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Chi non capisce il titolo… gli tocca leggere fino alla fine.
Eccoci all’ultimo report. Per ragioni logistiche, non c’era il volo, oggi devo partire alle 17,30 ora locale e l’ultima plenaria per qualche strano motivo è stata messa alle 15,30. Quindi oggi mi dedico ai poster abstract che, spesso, riservano delle sorprese.

Inizio con lo studio Framing stigma: a systematic review of cinema‘s HIV narrative between 2015 and 2023 banalmente perché italiano, lo ha inviato un gruppo di ricercatori dell’Università di Sassari: preso atto che stigma e discriminazione sono tra i problemi correlati all’HIV, che il cinema rispecchia la società e potrebbe avere il potere di plasmarla, lo studio approfondisce le rappresentazioni dell’HIV nei film tra il 2015 e il 2023. Hanno esaminato i database “IMDb” e “Themoviedb”, utilizzando i tag “AIDS”/“HIV” e “Film su HIV/AIDS” su Wikipedia. Hanno incluso film interi (≥un’ora) sull’HIV/in cui l’HIV è stato menzionato, in inglese o con sottotitoli in inglese.

Alla fine sono state raccolte le seguenti variabili: numero di persone con HIV (PWH), genere, fattore di rischio per l’acquisizione dell’HIV, presenza di AIDS, condizioni che definiscono l’AIDS, decessi correlati all’HIV, discriminazione/stigmatizzazione nel film/da parte del film stesso, se PrEP, PEP e U=U erano rappresentati, e affidabilità scientifica. Con questo metodo dai 3.060 film di partenza ne hanno selezionati 48.
Le donne cisgender e transgender erano rappresentate in 11 (22,9%) e quattro (8,3%) film, rispettivamente. Essere MSM era il fattore di rischio in 30 (62,5%). L’AIDS è stato mostrato in 24 (50%) e in 22 (45,8%) chi ne era colpito, muore. La conclusione a cui arrivano i ragazzi è che Il cinema spesso ritrae l’HIV in modo drammatico, trascurando le possibilità di normalizzarlo. La rarità di PEP, PrEP e U=U sottolinea la necessità di un’ulteriore discussione sul potenziale ruolo del cinema nella sensibilizzazione e nella lotta allo stigma dell’HIV.

La dott.ssa Valentina Mazzotta (in foto) dell’Ist. Spallanzani, con i risultati la ricerca multicentrica ItaPrEP ha ottenuto una presentazione orale. Cosa che ci ha molto piacere perché anche Plus ha partecipato. Il titolo è: HIV pre-exposure prophylaxis (PrEP) efficacy, adherence and persistence in an Italian multicentric access program (Sep2017-Nov2023): ItaPrEP study. Parliamo quindi di uno studio effettuato prima della rimborsabilità del farmaco. Lo studio, ha coinvolto diversi centri clinici e tutti i centri community-based che seguono persone in PrEP, ha evidenziato che grazie alla PrEP il tasso di sieroconversione era inferiore agli studi RCT nelle popolazioni esposte. L’età giovane, basso livello di istruzione e chemsex, oltre a barriere come la mancanza di farmaci gratuiti e monitoraggio sono fondamentali per indirizzare le strategie per migliorare l’implementazione della PrEP.

Un altro studio interessante era: The effectiveness of user-centered demand creation interventions on PrEP initiation among Female Sex Workers (FSW) and Men who have sex with Men (MSM) in Kenya, ossia l’efficacia degli interventi di creazione della domanda incentrati sull’utente nell’avvio della PrEP tra le lavoratrici del sesso (FSW) e gli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM) in Kenya. Il Kenya nel 2017 ha lanciato un programma nazionale di ampliamento della PrEP (stesso anno dell’autorizzazione da noi). Il programma non dati i risultati sperati in termini di efficacia, per cui hanno provato a promuovere la PrEP con programmi centrati sulla persona (invece su patologie o burocrazia?) e tesi a far crescere la domanda di PrEP; secondo i dati pubblicati che potete vedere cliccando il link, pare che questo genere di interventi abbiano indotto una crescita nella domanda di PrEP nella popolazione indicata.

Il poster Changes in penile microbiome of South African cis-gender men and transwomen following surgical circumcision, non poteva mancare. Numerosi studi hanno dimostrato che la circoncisione maschile riduce l’acquisizione dell’HIV per quella via, con meccanismi ipotizzati tra cui la riduzione delle cellule bersaglio, la riduzione del tempo di esposizione al virus e la riduzione dell’infiammazione locale mediante modifiche del microbioma dovute all’esposizione all’ossigeno. In pratica hanno cercato di caratterizzare i cambiamenti nei batteri superficiali del glande attraverso tamponi. Lo studio non è grande, solo 29 abitanti di Città del Capo, fra i 18 e i 45 anni che si sono rivolti a una clinica pubblica per la circoncisione. La variazione batterica notata sembra supportare l’ipotesi che l’effetto protettivo della circoncisione sia dato da una ridotta infiammazione da disbiosi batterica anaerobica.

Nello stesso modo non poteva mancare lo studio Cannabidiol prevents mucosal HIV-1 transmission by targeting Langerhans cells, macrophages and T-cells, ossia che il CBD previene l’HIV. Lo studio va a esaminare cellule bersaglio di HIV ed è complicato, ma le conclusioni sono entusiasmanti. I ricercatori arrivano a sostenere “il riposizionamento delle formulazioni contenenti CBD disponibili in commercio come potenziali microbicidi contro la trasmissione dell’HIV-1 della mucosa. Come alternativa all’efficiente Lenacapavir, che tuttavia induce mutazioni di fuga e rimane costoso, il nostro approccio neuro-immunitario basato sul CBD rappresenta una strategia di prevenzione dell’HIV-1 innovativa, conveniente e accessibile”. Lo studio è francese e io già li adoro, ma non li prendo davvero sul serio.

Sandro Mattioli
Plus aps

“È un problema dei gay!”

“È un problema degli africani!”

O peggio ancora: “perché farmi venire l’ansia per il test, nella peggiore delle ipotesi prenderò 1 pillola al giorno come per tante altre malattie. Non è un gran problema.”

Queste sono alcune delle risposte che ci vennero date all’Università di Bologna, quando aiutammo un gruppo di studentesse per una tesi che comprendeva una piccola survey.
Non ne sono particolarmente stupito per vari motivi.
In molti dicono che di HIV non se ne parla più, lo dicono soprattutto coloro che si occupano di informazione e, di conseguenza, di fare cultura sul tema. Ma c’è dell’altro: quando se ne parla in termini “seri”, si tende a normalizzare HIV e tutto ciò che gli gira intorno: i test, le terapie, ecc.

Ma è davvero così?

Una cosa è vera: di HIV non se ne parla molto e, grazie a questo, oggi ci troviamo a sguazzare in una situazione di ignoranza generale. In questo quadro la normalizzazione richiamata spesso dagli stessi specialisti, finisce per essere un danno. Ormai buona parte della popolazione non considera più HIV un problema o al massimo lo relega in ambiti particolari: il mondo omosessuale, chi è promiscuo, ecc.

In altre parole piano piano stiamo tornando alle idiozie che i bravi cattolici sostenevano negli anni ’80 quando addirittura il ministro della sanità dichiarava che l’infezione se la prende chi se la va a cercare. Del resto era in buona compagnia: la gerarchia cattolica non era da meno, fior di cardinali e perfino due papi si sono battuti affinché fosse l’etica cattolica a guidare la lotta contro questa epidemia mondiale, con buona pace delle informazioni scientifiche.
Del resto anche negli Stati Uniti, land of the free, ci fu chi propose al Congresso di chiamare G.R.I.D. (gay related immunodeficiency disease) quello che oggi, per fortuna, si chiama AIDS.

Torniamo al tema ma restiamo negli anni ’80. Keith Haring, uno dei padri della street art e della cultura pop, nel 1989 produsse un’opera diventata il manifesto della lotta contro HIV, dal titolo quanto mai attuale Ignorance = Fear / Silence = Death. La parte “Ignoranza = Paura” ci spiega come la mancanza di conoscenza su HIV fa sì che le persone abbiano paura di questa infezione e delle persone HIV positive, mentre la parte dell’immagine “Silenzio = Morte” rappresenta come la mancanza di consapevolezza e conoscenza porterà a più sofferenza e morte per le persone.
Chissà, forse è per questo che ancora oggi un milione e mezzo di persone ogni anno si contagiano. E non solo in Africa, come sosteneva quello studente ignorante, ma anche in Europa. In termini di contagi la situazione in Europa orientale e in Russia in particolare non ha niente da invidiare all’Africa Sub Sahariana.

Anche solo per il fatto che i contagi non calano nonostante gli indubbi passi in avanti della ricerca, avremmo dovuto capire che HIV non è affatto finito ed è ancora un problema. Ma è proprio grazie alla ricerca che sappiamo qualcosa di più.

Da un punto di vista patogenetico, è cosa nota che HIV cerca di distruggere il nostro sistema immunitario e ci rende attaccabili da patologie molto pericolose. Su questo punto la ricerca ha prodotto farmaci molto potenti che riducono ai minimi termini la replicazione virale bloccando ad HIV la strada verso l’AIDS.

Tuttavia l’azione del virus non è solo questa.

Infatti HIV non solo distrugge il sistema immunitario, ma lo attiva. La solo presenza di HIV, anche residuale, è in grado di attivare il nostro sistema immunitario e, come naturale conseguenza, si attiva anche un processo infiammatorio sistemico e cronico.
In effetti in un organismo sano il sistema immunitario si attiva solo quando necessario, mentre in chi ha HIV è sempre attivo.
Questa attivazione non fa bene al nostro corpo, è come avere un campanello d’allarme che squilla incessantemente in tutto l’organismo. Un campanello che provoca un lento logoramento degli organi, reni, ossa, cervello, ecc. e facilita la formazione di neoplasie. Non è un caso infatti che la popolazione con HIV abbia un’incidenza di problemi oncologici palesemente più alta della popolazione generale e tenda ad invecchiare più rapidamente rispetto ai pari età della popolazione generale. Nella mia esperienza ho potuto ascoltare le relazioni di diversi geriatri che affermano che i problemi che trovano nei loro pazienti nella decade degli 80 anni, come la sindrome geriatrica per esempio, li ritrovano in pazienti con HIV nella decade dei 60 anni, in qualche caso addirittura prima.

Quello che ci serve è una cura che eradichi HIV. Come qualunque paziente di qualunque patologia noi vogliamo guarire, senza se e senza ma.
Purtroppo i ma ci sono eccome perché la ricerca scientifica è ben lontana da questo obiettivo e, stante il fatto che non se ne parla, non sappiamo neppure se si stia occupando del tema.

Quello che sappiamo è che qui e ora non abbiamo né eradicazione né remissione, per tacere del vaccino i cui studi vengono fermati uno dopo l’altro per manifesta inefficacia.

A mio parere l’attivismo, le associazioni, dovrebbero tenete presenti questi temi, tenerli alti e favorire la discussione politica, scientifica e sociale.
In tutto questo fare il test, essere consapevoli del proprio stato di salute è ancora molto importante. Una diagnosi precoce e il conseguente inizio precoce del trattamento è decisamente meglio che arrivare alla diagnosi di HIV quando si è ormai in AIDS o prossimi a diventarlo e quando HIV ha riempito i serbatoi di virus latente.

Il test per HIV è ancora necessario. Fate il test, alla peggio mangiate un ansiolitico, ma fate il test. Fatelo al BLQ Checkpoint, in ospedale, dove volete ma fatelo. Almeno una volta all’anno o con la frequenza adatta alla vostra vita sessuale.

Sandro Mattioli
Plus aps

Per la serie a volte ritornano ecco rispuntare la frase categorie a rischio, questa volta addirittura nel programma di una conferenza sulla salute organizzata da Motore Sanità e, per giunta nella parte su HIV ed epatiti virali dove chi scrive è stato chiamato a parlare. È vero che la conferenza prende le mosse da quello che chiama “pensiero creativo”, ma un limite alla mancanza di conoscenza.
Chiunque si sia minimamente interessato ad HIV e ha messo il naso fuori dai reparti di malattie infettive, dove verrebbe da credere quella frase non ha mai perso di efficacia, dovrebbe cogliere al volo il peso di quella frase.

Chiariamo subito: nessuno studio, scientifico, sociale, psicologico o terrapiattista ha mai dimostrato che HIV ha una volontà politica di colpire questa o quella parte di popolazione.
Semmai sono comportamenti a rischio di contagio. Ma in questo triste e ignorante Paese è chiaramente più comodo dare la colpa dell’infezione a fette di popolazione. Si identifica un “nemico” e ci si mette il cuore in pace.

Così per anni si è creduto che HIV fosse la malattia dei gay, al punto che qualcuno propose di chiare GRID (gay related immunodeficiency disease) quello che poi si sarebbe chiamato AIDS. Poi, guarda un po’, HIV inizio a colpire anche gli injection drug user (IDU), poi tutti e ancora oggi – come è sempre stato del resto – è una patologia che può colpire chiunque sia sessualmente attivo. Ma la paura o l’ignoranza, scegliete voi, è più forte della scienza – soprattutto se anche clinici e ricercatori usano “categorie a rischio” – e quindi ancora oggi, dopo oltre 40 anni di epidemia globale, per buona parte della popolazione italiana HIV è la patologia dei gay, degli africani, dei drogati e la discriminazione prosegue con grande soddisfazione di HIV che può contare su un vasto bacino di diagnosi tardive

In effetti chi non è né gay, né IDU, né africano perché mai dovrebbe farsi un test. Ecco come HIV prosegue la sua corsa in Italia, grazie al pressappochismo di chi dovrebbe prestare attenzione a cosa scrive, e all’ignoranza generalizzata di un Paese dove tutti dicono che di HIV non se ne parla più. Tutti, a partire dai giornalisti che dovrebbero informare al popolazione ma scrivono titoli da inquisizione spagnola o mettono in piazza lo stato sierologico di chiunque, con buona pace delle leggi vigenti a partire dalla 135/90.

Leggere di categorie a rischio nel programma di una conferenza scientifica equivale a mandare indietro la cultura sociale dell’Italia su HIV di decenni e pure a pedate, perché avvalora una sciocchezza ascientifica agli occhi di chi non conosce la materia o è troppo superiore per occuparsi di questioni semantiche (come mi è stato già scritto). In un attimo tutto quello che è stato fatto da grandi attivisti, dai principi di Denver a U=U, viene spazzato via.

Vi do per certo che in molti cercheranno di minimizzare, sta già succedendo. Qualcuno mi ha detto che non è il caso di farne una questione di stato, altri al telefono mi hanno detto “io sono una categoria a rischio”, altri, peggio ancora, hanno cercato di avvalorare la frase dicendomi che, in fin dei conti, è la versione italiana di key population, ossia popolazioni chiave che sono quei gruppi sociali che l’epidemiologia ci indica come più esposti al rischio di contagio perché al loro interno i comportamenti a rischio tendono ad essere più frequenti, spesso proprio a causa della marginalizzazione a cui sono soggetti. È una definizione universalmente accettata se non ché nel resto del mondo a nessuno verrebbe in mente di generalizzare o dire che l’intera popolazione “X” ha l’HIV. Inoltre nel resto del mondo si attivano politiche di prevenzione rivolte a quelle popolazioni per modificare o limitare i comportamenti a rischio. In Italia invece vengono additate e marginalizzate. Del resto negli ultimi 40 anni io non ho mai visto in Italia una campagna di prevenzione rivolta a gay o a sex worker, campagne che altri Paesi anche meno ricchi di noi fanno da anni. Da noi al massimo abbiamo messo un alone viole intorno a qualcuno e, per anni, abbiamo preteso di difendere gli italiani con l’etica cattolica invece che col condom.

Ecco cosa si nasconde dietro la frase categorie a rischio. C’è un Paese che, per quanto sia ai primi posti nella clinica, deve ancora fare molta strada sul piano sociale.
Una strada che periodicamente va riasfaltata perché qualche sciagurato si diverte a farci dei buchi.
Per HIV non esistono né cura né vaccino ed è un’infezione a trasmissione sessuale. Quindi deve essere combattuto sul piano scientifico e su quello sociale, altrimenti fra altri 40 anni saremo ancora qui a chiederci se sia la malattia dei gay.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Stefano Pieralli è scomparso l’anno scorso a soli 57 anni, di cui oltre 40 dedicati all’attivismo LGBT e sieropositivo. È stato uno dei sette fondatori di Plus, di cui è stato vicepresidente e membro del Direttivo pressoché sempre, fin dall’inizio. È stato lo “zoccolo duro” di Plus e ha contribuito a costruirne l’impostazione politica, è stato una figura cruciale non solo nella storia di Plus ma nella lotta alla HIV e alla sierofobia in Italia. Intitolargli la sede nazionale di Plus non è che un riconoscimento minimo per una persona che ha dedicato la sua vita all’attivismo, contribuendo a creare condizioni di vita migliori per centinaia di persone LGBT che vivono con HIV o sierocoinvolte.

Stefano ha dato a Plus un’impostazione politica tesa all’equidistanza dai partiti, preferendo il colloquio istituzionale al rischio di lasciare che questo o quel partito mettesse il cappello sul nostro lavoro. Ci ha insegnato ad avere una serie di attenzioni verso il mondo della politica, da un lato vitale per il sostegno al nostro lavoro e dall’altro spesso poco interessato alla prevenzione. Ci ha insegnato a guardare oltre le parole anche nel mondo delle associazioni, ed è stato proprio grazie a queste osservazioni che abbiamo deciso di fondare Plus in risposta alle carenze dell’associazionismo LGBT nella lotta all’HIV e nell’investimento di fondi nella salute queer.

Il 16 aprile, ad un anno dalla sua morte, Plus ha deciso quindi di ricordare Stefano Pieralli e di intitolare a Stefano la sede in via San Carlo 42/C, un luogo che lui stesso ha contribuito a costruire e che negli anni ha accolto migliaia di persone.

È stato emozionante vedere presenti le istituzioni, l’associazionismo bolognese e tanta gente che ha conosciuto Stefano e ne ha apprezzato il valore. Altrettanto emozionante ripercorrere la storia e la figura di Stefano, l’impegno per Plus fortemente voluta da Stefano proprio perché era giunto il momento di scuotere la comunità LGBT che da troppo tempo non si occupava più del tema, pur a fronte delle alte percentuali di nuove diagnosi fra gli MSM (maschi che fanno sesso con maschi). Oltre alla necessità di invertire il trend delle nuove diagnosi, Plus nasce, come ci spiega Pieralli nella breve intervista che abbiamo mostrato durante la cerimonia, Plus viene creata per intervenire contro lo stigma sociale, anche interno alla comunità LGBT, nonché sul tema della qualità della vita delle persone sieropositive che oggi, grazie alle terapie, hanno un’aspettativa di vita simile a quella della popolazione generale ed è, pertanto, necessario affrontare il tema della qualità della vita, gli aspetti relazionali e sociali, il lavoro, ecc. per tacere della necessità di rompere una serie di pregiudizi sulla trasmissione dell’infezione, sulla possibilità di avere relazioni con le persone sieropositive. In sintesi, un’azione culturale forte, sia all’interno della comunità LGBT che all’esterno di essa.

Azioni oggi più che mai necessarie e rese possibili grazie all’incredibile avanzamento scientifico che ha portato a un consistente allungamento dell’aspettativa di vita delle persone con HIV.

Tuttavia deve essere chiaro che questo non vuol dire che il problema HIV si può considerare risolto, se non addirittura superato, come sentiamo spesso dire anche da alcuni attivisti. Tutt’altro.

Noi non abbiamo un vaccino preventivo e siamo ben lontani dall’ottenere una cura contro HIV.

Pertanto il virus ad oggi rimane nel nostro corpo e continua a fare il suo lavoro anche se non rilevabile. Non tutti sanno che, sul piano patogenetico, il percorso di HIV prevede due tipi di azioni. Una, la più nota, è la distruzione progressiva del sistema immunitario che ci rende vulnerabili agli attacchi di altri agenti patogeni, crea danni d’organo e agevola la formazione di neoplasia; su questo abbiamo potuto porre un freno grazie ai farmaci sempre più potenti e ben tollerati.

L’altra, meno nota, consiste nell’attivazione del sistema immunitario che, a sua volta, attiva un processo infiammatorio generale e tendenzialmente cronico. Un’azione che avviene anche in caso di viremia non rilevabile. HIV è in sé un elemento di disturbo per l’organismo e il perdurare dello stato infiammatorio, nel tempo porta egualmente a danni d’organo, rischio cardiovascolare, disturbi cognitivi, formazione di neoplasie.

Quello dell’attivazione immunitaria è un tema rispetto al quale siamo ancora sostanzialmente disarmati. È appunto questa azione pluriennale di HIV che ha aiutato la formazione del cancro che ci ha portato via Stefano, così come altri esponenti di Plus, attivisti e tante persone sieropositive.

Quindi no! HIV non è affatto risolto anche se, sicuramente, abbiamo reso più difficile la sua azione tanto è vero che oggi possiamo vivere bene molti anni, invece dei pochi mesi di aspettativa di vita di 30 anni fa. Tuttavia, il problema sia risolto, dobbiamo continuare a svolgere un’opera di pressione politica e sociale affinché la politica investa, la ricerca trovi finalmente il bandolo della matassa, la società sia più attenta e cessi di discriminare le persone che vivono con HIV.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Comunicazione agli Iscritti e alle Iscritte a Plus
alle Istituzioni ed Enti
alle Associazioni di Pazienti e di lotta contro HIV
alle persone sierocoinvolte
a chiunque sia interessato/a

In occasione del primo anniversario della scomparsa di

Stefano Pieralli

il giorno 16 aprile 2024 alle ore 17,45 presso la sede dell’associazione Plus in via San Carlo 42/C a Bologna, verrà ricordata la figura del nostro compagno di mille lotte.

Siete tutti invitati.

Devo dire la verità: ho fortemente voluto partecipare a questa conferenza CROI (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infection) perché, oltre ovviamente ad essere una delle principali al mondo, è a Denver.

Denver (Colorado, USA) è il luogo dove nel 1983 un gruppo di attivisti delle primissime battaglie contro la discriminazione delle persone sieropositive, scrissero e pubblicarono una carta di principi che sono stati e sono ancora oggi basilari per qualunque attività di advocate su HIV e che sono il fulcro della mia azione di attivista HIV positivo.

Buona parte del lavoro che facciamo oggi nel CTS, nelle commissioni regionali AIDS (cambiare nome, no?), nelle associazioni di pazienti e di lotta contro HIV, con e per le persone che vivono con HIV si basa sulla carta di Denver, sul lavoro che ci hanno lasciato dei ragazzi prima di morire di HIV.

Pur nella loro condizione, queste persone hanno scritto dell’importanza dell’empowerment di chi vive con HIV (perché l’ignoranza e la non accettazione ci fanno morire prima), dell’importanza di essere trattati con dignità (in un periodo in cui le persone con HIV venivano abbandonate a loro stesse, anche dalle famiglie, per la vergogna); dell’importanza di essere inclusi sulle decisioni che ci riguardano (nothing on us without us) cosa che ancora oggi in Italia è pochissimo rispettata spesso per assurde posizioni burocratiche praticate da chi, sanità pubblica o multinazionali per esempio, tende ad anteporre le procedure agli interessi dei pazienti; l’importanza del linguaggio e la condanna di ogni tentativo di pietismo e di relegarci in una condizione di sottomissione, di vergogna, di passività. “People living with HIV/AIDS”, che ho usato anche qui sopra, è una definizione che risale ai principi.

Queste persone non si sono rassegnate e sono un esempio per tutti coloro che vivono con HIV.

Per me è un onore calpestare le stesse strade che li hanno visti in azione, quando in Italia il Ministro della Salute prendeva sottogamba l’epidemia e pretendeva di combatterla con l’etica e la morale cattolica, quando gli omosessuali, che ora chiamiamo MSM, vivevano ancora troppo nascosti e le statistiche si concentravano falsamente altrove, quando perfino il movimento decise che di questo tema se ne sarebbero occupati altri per paura della discriminazione o dell’eccesso di impegno per i quattro gatti che si davano da fare allora. Poi si chiedono perché mi inalbero quando gli MSM, pur essendo una popolazione chiave in UE, non vengono presi in considerazione a livello di strategie di prevenzione e ci dobbiamo sbattere con i Checkpoint per colmare le difficoltà del Sistema Sanitario. E ciò nonostante, ancora oggi c’è una minoranza della popolazione italiana che produce il 40% delle nuove diagnosi, ma non sembra che la cosa sia di grande interesse. Ecco… capite perché il principio di Denver sull’empowerment è così importante? Se non pensiamo noi a noi stessi, non lo farà nessuno incluso il cosiddetto movimento LGBTQ+, tanto attento a mille sfaccettature umane, ma distratto e distante dalla discriminazione multipla subita dalle persone MSM che vivono con HIV. Una discriminazione radicata e, spesso, interiorizzata, a tal punto da essere comunemente accettata, ma è proprio in questa condizione passivamente subita dalla community LGBT+ che HIV trova spazio di azione.

Sono stati fatti molti passi in avanti nella lotta contro l’epidemia da HIV. I ragazzi di Denver lottavano per le loro vite, noi oggi lottiamo per la qualità della vita che, in estrema sintesi, significa cercare di non morire per quelle patologie che HIV aiuta a svilupparsi, cancro e problemi cardiovascolari in primis. Detto questo, rispetto agli attivisti di Denver noi viviamo molto più a lungo, noi possiamo ragionare in termini di decenni non di mesi e sicuramente non è poco. Tuttavia, chi crede che la lotta contro HIV sia finita commette un errore clamoroso. Non è un caso che non abbiamo una cura eradicante e che i ricercatori ammettano, a denti stretti, che non abbiamo gli strumenti per trovarla. Il vaccino, a ben vedere, non gode di miglior salute stante che tutti gli studi tentati fino ad oggi sono clamorosamente falliti, incluso il Mosaica sul quale c’erano molte attese e speranze. Tuttavia molti pensano che HIV non sia un grosso problema. In Italia molti pensano che sia un problema del Continente africano o dei gay e mettono la testa sotto la sabbia.

In questi giorni, alla conferenza CROI potremo fare il punto della situazione su tutto ciò che riguarda questo virus che ci accompagna da troppo tempo e che nel mio Paese è ancora causa di stigma e discriminazione nei confronti delle persone omosessuali.

Sandro Mattioli
Plus aps

Da Bari giunge la notizia di una sentenza storica. Una persona con HIV, è stata assolta dal tribunale perché “il fatto non sussiste” in quanto l’accusato era in trattamento efficace e, quindi, non in grado di contagiare nessuno.

L’uomo era stato denunciato per tentate lesioni gravissime dalla partner occasionale per un rapporto sessuale avvenuto nel 2018. Il Giudice ha deciso di tenere conto delle deposizioni dei tecnici che hanno spiegato alla corte il tema della non contagiosità in caso di carica virale non rilevabile.

“Come attivisti di Plus siamo molto felici di questa sentenza che, finalmente, prende atto dei risultati della ricerca scientifica”, dichiara Sandro Mattioli Presidente di Plus aps.

Già nel 2015 gli attivisti di Plus portarono all’attenzione della società civile il tema della non contagiosità delle persone con HIV con carica virale non rilevabile, anche attraverso la campagna “Positivo ma non infettivo”, che fede scalpore. Come sempre si trattava di una posizione che si basava sugli studi già effettuati sul tema (HPTN052 e PARTNER). Studi che, in seguito, vennero ampliati e portarono alla dichiarazione ufficiale rilasciata durante la conferenza mondiale AIDS di Amsterdam nel 2018 a sostegno dell’equazione U=U – acronimo inglese che sta per “non rilevabile = non trasmissibile”.
Con buona pace delle paure irrazionali, dell’ignoranza, dell’ipocondria o peggio – continua Sandro Mattioli questa sentenza rende giustizia a 40 anni di stigma subiti da chi vive con HIV”.

La forza con cui le associazioni di pazienti e di lotta contro HIV hanno sostenuto U=U, a partire dalla campagna Impossibile sbagliare, ha prodotto un primo risultato storico.


Come ogni anno dal 2013 ad oggi, la nostra associazione aderisce alla European Testing Week, ossia la settimana europea del test.
Una iniziativa europea tesa a promuovere il test per HIV, che quest’anno si terrà

dal 20 al 27 novembre e vedrà il BLQ Checkpoint aperto tutti i giorni dalle 18 alle 20,30.

Sarà possibile prenotare per telefono (0514211857) i test per HIV, epatite C e sifilide al mattino dalle 9 alle 12 o al pomeriggio dalle 18 alle 20; oppure via mail su prenota@blqcheckpoint.it oppure passando a prenotare direttamente in sede, in via S. Carlo 42C a Bologna.

Il tutto grazie all’impegno dei nostri attivisti e con il supporto del personale infermieristico di USL Bologna.

HIV è ancora oggi un’infezione troppo sotto stimata. Infatti nella nostra Regione le persone che ricevono una diagnosi di HIV quando sono già in AIDS, o prossimi a diventarlo, sono ancora oltre il 60% dei nuovi casi di HIV.

Come spesso accade, ricevere una diagnosi tardiva implica una serie di problemi a partire da una minore possibilità di avere un’aspettativa di vita paragonabile a quella della popolazione generale. Tutto il contrario in caso di diagnosi precoce.
Inoltre oggi, grazie alla potenza dei farmaci, le persone HIV positive in terapia efficace non trasmettono il virus per via sessuale. Un traguardo di conoscenza molto importante che ci aiuta a combattere la discriminazione e il pregiudizio e che, insieme a tutte le associazioni di pazienti e di lotta contro HIV e con il supporto di Simit, stiamo promuovendo grazie alla campagna impossibile sbagliare, che vi consiglio di guardare.

Con l’epidemia da sars-cov2/covid (quasi) alle spalle, riprendiamo le buone abitudini e quindi anche la formazione delle persone che sono disponibili a fare attività di volontariato presso i servizi dell’associazione: dal BLQ Checkpoint al PrEP Point, dai Venerdì Positivi alle domeniche di approfondimento “E tu che ne vuoi sapere?” e a tutti i progetti nuovi che stanno nascendo.
Abbiamo davvero voglia di conoscere nuove persone pronte a trascorrere un pò del loro tempo insieme a noi con questo nuovo corso di formazione.

Le ore d’aula si terranno presso la Casa della Salute Porto-Saragozza in via Sant’Isaia 94a a Bologna tranne quelle del 28 ottobre che saranno svolte presso la sede di Plus (via S. Carlo 42C) dalle 14 alle 18.
Invece il laboratorio residenziale si terrà presso il centro Ca’ Vecchia, in via Maranina 9 a Sasso Marconi (BO).

Le ore d’aula nella Casa della Salute Porto-Saragozza, sono aperte a chiunque voglia approfondire gli argomenti trattati, quindi anche se non vuoi fare il volontario ma ti interessano i temi, sei libero di entrare ed ascoltare. Invece la parte residenziale del corso è riservata a chi vuole fare il volontario.

Il limite massimo di iscrizioni per ogni sessione è di 20 persone. Il corso è gratis. L’organizzazione tecnica del corso è a cura dell’Azienda Sanitaria di Bologna che ne effettua anche la certificazione. Per cui se qualcuno fanno comodo alcuni crediti formativi, si faccia avanti e li richieda.

Il corso avrà inizio il 30 settembre 2023 alle ore 9 e terminerà con le giornate di laboratorio residenziale nel week end del 3-5  novembre 2023 per un totale di 40 ore fra aula e laboratorio.

Per partecipare è necessario inviare una mail a:
info@plus-aps.it indicando:
nome e cognome
numero cellulare

Scarica il programma del corso

Programma e presentazioni in PDF
sabato 30 settembre 2023 ore 9-13Sandro Mattioli
L’associazione Plus aps
sabato 7 ottobre 2023 ore 9-13Marco Stizioli
La PrEP: il lavoro community based
Raffaele Serra
Il ChemSex
sabato 14 ottobre 2020 ore 9-13Lorenzo Badia
Le epatiti virali
La PrEP e la PEP
sabato 21 ottobre 2023 ore 9-13Marco Borderi
L’infezione da HIV
Valeria Gaspari
Le infezioni sessualmente trasmissibili
sabato 28 ottobre ore 14-18 (sede Plus)Eleonora Gennarini
Il counselling fra pari
week end 3-5 novembre 2023Eleonora Gennarini
Laboratorio residenziale Ca’ Vecchia

Verso la fine del 2005, assistetti a una riunione convocata dal Centro Operativo Aids, durante la quale la dott.ssa Suligoi illustrò la situazione relativa ai casi di HIV, di Aids e le prospettive future. In quegli anni in Italia la maggior parte dei casi di HIV erano appannaggio dei “tossicodipendenti”, come venivano definiti allora, per via dell’uso di scambiarsi la medesima siringa.
Tuttavia la dott.ssa Suligoi intuì che le cose iniziavano a cambiare e ci fece notare un incremento dei casi fra gli “omo-bisessuali”, altro termine coevo.
Ricordo che alzai la mano e chiesi qualche informazione in più. Mi venne risposto di non preoccuparmi perché eravamo nella media europea in quanto ad incremento di casi fra gli omo-bisessuali.

L’informazione non mi lasciò particolarmente sereno, infatti decisi di controllare i dati ufficiali dell’Unione Europea e scoprii che l’Italia era esattamente a metà della media europea: 12 Paesi meno bravi di noi e 12 più bravi.
Incominciai quindi a cercare di capire cosa facessero quelli più bravi di noi, mi interessò soprattutto notare che non c’erano solo i “soliti” Paesi del Nord Europa, ma c’erano anche Paesi dell’area mediterranea fra i più bravi.
Pochi mesi dopo, durante una conferenza di ILGA Europe, assistetti a una presentazione di Ferran Pujol sul Checkpoint di Barcellona aperto appena un anno prima. Il metodo checkpoint anche se nato in Olanda, poteva essere applicato anche in un Paese a noi vicino come la Catalogna.

Inizia così la storia del BLQ Checkpoint, quando chi scrive era ancora responsabile salute del Cassero.

Ci sono voluti sette anni di advocacy per arrivare a convincere la Regione, ma anche l’associazionismo locale, che il checkpoint come modello d’intervento era assolutamente necessario in una città e una regione che da sempre ha un problema importante con le diagnosi tardive di HIV.

Nel 2013 la Regione Emilia-Romagna fa un atto di importante riconoscimento politico: con il DGR 768/2013 con il quale riconosce il lavoro di Plus che viene definito soggetto attuatore del progetto di interesse regionale BLQ Checkpoint. Un atto pubblico coraggioso, che nessun’altra Regione ha avuto il fegato di fare, a dimostrazione che il lavoro di tessitura politica e anche tecnica alla fine paga. I tempi lunghi si spiegano con la difficoltà, in parte insita nella Pubblica Amministrazione, ad accettare i progetti innovativi soprattutto se difficilmente inquadrabili nelle regole e nelle procedure in essere. In effetti un checkpoint non si inquadra in nessuna di esse perché non è un ambulatorio ma esegue test di screening, non è un centro associativo ma svolge attività per la community. In effetti svicoliamo, probabilmente la Regione dovrebbe oggi pensare a un altro gesto coraggioso realizzando delle regole per i Checkpoint, condivise e trasparenti. Ma questo si vedrà.

Il Comune di Bologna si dimostra subito collaborativo e mette a disposizione una dirigente per strutturare una convenzione, che diventerà a tre con l’aggiunta di Azienda Sanitaria di Bologna. Sarà un processo abbastanza faticoso appunto per gli aspetti innovativi di un centro che mal si adatta alle regole esistenti. Ma alla fine ce la facciamo e viene firmata una convenzione trina: Plus, Comune di Bologna e Azienda Sanitaria.

Il Comune ci trova una sede, i locali che occupiamo attualmente, non propriamente una sede meravigliosa perché si trattava di un ex ristorante chiuso da sette anni, pertanto completamente fuori norma e da ristrutturare. Cosa a cui ha dovuto pensare Plus. Posso dire con orgoglio che siamo riusciti a trovare oltre 300.000€ con i quali abbiamo ristrutturato e allestito una sede che, anche grazie al progetto di ben due architetti (Andrea Adriatico e Nino Tammaro), è oggettivamente un bel posto, molto lontano dalla tipica struttura ambulatoriale alienante. Un luogo in sé accogliente, fermo restando che l’accoglienza vera e propria la fa il personale volontario dedicato a questo scopo che non sbaglia un colpo, agisce sempre in modo molto professionale. Visto l’ammontare speso, concordiamo con il Comune una convenzione di 15 anni che non prevede il pagamento di un affitto.

Il terzo ente firmatario è l’Azienda Sanitaria di Bologna. Grazie all’insostituibile lavoro della dott.ssa Venturi, responsabile del Centro C.A.S.A., forse l’unica responsabile genuinamente interessata al progetto, otteniamo una convenzione della durata di quattro anni, credo che sia il massimo per USL. In questa fase iniziale l’Azienda si impegna a fornire gli infermieri per l’esecuzione dei test (anzi, del test perché all’epoca abbiamo iniziato con il solo test di screening per HIV), ad occuparsi dell’acquisto del test, della gestione del materiale di consumo e dello smaltimento dei rifiuti speciali. Inoltre USL si sarebbe occupata, in collaborazione con Plus, della formazione del personale volontario dell’associazione. La disponibilità del personale infermieristico viene fissata in sei ore alla settimana, per cui decidemmo di aprire martedì e giovedì dalle 18 alle 21. Dopo otto anni siamo ancora fermi a questa fase di start-up.

Dopo poche settimane dall’apertura, l’Ospedale S. Raffaele di Milano ci coinvolge in uno studio sull’esecuzione di test di screening a risposta rapida su HCV (epatite C).
Di li a poco verranno aggiunti anche i test per sifilide.

Alla scadenza della convenzione lato USL, dopo vari solleciti per un incontro teso a rinnovo ovviamente, per tutta risposta ci arriva una mail con la convenzione già rinnovata, in peior, e già firmata dalla dott.ssa Gibertoni allora direttrice generale dell’Azienda Sanitaria di Bologna. La convenzione passa da 4 anni a uno, si mette così una pietra tombale sulle reali possibilità di sviluppo del BLQ Checkpoint… come se questo non fosse sufficiente, quest’anno (2023) il rinnovo annuale della convenzione ha subito un ritardo di ben sei mesi. Per cui siamo nelle condizioni di ipotizzare programmi di sviluppo senza la collaborazione di USL, che manco risponde alle mail e si fa negare al telefono, della durata massima di 12 mesi, quest’anno ridotti a sei.

Poi si chiedono perché chiudere.

Per riprendere l’esempio del Checkpoint di Barcellona, i cui abitanti sono più o meno come quelli della nostra regione, quel centro è aperto 12 ore al giorno, il personale interno riceve uno stipendio, hanno comunque decine di giovani volontari che promuovono il servizio nelle discoteche, ai Pride e così via. Il centro distribuisce la PrEP gratuitamente mentre noi dovremo impazzire. Un centro che ha aperto 17 anni fa in puro volontariato, che oggi offre un’opportunità di lavoro e segue oltre 2.000 persone. Questo significa sviluppo.

A Bologna invece da alcuni anni ci dobbiamo pagare i test per sifilide per motivi burocratici ma mai confermati ufficialmente, non abbiamo contezza di chi sia il nostro medico di riferimento perché dal giorno in cui la dott.ssa Venturi è andata in pensione semplicemente questo passaggio è saltato, siamo stati spostati dal Dipartimento cure primarie a quello di salute mentale senza alcuna spiegazione. Chissà, forse qualcuno ha ipotizzato che i gay possano avere problemi in tal senso. A ben vedere siamo riusciti ad andare avanti in questi ultimi 4 anni solo grazie all’appoggio della Responsabile infermieristica che ci segue, anche meglio di un medico, dott.ssa Assueri.

Va da sé che Plus non ha alcun preconcetto ideologico, pertanto a fronte di un impegno serio della Pubblica Amministrazione e dell’Azienda Sanitaria nello specifico, un impegno che vada nella direzione logica che ha portato il Sindaco Lepore a firmare il protocollo Fast Track City e che, quindi, metta il BLQ Checkpoint nelle condizioni di uscire dalla fase di start-up e dare un serio contributo al raggiungimento degli obiettivi di UNAids prima del 2030, non abbiamo nessun problema a fare marcia indietro.

Ma al momento resta in essere la decisione di chiudere il BLQ Checkpoint a partire dal 1 luglio 2023. Di seguito il comunicato stampa.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente.