminante, frutto di una politica di retroguardia e conservatrice.
Acclarato questo che cosa vogliamo fare? Accontentarci di queste quattro cazzate che ci elargiscono e ci vogliono far digerire come se fosse manna dal cielo?
Mi auguro proprio di no. È del tutto evidente che, non essendo noi Parlamento ma movimento, subiremo le decisioni dei cattolici in politica (qualcuno mi dovrà spiegare, prima o poi, perché per alcune persone devote la loro fede deve impegnare anche quella parte di popolazione che ne è priva), ma spero vivamente che il movimento LGBT italiano abbia un moto di orgoglio, una buona volta, e cessi di essere lo zerbino del partito di governo di turno (piuttosto che tutore di interessi personali), esiga pari diritti, esiga una reale uguaglianza che, in Italia, significa matrimonio egualitario (non unioni civili) e ampliamento della legge Mancino contro le discriminazioni di stampo omofobico.
A partire da questi punti si può iniziare a filtrare, facendo cultura nel quotidiano, l’aria fetida che respiriamo in Italia e forse perfino a far tornare qualche persona omosessuale emigrata dalla disperazione. Questo sì che sarebbe un bel primo passo, non un ddl vecchio e, sa solo il cielo quanto, massacrato dai conservatori comodamente seduti in aula a gestire le nostre vite personali sulla base della loro morale posticcia. Chi vi scrive quest’anno compie 53 anni.
53 anni di lotte, di manifestazioni per vie e piazze delle principali città italiane e straniere (sì, sono andato anche a Madrid quando Zapatero allargò il matrimonio alle coppie dello stesso sesso). Non ho nessuna intenzione di andare per strada per una cosa come il ddl Cirinnà, per la quale non ho mai lottato, che non ho mai chiesto, che è stata decisa altrove senza tener conto delle reali necessità della gente. Per citare il nostro socio fondatore Stefano Pieralli, alla mia età i piccoli passi li faccio verso la pensione. Alla mia età lotto per qualcosa in cui credo, che valga la pena, sicuramente non lotto per farmi discriminare, non lotto per compiacere gli interessi di pochi.
Ultima cosa: ha ragione chi scrive che siamo un’associazione di lotta contro HIV/AIDS. L’ho scritto più volte e ora lo ripeto: stigma e discriminazione sono strumenti atti alla diffusione di HIV, non è una mia opinione ma quanto è emerso alla Conferenza Mondiale Aids di Vienna (nella quale da Roma non venne nessuno, nonostante fosse a due passi). Non sfugge a chi scrive che in Italia la maggior parte delle nuove diagnosi, da 4 anni a questa parte, è triste appannaggio dei maschi che fanno sesso con maschi. Non è un caso quindi che Plus prenda una posizione ferma, forte – e pazienza se non condivisa dal delirio buonista del meglio poco che niente (che i miei amici argentini, altro paese cattolico dove è in vigore il matrimonio egualitario, definiscono consuelo de tontos, il contentino dei tonti!).
Friends for life, bordato da un bel fiocco rosso, è il nome di un gruppo Facebook dove si affronta il tema HIV, o, meglio, i vari temi che l’infezione porta con sé. Si tratta di un gruppo chiuso, manco a dirlo, riservato, ma internazionale. Vi si trovano iscritti e iscritte pressoché da tutti i continenti.
A corollario del norme, troviamo la seguente frase: “... helping people affected by HIV/AIDS live well”, un bell’occhiello perché dice che scopo del gruppo è aiutare i sieropositivi a vivere meglio.
Fantastico vero? La HIV+ community globale riunita per scambiare esperienze e sostenersi a vicenda.
Anche io ho creduto che fosse questo lo scopo, finché una ragazza africana ha postato una domanda che, da sempre, considero la cartina tornasole della reale volontà e apertura mentale della gente:
“so friends,what is your view on homosexuality?”
Varie risposte ma un paio mi hanno colpito: un’altra ragazza africana ha iniziato la sua risposta scusandosi, ma affermando, nel contempo, che con il suo background culturale cristiano non è possibile che accetti i gay; un’altra ragazza, credo canadese, ha dato una risposta simile, aggiungendo che tutti devono essere liberi di scrivere quello che pensano. La discriminazione, proprio quell’elemento che è uno dei principali veicoli della diffusione di HIV, è un pensiero legittimo? E, soprattutto, è legittimo che persone spesso discriminate per la condizione sierologica, si sentano autorizzate a discriminare per via dell’orientamento sessuale altrui? Ne è nata una discussione lunghissima, in tutto simile a quella che possiamo leggere quando si tratta il tema gay nei post, blog o chat italiane.
Vi servo alcune chicche: “I don’t care about your gay ass that f in the bedroom. No its not about love gay is lust”. “God created Adam and Eve not Adam and Steve…”, questa è una perla… e così via.
Non c’è niente da fare: neppure HIV riesce a far digerire la diversità, neppure HIV riesce a far superare le ideologie razziste inculcate fin da bambini. Per HIV abbiamo concrete speranze che arrivi un vaccino, ma per l’ignoranza e le posizioni ideologiche (c’è differenza?) temo che non ci sarà mai una terapia adeguata. Ricordo un breve frammento di “+ o -Il sesso confuso”, un documentario su HIV in Italia diretto da Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli, nel quale una ragazzina di un liceo diceva, vado a memoria, passi per i drogati ma i gay se la vanno a cercare. Frase sicuramente ingenua, ma, al contempo, di una verità disarmante. Sono convinto che molti italiani, anche e soprattutto omosessuali, pensino che i sieropositivi sono tali per colpa, e, per evitare sia la colpa che il pensiero, la comunità gay italiana ben raramente si occupa con serietà di HIV. Come dico di solito, io non mi sento ne colpevole né innocente, cerco solo di sopravvivere. Ma nel farlo, forse per via degli anni che passano, sono sempre meno propenso a tollerare chi mi discrimina per un verso o per l’altro. Credo che questo abbia inciso nel mio coming out… sta a vedere che più che il convincimento pesa lo stracciamento (di palle).
La VIaConferenza italiana Aids, si è tenuta a Roma dal 25 al 27 maggio. Ha visto una partecipazione di oltre 1000 persone fra relatori e iscritti; 309 sono state le scholarship di cui ben 81 hanno consentito alla community di partecipare.
Con piacere ne do un giudizio complessivamente positivo, non solo per gli interventi interessanti che si sono susseguiti, anche per la consistente partecipazione della comunità dei pazienti. Quest’anno, infatti, siamo stati coinvolti a presiedere sessioni, incluso chi scrive, nella presentazione di progetti e ricerche, ecc. In altre parole, non siamo stati relegati nella riserva indiana come gli altri anni, ma la nostra collaborazione è stata cercata (ed ottenuta) a 360°. Mi sembra un passo in avanti molto importante.
Anche sul piano degli interventi, almeno per quelli che ho seguito io, la qualità è stata ottima e le informazioni molto interessanti. In particolare ho seguito gli aspetti relativi alla prevenzione e gli aspetti sociali, non da oggi infatti, penso che senza una adeguata attenzione ai temi sociali afferenti ad Hiv, difficilmente sconfiggeremo il virus, tanto meno riusciremo ad invertire la tendenza che vede un incremento nelle diagnosi in particolare proprio fra gli MSM (cfr http://www.iss.it/ccoa). Penso, primo luogo, alla discriminazione e allo stigma a cui le persone con hiv sono soggette fin dalla comparsa del virus. Doppio stigma, nel caso MSM-HIV+. Cosa di cui una parte della community presente ad Icar, stante quello che ho ascoltato durante una lecture, non sembra rendersi conto con buona pace dei dati pubblicati dal COA. Evidentemente abbiamo percezioni diverse.
Un tema, quello della stigma, che è stato ben trattato anche dalla nostra associazione, ha promosso la campagna “Se mi conosci, mi eviti?”, e che ha collaborato alla ricerca “Pratiche Positive” presentata in Icar dal Responsabile Salute di Arcigay, Michele Breveglieri. Pratiche Positive ha dato risultati davvero interessanti soprattutto se si pensa che ha trattato il tema della discriminazione, subita o percepita, all’interno delle strutture socio-sanitarie. In particolare, è emersa l’enorme difficoltà che le persone HIV+ hanno nel dichiarare il proprio stato in ambito sanitario, soprattutto al dentista, o al proprio medico curante.
Ottime le presentazioni tenute da Giulio Maria Corbelli del Direttivo di Plus sul tema del test. Abbiamo infatti presentato in Icar sia una ricerca relativa a come, in che tempi e modalità le persone vorrebbero fare il test, sia una ricerca sui dati raccolti con la Testing Week. Dalla prima è emerso un dato davvero strano: una parte consistente dei rispondenti vorrebbe l’home testing ossia fare il test a casa propria. Cosa francamente non accettabile allo stato delle cose in Italia, appunto per il problema dello stigma. Senza un couselling adeguato è del tutto evidente che lo stigma resterebbe chiuso nelle case, insieme all’esito dell’home testing. Per non parlare della assenza totale di link to care.
Una buona valutazione è stata ottenuta anche dal test presso associazioni o fuori dal contesto ospedaliero. Le risposte raccolte con il nostro piccolo studio, ci portano a concludere che è urgente un cambiamento nelle strategie di testing in Italia, al fine di garantire un miglior accesso al servizio, la lunga attesa per i risultati e la burocrazia sanitaria rappresentano un ostacolo all’esecuzione del test. Fermo restando l’ottimo lavoro che svolgono gli ospedali italiani, i dati relativi alla late presentation dimostrano che quel lavoro non è sufficiente e che l’aiuto delle associazioni, in termini di sussidiarietà orizzontale, è decisamente auspicabile al fine di ampliare l’offerta del test con azioni meglio mirate alle popolazioni più colpite, seguendo l’esempio di quanto viene fatto in Europa ormai da anni.
Un primo passo nella direzione giusta ci è stato rappresentato da Corbelli, con la relazione sui risultati della testing week, effettuata anche da Plus l’ultima settimana dello scorso novembre.
Un solo dato: il 50% dei partecipanti, non aveva mai fatto un test per hiv.
È naturale chiederci quanto lo stigma incida nella scarsa frequenza con la quale ci testiamo, sia per hiv che per altre infezioni o malattie. La relazione del dott. Palefsky su HPV e cancro anale nella popolazione HIV+, è stata illuminante in tal senso. Rilancio il consiglio del medico Californiano: tutte le persone con HIV facciano un test rettale una volta all’anno; il consiglio vale anche per tutti gli MSM anche se siero negativi, stante che lo studio NA-Accord attribuisce agli msm una incidenza spaventosa.
Largo spazio ha avuto anche l’infezione da HCV, come è giusto che sia stante l’elevata incidenza del virus dell’epatite C fra le persone sieropositive. Ma anche, curiosamente, l’epatite B. L’allarme è stato lanciato da Massimo Puoti: “è inaccettabile avere tante persone con HIV che prendono l’epatite B, dovremmo riuscire a vaccinare contro HBV tutte le persone sieropositive”.
Verissimo. Abbiamo il vaccino per l’epatite B eppure l’infezione gode di ottima salute. Questo dovrebbe farci sorgere un dubbio sulla gestione solo sanitaria e ben poco sociale delle infezioni a trasmissione sessuale, come le epatiti o l’HIV.
A mio avviso è stata molto interessante la presentazione della dott.ssa Pharris dell’ECDC, durante il simposio dall’eloquente titolo “The silent epidemic”. Buona parte dei dati del Centro europeo hanno, guarda caso, riguardato gli msm. Per il centro di controllo europeo, gli msm continuano ad essere un gruppo a rischio col il maggior numero di casi di HIV, seguito a ruota dai migranti. ECDC chiede di indirizzare verso questi gruppi azioni di prevenzione e di contrasto del virus. Ho la sensazione che nella pratica quotidiana, in Italia i migranti siano socialmente più accettabili degli msm.
Alessandra Cerioli, Presidente nazionale di Lila, è stata convinta a tenere un intervento sulla Tasp, terapia come prevenzione. È stato citato lo studio Partner, condotto su 1100 coppie sierodiscordanti di cui il 40% gay, che sta valutando le probabilità per una persona HIV+ con viral load undetectable di passare l’infezione. Per correttezza va detto che i dati finali dello studio arriveranno nel 2017, tuttavia è interessante che l’opinione dei curatori ad oggi sia che la stima più attendibile sia zero possibilità.
Il nostro opuscolo “Sesso gay positivo”, ha ricevuto la benedizione di Alessandra che ha inserito la copertina in una slide della sua presentazione sulla Tasp, come esempio di best practice. Elogiando la chiarezza delle informazioni sul tema esposte nell’opuscolo.
Rispetto al tema prevenzione, la parte del leone l’ha fatta l’ISS grazie a Barbara Ensoli che ha presentato i dati della fase due del vaccino anti TAT. Fase due open label chiusa in Italia, e in corso, ma prossima alla chiusura, in Sud Africa come studio randomizzato. I dati portati dallo staff della Ensoli, sia nelle comunicazioni orali che nel simposio, sono stati incoraggianti e ben esposti. Nel prossimo luglio si chiuderà la ricerca di fase due in Sud Africa finanziata dal Ministero degli Esteri e vedremo se questi dati italiani, saranno confermati anche dal randomizzato africano.
Siamo parlando di vaccino terapeutico, inoculato in persone con hiv stabilmente in terapia. A tre anni di osservazione, quello che appare sembra andare oltre le capacità di ricostituzione del sistema immune ottenibili con le terapie. Infatti gli inoculati hanno avuto una crescita qualitativa dei CD4 molto interessante, in termini di central memory. I dati mostrano inoltre l’abbattimento dei CD8 +term, più consistente dal secondo anno, che portano alla fine dell’attivazione del sistema immune causata da hiv; mostrano inoltre un crollo verticale del DNA provirale a 144 settimane, più consistente nei regimi art con PI, ma importante anche negli nnrti/nrti. Ovviamente sarebbe interessante uno studio di follow up per valutare quanto resiste l’immunizzazione, se il decremento dei reservoir viene confermato, ecc.
Step successivi saranno lo studio di fase III e la registrazione che si vorrebbe raggiungere entro il 2018, sempre che si trovino i fondi, stimati in 40 milioni di euro, necessari a completare la ricerca. Questo è il motivo per cui è stata creata una società a capitale misto con lo scopo di trovare i fondi ne chiudere la ricerca. Una procedura seguita da tutte gli enti che al momento stanno studiando vaccini contro hiv.
Né durante il simposio, né durante le letture ho visto traccia delle polemiche e del fango comparso in giro in queste ultime settimane. Non posso fare a meno di chiedermi nuovamente, a chi fa gioco far partire la macchina del fango ogni volta che la Ensoli riesce a chiudere una fase e riparte con la ricerca dei fondi per la successiva e anche perché tali contestazioni non sono state portate o replicate nella sede più opportuna: Icar.
Da ultimo ma non meno importante, voglio citare l’impegno dei volontari di Plus (Stefano Pieralli, Giulio Maria Corbelli, Michele Degli Esposti, Paolo Gorgoni, Jonathan Mastellari), che hanno allestito un bellissimo banchetto per promuovere la nostra associazione, hanno distribuito numerose copie dell’opuscolo “Sesso gay positivo”, suscitando molto interesse nella platea della conferenza, sia fra la community che fra i sanitari, dato informazioni e preso contatti importanti.
In futuro, spero sarà possibile estendere anche ad altri volontari la possibilità di fare questa esperienza, così da incrementare il numero della community presente ad Icar.
“Single di xxx, voglioso di una storia vera con persona in salute come me e senza patologie trasmissibili, ……. ma una storia vera, quella delle persone normali, non quella della persone fuori di testa…..voglio essere felice, non complicarmi la vita.”
E’ un messaggio scritto da un utente del gruppo “GayItalia” su Facebook. Un gruppo chiuso ma che vanta oltre 2000 iscritti.
Lo leggo, e il mio primo pensiero è stato “ma guarda te sto ragazzino”… che faccio soprassiedo? Ma si dai… poi mi cade l’occhio sulla immagine di profilo dell’utente: altro che ragazzino! E’ un uomo adulto. Ma si, gli rispondo: “ma che bel messaggio: ti auguro di innamorarti di una persona splendida e che vive con HIV.”
Do uno sguardo al profilo: pure operatore sanitario. Quindi gay, medico, non vuole complicarsi la vita e cerca una persona che non gli trasmetta nulla di infettivo. Come non capirlo povera stella.
Torno sul gruppo.
Puf… messaggio sparito. Contatto l’amministratore, ma dice che non ha cancellato nulla. Avrà tolto tutto l’utente.
Ma nella mia magica cartella facebook su gmail ecco che arrivano gli avvisi di risposta. Ci sono sia il mio messaggio, che un “auguralo a tua sorella……..sei incazzato dal mio msg perche’ tu hai hiv…..e che cazzo vuoi da me”. Una risposta scritta, evidentemente, un attimo prima di cancellare il trend.
No, caro professionista sanitario non sono incazzato perché io ho l’hiv, per la verità non sono incazzato affatto: sono basito dal messaggio di discriminazione che hai messo a disposizione degli altri 2000 utenti. E lo fai essendo medico e omosessuale. E’ sempre molto istruttivo vedere come la comunità omosessuale, o parte di essa, reagisce davanti al tema hiv o patologie sessualmente trasmissibili. Di solito sceglie fra rimozione o discriminazione. La paura, e l’ignoranza che ne consegue, è tale, che siamo al punto che l’augurio di un amore sieropositivo diventa quasi una offesa. Ma stai pur tranquillo dott.: stante il numero di nuove diagnosi tardive fra i gay, sicuramente hai già fatto sesso con un sieropositivo che, con ogni probabilità, non sapeva di esserlo.
In compenso una cosa la sanno bene le persone sieropositive: la discriminazione esiste.
La ricerca Pratiche Positive, che ha visto anche la collaborazione di Plus, descrive chiaramente quello che accade in Italia. Una indagine condotta su un campione di oltre 500 persone sieropositive, la maggioranza gay, da cui emerge che 7 persone su 10 hanno subito una discriminazione. 4 su 10 proprio in ambito sanitario.
Forse non tutti i gay sanno che l’epidemia in Italia ha preso una direzione molto chiara. E’ sufficiente leggere l’ultimo notiziario del ISS per capirlo: le nuove diagnosi mostrano i gay in decisa crescita, gli altri gruppi esposti in calo.
La nostra comunità è impegnatissima nel riconoscimento dei diritti, del matrimonio, ecc. perché dovrebbe spendere energie per una cosa che nessuno vuole ascoltare o sentire, per qualcosa che, con ogni probabilità, fa paura anche agli attivisti. Dopo tutto una volta all’anno arriva il 1 dicembre, giornata mondiale per la lotta contro l’hiv/aids. Sufficiente no?
E la comunità? I gay?
Negano, rimuovono, non fanno neppure il test con la frequenza necessaria. Meglio non sapere, non vogliono sapere. D’altra parte, tornando al messaggio del nostro amico, perché mai dovrebbero fare il test? Per essere discriminati due volte: come gay dagli etero e come sieropositivi dagli stessi gay?
No, caro amico medico che non vuoi complicarti la vita, non sono affatto incazzato anzi, ti ringrazio. Ora so perché la curva delle nuove diagnosi fra i gay sale in quel modo. Ora ho capito cosa volevano dire tutti quegli studi sul rapporto fra discriminazione crescita dei contagi presentati alla International AIDS Conference di Vienna.
Ora capisco perché le persone che chiamano la nostra Linea Positiva, si sentono sempre così sole e non sanno con chi parlare delle loro paure: perché temono che la comunità sia fatta di gente che non vuole complicarsi la vita.
Per fortuna le cose stanno cambiando. Anzi la fortuna non c’entra, cambiano grazie al lavoro di associazioni come Plus. Lo dico senza false modestie perché mettere insieme una associazione di gay sieropositivi nella quale anche chi non lo è sa che verrà creduto hiv+, vedere che i soci si iscrivono, si fidano, hanno voglia di provarci e mettersi in gioco, è per me una gioia enorme. Forse l’unica cosa, ad oggi, che mi sprona ad andare avanti, a darmi da fare in questa associazione, a dire sono sieropositivo.
Combattere la discriminazione è importante, ed è importante che siano le persone sieropositive a farlo. Noi.
Uscire allo scoperto, una specie di secondo coming out, è importante perché rafforza la nostra auto stima, la consapevolezza che non siamo né colpevoli né innocenti, siamo persone che vogliono vivere al meglio la propria vita, esattamente come gli altri.