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Dal 11 al 15 novembre si è tenuto a Glasgow l’11° congresso internazionale sulle terapie Drug therapy in HIV infection alla quale ho potuto partecipare come Plus Onlus, grazie ad una scholarship, insieme ad altri delegati, e amici, italiani: Giulio Maria Corbelli (Plus), Simone Marcotullio (Nadir), Filippo von Schlosser (Nadir).

Ottimamente organizzato presso il centro congressi della città scozzese, Scottish Exibition and Conference Centre (SECC) altrimenti detto “Armadillo” per via della curiosa forma architettonica, la conferenza si è subito presentata molto interessante. Sulla carta, infatti, non solo erano previste presentazioni e workshop curati direttamente dalla community, EATG (European Aids Treatment Group) in particolare, ma anche alcuni dei workshop più scientifici annunciavano un approccio “patient based” che ha immediatamente suscitato una certa curiosità: che finalmente anche i clinici abbiano capito che è il paziente al centro del trattamento e non la terapia stessa o, peggio, la credibilità personale?

Non è andata proprio così ma è stato un bel tentativo di approccio “toward the patient”, sicuramente un metodo che non è molto comune in Italia.

Curioso e, quasi, divertente l’approccio del simposio organizzato da MSD: “A patient based approach to managing comorbidities and ageing in HIV patients” (Un approccio basato sul paziente nella gestione delle comorbidità e l’invecchiamento nei pazienti con HIV).

Il simposio ha introdotto ben 3 giochi di ruolo nel tentativo di far emergere le esigenze del paziente “aged”. Nella simulata, un medico riceveva un paziente sulla cinquantina e cercava di capire, con una breve indagine, il suo stato di salute, la sua aderenza alle terapie, ecc.

In realtà il risultato finale è andato più nella direzione di affermare la centralità del medico e della medicina nella lotta contro l’infezione, che non verso i bisogni reali del paziente. Un paziente per esempio, esprimeva, con molto timore reverenziale, la sua esigenza di avere un aspetto migliore in occasione di un matrimonio (aveva gli occhi gialli come effetto collaterale dei farmaci), al punto che aveva deciso di interrompere la terapia per un paio di giorni.

Il medico, nel role play, gli ha tranquillamente risposto che la terapia va presa ogni singolo giorno, che deve essere informato nel caso di simili decisioni e così via. Un lungo e, formalmente, corretto ragionamento sull’importanza della terapia e dell’aderenza, ma che non ha sostanzialmente tenuto conto di quello che stava dicendo il povero paziente di una certa età.

Ho apprezzato il tentativo di mettere in connessione due mondi, linguaggi e bisogni, che spesso sono distanti ma diciamocelo: il risultato non è stato molto incoraggiante. Quel signore si è tenuto gli occhi gialli con buona pace delle good intentions del medico. Forse più che di approccio “toward the patient” sarebbe necessario un po’ di “from the patient”.

Myron Cohen, University of North Carolina, ci ha parlato di trattamento di massa per l’HIV salvo farci vedere slide che ci dicono che negli USA l’epidemia è tutt’altro che sotto controllo,  per cui la terapia ARV di massa è una pia illusione proprio in uno dei paesi più ricchi del mondo. Non prendiamoci in giro: la teoria è interessante ma è la pratica che rende perfetti, e aggiungerei anche i soldi per farla la pratica.

Contrariamente all’opinione di alcuni altri italiani presenti, ho trovato di ampio respiro e onesta la lettura del prof. Carlo Federico Perno, Università “Tor Vergata” Roma, che ha tenuto una lunga e complessa presentazione sulla  eradicazione. Eradicare HIV significa togliere completamente ogni traccia del virus nel nostro organismo, ossia guarire.

Quando sento questo termine, soprattutto in occasioni come le grandi conferenze, in genere mi viene l’orticaria. Sappiamo tutti che non non potremmo essere più lontani dall’eradicazione e che è un tema molto complesso e, spesso, portato avanti in ambiguo come se la soluzione definitiva fosse dietro l’angolo.

Ebbene non è così: Perno ha ipotizzato almeno 15-20 anni di ricerche per arrivarci, lasciando chiaramente intendere che siamo ancora alle teorie ma che le conoscenze scientifiche, concrete, che ci possano far pensare di eliminare il genoma virale integrato in quello umano, ad oggi non ci sono. Quindi quello che possiamo onestamente e concretamente fare oggi per limitare al minimo la diffusione dell’infezione, è incrementare l’accesso alle terapie e cercare di cronicizzare quanti più pazienti sieropositivi è possibile.

La sessione dal titolo ART for prevention and treatment ha suscitato molto interesse ed un vivace dibattito. Jean-Michel Molina dell’Università di Parigi, in merito alla profilassi pre-esposizione ci ha parlato della situazione in Europa. È ormai noto a tutti che l’FDA ha approvato l’uso di Truvada per la PrEP (profilassi pre-esposizione) negli USA, ma in Europa abbiamo bisogni e condizioni tali da promuovere lo stesso percorso? Il ricercatore ha analizzato diversi temi fra cui, appunto, se serve in Europa, se abbiamo abbastanza conoscenze sull’efficacia della PrEP, le resistenze, l’aderenza necessaria ad ottenere dei risultati, oltre ovviamente se esiste e quanto potrebbe essere il rischio di un cambiamento nei comportamenti tale, da rendere inutili i benefici.

La slide sull’andamento dei contagi in Francia, tratta da uno studio pubblicato su Lancet nel 2010, lascia poco spazio all’immaginazione: fra gli MSM, HIV è in piena ascesa per cui è del tutto evidente che servono nuove strategie di prevenzione che saranno ovviamente alternative alle esistenti, ma addizionali. In effetti l’unico studio che ha visto gli MSM protagonisti e che ha ottenuto un qualche risultato interessante è il famoso studio iPREX; con l’uso di Truvada per via orale iPREX ha dimostrato una copertura del 44% in presenza di una aderenza elevatissima. Quello dell’aderenza, in effetti, è un tema importante perché resta da capire perfino nei trials, figuriamoci nella pratica clinica, come monitorare l’aderenza del paziente (conta delle pillole, calcolo del principio attivo nel plasma, auto-riportato).

Ricordo che quando FDA approvò l’uso del farmaco per la PrEP sulla base dello studio in questione, scrissi al MSM Global Forum le mie perplessità e loro mi risposero stupefatti: negli USA la comunità gay sembra essere totalmente in linea con la scelta del FDA.

Come la pensano gli MSM europei? Molina ci ha mostrato i risultati di una survey proposta a 939 gay sieronegativi francesi, nel luglio 2012:

  • solo il 30% aveva sentito parlare della PrEP e appena 12% era ben informato;
  • solo il 17,5% userebbe la PrEP a fronte di una copertura del 50%, ma anche se la copertura fosse del 90% solo il 50% degli intervistati la userebbe. Ovviamente più sale la percentuale di copertura, più è elevato il numero di rispondenti che utilizzerebbe la profilassi;
  • c’è un maggiore interesse per la PrEP “on demand” (62,8%) rispetto all’assunzione quotidiana (24,6%) e c’è sicuramente più interesse fra coloro che praticano sesso anale non protetto;
  • interessante il calcolo della compensazione del rischio: il 42% potrebbe ridurre l’uso del condom, il 27% lo eliminerebbe del tutto. Quindi è evidente che è necessaria una grande opera di informazione e che insieme alla PrEP, se adottata, si renderebbe necessario un consistente rinforzo della comunicazione sull’uso del preservativo.

Come immaginavo il ricercatore ci ha mostrato lo stato di avanzamento dello studio IperGAY sull’efficacia della PrEP intermittente. Due bracci, a entrambi viene fornito un servizio completo di prevenzione (condom, counselling, vaccinazioni, test sulle IST, PEP), a uno dei due viene somministrato Truvada prima e dopo il rapporto sessuale. Le prime persone sono state arruolate nello studio ai primi di marzo del 2012 e, cosa positiva, hanno deciso di continuare lo studio a prescindere dalla decisione di FDA, anzi stanno valutando se esportare il trial in altri Paesi europei.
Le conclusioni a cui è giunto Molina sono che i risultati della PrEP restano controversi, ma il dibattito contribuisce a mantenere alta l’attenzione sulla prevenzione cosa ottima perché rimane vero quanto detto all’inizio, ossia servono con urgenza nuove strategie preventive ad integrazione di quelle esistenti che si stanno dimostrando fortemente deficitarie.

La grande discussione è arrivata con le presentazioni di Michael Saag, Università dell’Alabama, e di Jens Lundgren dell’Università di Copenhagen che hanno trattato il tema dell’inizio della terapia sostenendo rispettivamente le tesi: inizio precoce (anche sopra i 500 CD4), inizio relativamente tardivo (appena si scende sotto i 500 CD4). La presentazione del dott. Saag è stata sicuramente molto ben preparata, tutta tesa a dimostrare come il trattamento ARV oggi sia più semplice, meno tossico e più potente di un tempo, per cui facendo un bilancio delle attuali conoscenze della patogenesi di HIV, dei dati di cohorte, delle implicazioni sulla salute pubblica, nonché del comune buon senso, l’opinione del medico statunitense era chiara: iniziare la terapia prima possibile (as soon as possible), al fine di abbassare l’incidenza di complicazioni cliniche future.

Di tutt’altro avviso il dott. Lundgren. La prima slide del danese mostrava che i late presenter in Europa superano il 50% dei casi, per cui il tema vero sarebbe trovarli quelli con almeno 500 CD4 e forse il nostro problema ha più a che vedere con l’accesso e l’implementazione del test che non con il mettere tutti in terapia. Gli studi fin qui effettuati se da un lato dimostrano chiaramente che c’è un grosso beneficio ad iniziare la terapia ARV prima di arrivare a 200 CD4, dall’altro non danno evidenza scientifica che ci sia un beneficio per il paziente asintomatico ad iniziare la terapia ARV prima di 350 CD4. In pratica il medico danese ha chiesto a tutti di avere pazienza e di attendere i dati del grande studio START, che indaga proprio questo tema, e che sono previsti per il 2016 per ora i dati sono insufficienti.

Un dibattito interessante, fatto anche di piccoli colpi bassi, ma la sostanza della mia opinione non è cambiata: la terapia, l’assunzione, l’aderenza, è qualcosa che vede il paziente al centro non il dibattito fra prime donne. Se il paziente è convinto dell’utilità di un inizio precoce, anche se non ci sono dati definitivi, perché no?

A dire il vero anche una personalità di primo piano come il dott. Pedro Cahn, Argentina, si è dichiarato in favore dell’inizio precoce citando, fra gli studi che ha preferito proprio quel Prevention of HIV-1 Infection with Early Antiretroviral Therapy pubblicato nel 2011 sull’autorevole rivista New England Journal of Medicine, che dimostrava come l’inizio precoce riduce la possibilità di trasmissione sessuale del HIV-1.

Cristina Mussini, Policlinico di Modena, ha proposto una interessante presentazione sul tema dei late presenter. La Mussini ha iniziato con un pressante invito ai colleghi di tutti i settori a proporre di più il test Elisa, ma ha anche insistito molto sulla necessità di implementare l’accesso al test citando fra l’altro anche i checkpoint che da ormai 10 anni sono presenti in Europa e spero presto anche in Italia.

Il punto relativamente nuovo che la Mussini ha introdotto è la cosiddetta “retention in care” ossia il mantenimento del paziente in terapia e sotto controllo medico. In effetti anche un ospedale relativamente piccolo come quello di Modena, sono quasi 300 i pazienti di cui si sono perse le tracce. Spesso questi pazienti ritornano in clinica in AIDS, per cui possiamo parlare di una nuova forma di late presenter.

EATG ha gestito una interessante sessione sul tema del trattamento ARV in Europa, visto dalla prospettiva dei pazienti. La presentazione di Angela Skopenko di All-Ukrainian Network of PLWH, ha strappato più di un applauso quando ha spiegato che per fermare l’evoluzione di HIV in Ucraina, è stato deciso di produrre farmaci generici localmente con buona pace della proprietà intellettuale di big pharma. MSD ha scritto lettere minacciosose che sono state ignorate dal network e la produzione è continuata.

Diverso l’approccio della community londinese, descritto da Simon Collins (UK-CAB), che ha proposto un percorso di revisione dei trattamenti in essere, ovviamente a parità di efficacia; un percorso che ha visto il coinvolgimento delle associazioni di pazienti, dei medici, ecc. e che ha ottenuto il risultato di risparmiare 5 milioni di sterline in un anno. Tutto nasceva dal taglio alla sanità pubblica di 8 milioni di sterline in due anni se ben ricordo, non certo dalla voglia di tentare un simpatico esercizio di calcolo, tuttavia il percorso è stato interessante e, forse, potrebbe costituire un esempio utile anche per altre situazioni nazionali inclusa la nostra.

La discussione con l’uditorio che è nata è stata abbastanza animata: alcuni attivisti provenienti da Paesi in via di sviluppo, hanno detto senza mezzi termini che i Paesi ricchi come il Regno Unito devono pagare i farmaci e fare poche storie, perché è grazie a questo che le multinazionali abbattono i costi e permettono al terzo mondo la produzione locale di farmaci generici.

La conferenza è stata funestata da un evento incredibile: una donna thailandese è stata uccisa nei bagni del centro. È facile immaginare i problemi che questo omicidio ha comportato. L’intero auditorium è stato posto sotto sequestro dalla polizia, che ha anche voluto interrogare tutti i partecipanti incluso chi scrive. La conferenza è stata spostata nelle altre sale del centro congressi con grande perizia da parte dell’organizzazione.

Plus, che è notoriamente neonata e quindi povera per definizione, ha chiesto di partecipare grazie ad una scholarship che è stata concessa nel senso più ampio del termine. Questo ha comportato un minino di obblighi, ma molto gradevoli, cui ottemperare. In particolare una cena delle scholarship grazie alla quale abbiamo potuto scambiare qualche opinione con altri attivisti, medici e ricercatori da pressoché tutto il mondo. È stato divertente ascoltare le affermazioni del medico indiano secondo il quale non ci sono pochi MSM in India perché di solito si sposano con una donna, un medico del Malawi è andato oltre affermando che non ci sono per niente MSM nel suo Paese… ufficialmente (ha aggiunto ridendo). L’argomento è stato chiuso con una frase topica: abbiamo culture diverse. Sicuramente la lotta contro l’HIV sarà facilitata in luoghi dove l’omosessualità è ancora coperta dalle “differenze culturali”… In ogni caso il confronto è stato interessante, ho per esempio scoperto che in Bielorussia c’è un programma governativo che prevede l’introduzione di kit di prevenzione nelle carceri comprensivi di siringhe e preservativi.

In conclusione la conferenza è stata interessante nel complesso, ben organizzata, senza sessioni concomitanti e partecipanti che devono correre da una sala all’altra, cosa che abbiamo apprezzato tutti. L’organizzazione è stata encomiabile, in particolare nel far fronte ad un evento tragico di tali proporzioni. È stata una conferenza di “passaggio”, nel senso che non ci sono state comunicate particolari novità come, del resto, neppure nella più grande conferenza mondiale di Washington, tuttavia utile per consolidare le conoscenze sia cliniche che sociali.