Il titolo scimmiotta immeritatamente quello di un bellissimo articolo scritto da Mark King, noto attivista statunitense, per celebrare la giornata mondiale per la lotta contro l’Aids. Oggi abbiamo nuove vite in un mondo che non è soffocato dalla malattia, scrive King in chiusura, e sono convinto che la consapevolezza dell’orrore passato sia sua personale che della comunità omosessuale statunitense, rende ancora più vera quella frase. Una frase che, tuttavia, mi ha fatto riflettere sulla situazione attuale in Italia e sulle grandi differenze fra i due paesi.
Sul piano clinico, fra Italia e USA non c’è storia. L’Italia vanta un numero altissimo di persone sieropositive prese in carico dagli ospedali. Persone che seguono correttamente le indicazioni dei medici e che hanno ottenuto una carica virale non più rilevabile e, quindi, non più contagiose. Tutto il contrario degli USA che, probabilmente per vie del sistema sanitario profondamente diverso dal nostro, non ha neanche lontanamente ottenuto i successi italiani. Non possiamo dire lo stesso sul piano sociale, della consapevolezza politica di una comunità che negli USA si è fatta carico della salute dei propri membri fin dall’inizio della pandemia negli anni 80. Oggi quella comunità vanta alcune fra le più grandi associazioni di persone sieropositive e di attivisti nella lotta contro HIV/AIDS. Vanta un percorso fatto di compassione per le sofferenze di amici, amanti, persone vicine che non ci sono più. La nostra comunità ha fatto una scelta diametralmente opposta: ha scelto che fossero altri ad occuparsi di HIV, ha scelto di non farsi carico del tema e di lasciare sole le persone gay sieropositive a gestire l’infezione, lo stigma, il corpo che cambia, il rifiuto di se stessi e l’isolamento da parte degli altri, e tutto quello che comporta essere omosessuali e sieropositivi in una società sessuofobica, giudicante, bigotta di cui anche la comunità LGBT è parte integrante. Si integrante. Lo vediamo ancora oggi.
Nonostante l’associazionismo gay stia cercando di recuperare i decenni perduti, la comunità omosessuale molto – troppo – spesso addita i gay sieropositivi come indegni, indecenti, se hanno HIV chissà cosa hanno combinato, altro da noi. Trovare un “marito” è cosa ben più complicata qui che altrove anche perché ci piace tenere la testa sotto la sabbia, nella convinzione che HIV riguardi gli errori degli altri non noi, e quindi fuggire è la cosa migliore che ci viene in mente, fuggire dalla paura irrazionale, dai giudizi, da quello che anche i migliori giornalisti nazionali chiamano con termini medievali,. Fuggire, non avere contatti meno che mai sessuali, non avere nessuna cognizione dello stigma che viene posto in essere con le stesse dinamiche discriminatorie che alcuni eterosessuali attivano nei confronti dei gay.
Si, c’è una pesante discriminazione dei gay verso una minoranza di gay sieropositivi, uno stigma costruito su mattoni fatti di silenzi, paure, ignoranza. Alla fine della fiera siamo discriminati due volte per il nostro orientamento sessuale e per il nostro stato sierologico. Non c’è compassione, non c’è comprensione, non c’è coscienza storica né collettiva. “Io, me stesso e me” sembra essere il mantra di questa fase storica del movimento italiano che, giustamente, si commuove per i migranti ma isola e respinge parte della sua stessa identità.
Oggi le cose possono essere diverse. Noi, persone sieropositive, abbiamo questo potere. Oggi noi fermiamo l’epidemia. A 10 anni dal primo studio del prof. Vernazza sulla non contagiosità delle persone sieropositive in trattamento efficace, studio che portò alla dichiarazione svizzera, oggi abbiamo prove scientifiche inconfutabili che le persone sieropositive con carica virale non rilevabile non sono contagiose. Decine e decine di migliaia di rapporti penetrativi senza condom e senza contagio alcuno, stanno li a dimostrarlo. La Tasp è prevenzione, grazie alle terapie e soprattutto grazie al nostro impegno nell’assumerle. Quindi si: sono sano. Sono sano perché ho un’infezione, ma non la trasmetto a nessuno neanche volendo e come me, tutte le persone con carica virale non rilevabile. Sono sano perché posso fermare l’infezione e sono fiero di poterlo fare. Sono sano perché ho la mia salute sotto controllo e non so quante persone dallo stato sierologico ignoto possano dire altrettanto. Oggi, ci sono nuovi eroi nella battaglia contro HIV.
È successo di nuovo. Avevo appena parlato a una conferenza e una attivista trans*, che peraltro stimo molto, ha sentito l’esigenza di ridirlo… «Ricordiamo a tutti che l’Hiv non riguarda le categorie di persone, ma i comportamenti. Non vorrei che su questo argomento si tornasse a parlare di categorie a rischio…».
Io di ghiaccio.
Cosa c’è di sbagliato in quello che ha detto? Tecnicamente assolutamente nulla. È innegabilmente vero che l’Hiv lo prendi se ti capita di fare sesso senza protezioni con una persona che ce l’ha e non si sta curando (perché ricordiamo se uno è in terapia efficace non lo può trasmettere). Qualunque sia il tuo genere e il genere del tuo partner, indipendentemente dal fatto se ti definisci gay, etero, bisessuale o marziano.
Ma vogliamo farla una riflessione su cosa nasconde l’inattaccabile precisazione della nostra amica attivista? Innanzitutto, c’è un problema “storico” o “politico”, vedete voi: forti di questa sacrosanta puntualizzazione, moltissime organizzazioni LGBT italiane ma anche europee (e credo anche al di fuori del Vecchio continente) hanno pensato bene di smettere di occuparsi di HIV, perché “non è una cosa che riguarda solamente noi, se ne occupino le istituzioni che devono curare la salute pubblica di tutte e tutti”.
Bene. Le istituzioni, ovviamente, hanno adottato lo stesso presupposto: “non dobbiamo presentare l’HIV come un problema dei gay, ma parlare alla popolazione generale”. E così, giù con campagne dal messaggio quanto più vago e “ampio” possibile, con l’ovvio risultato che un messaggio vero, sintetico, efficace non è arrivato a nessuno. Chi se lo ricorda Raul Bova che avvolge il fiocco rosso intorno a persone ignude di tutte le tipologie? Forse solo qualche fan sfegatato (gay, ovviamente…). E se anche vi ricordate dell’avvenente attore, vi ricordate cosa comunicasse quella campagna? Sono pronto a giurare di no.
Oggi, ulteriore ennesimo episodio. Siamo al 1° dicembre e la stampa – vivaddio – decide di parlare di HIV (oddio, spesso vogliono parlare di AIDS, ma vaglielo a spiegare che non sono la stessa cosa…). Vengo contattato da una giornalista del Tg1 per una intervista, un minuto per parlare di come mi sono contagiato, cosa si può fare per fermare l’epidemia. E che ci vuole? Vabbè, acconsento. Aspetto la telefonata di conferma che puntualmente arriva: «Scusa Giulio – mi spiega la scrupolosa e gentilissima collega – ma il direttore mi ha chiesto di trovare una donna. Sai, è anche un modo per far passare il messaggio che l’Aids [sic] non è solo… [momento di imbarazzo] qualcosa che sta in un certo gruppo di persone [froci, dillo, siamo froci!], ma anche le donne si infettano sempre di più».
Ora, io sono felice che si parli di Hiv tra le donne: è doveroso. E non mi interessa nemmeno precisare che le nuove diagnosi di infezione tra le donne sono stabili dal 2010 e non in aumento (a meno che non parliamo delle donne straniere…). L’Hiv tra le donne è sicuramente un argomento trascurato, quindi ben venga che se ne parli!
Però mi viene in mente un dubbio: non è che stiamo “censurando” ciò che accade tra i gay? Forse è solo la mia impressione, ma mi sembra che gli unici a parlare di Hiv tra i gay siano – alcune – associazioni gay. Ovviamente facendo la tara di quella innominabile trasmissione spazzatura che va in onda la domenica e il martedì in prima serata un canale Mediaset e che si diverte a buttare in pasto agli affamati leoni della tastiera gli “untori”(mai conosciuto uno) o la coppia gay sierodiscordante tanto bella perché usano ancora il preservativo (anche se il partner sieropositivo è undetectable e quindi NON PUÒ trasmettere l’Hiv manco con l’aiuto di tutti i santi del Digitale Terrestre, ma questo è ovvio che l’infotainment da discarica non lo dice!). O altre amene avventure pseudo-giornalistiche di questo tipo.
Io non ricordo un Tg1 con un ospite gay che parli della sua vita con Hiv. Non ricordo nessun intervento nella tv cosiddetta generalista che spieghi ai giovani gay quanto sono a rischio di contrarre il virus. Mai. Mi sbaglierò, so di avere una pessima memoria.
Eppure… Eppure, caspita se ce ne sarebbe bisogno! Non me ne vogliate ma qui parte il pippotto epidemiologico. Andiamo a vedere i dati appena pubblicati dall’Istituto superiore di sanità e aggiornati – a meno di quei casi che le regioni non hanno ancora segnalato al centro operativo Aids e che saranno aggiunti da qui a qualche mese – al dicembre 2017. Lo scorso anno sono state segnalate 3.443 nuove diagnosi di infezione da Hiv. Di queste, 2.249 riguardano cittadini italiani. Il problema rappresentato da quelle 1.181 segnalazioni relative a cittadini stranieri è enorme e va affrontato anche quello! Ma io voglio un secondo concentrarmi sugli italiani (pare vada di moda, ultimamente…). Quasi metà di quelle diagnosi (1.061 per l’esattezza) è avvenuta in seguito a rapporti sessuali tra maschi. Sono invece 543 le nuove diagnosi registrate tra i maschi etero e 273 quelle tra le donne.
Questi i numeri assoluti. Ma facciamo una riflessione sulla proporzione di maschi gay che ogni anno si trovano scritto “positivo” sul foglietto del test Hiv? Noi non sappiamo quanti ce ne siano in Italia, di maschi gay. Non è mai stato fatto un censimento o uno studio grande in proposito. Possiamo solo fare stime molto, molto, molto grossolane. Quindi mi perdoneranno gli epidemiologi – che tanto sono sicuro non perdono tempo a leggere questo articolo – ma farò una roba “un tanto al chilo”. Secondo il Censimento del 2012, dei quasi 60 milioni di italiani sono maschi 28.750.000 circa. Se ci limitiamo a quelli che avevano più di 18 anni arriviamo a 22.200.000 circa. Ora, lo sappiamo tutti che forse sono molti di più ma basiamoci sulle statistiche generali e diciamo che anche in Italia un maschio su 20 ha avuto almeno una volta nella vita un rapporto sessuale con un altro maschio: quindi ci sarebbero 1.110.000 italiani di sesso maschile che possiamo definire “gay” (molti dei quali se lo sapessero mi riempirebbero di botte, probabilmente). Se dividiamo il numero di nuove diagnosi tra i maschi gay (1.061) per il numero di maschi gay stimato (1.110.000) otteniamo che quasi un maschio gay su 1.000 ogni anno ha una diagnosi di Hiv. Proviamo a fare la stessa operazione per i maschi etero? Risultato: uno su 38.000. E le donne etero? Siamo quasi a una su 90.000. Per carità, conti grossolani, che più grossolani non si può: ma ci vogliamo rendere conto che l’ordine di grandezza che ne viene fuori è comunque agghiacciante? C’è o non c’è un problema grosso quanto una casa tra i maschi gay rispetto all’Hiv?
Potremmo anche citare l’ottima analisi prodotta dai massimi scienziati mondiali e pubblicata nel 2012 sulla prestigiosa rivista The Lancet (a dire il vero, la più prestigiosa al mondo…) e ricordare che il fatto che l’Hiv sia così diffuso nella comunità gay rappresenta di per sé un rischio, perché è chiaramente molto più facile per un uomo omosessuale incrociare tra i suoi amanti qualcuno con Hiv e con carica virale rilevabile in grado di trasmettergli l’infezione rispetto a quello che accade per gli etero. Non solo: i gay sono gli unici che possono avere sia il ruolo attivo che passivo (vabbè, gli scienziati direbbero insertivo e ricettivo, ma ci siamo capiti), cosa che rende più facile la trasmissione tra chi mi passa l’Hiv e quello a cui lo passo io. Se a questo aggiungiamo il fatto che nel rapporto anale (che però pare anche gli etero possano consumare) è molto più facile la trasmissione di Hiv, abbiamo completato il terzetto di vulnerabilità che rendono gli uomini gay più a rischio di diventare sieropositivi.
Un’ultima riflessione personale: credo sarebbe sbagliato pensare che il gruppo dei maschi gay sia chiuso e che quindi tutto questo “Hiv” che circola là dentro resti lì. Mi risulta che ci siano anche maschi che fanno sesso sia con i maschi che con le donne. Persone che potrebbero – ovviamente sempre involontariamente, non voglio certo colpevolizzare nessuno – contrarre l’Hiv dove è più facile trovarlo, cioè tra i maschi, e trasmetterlo alle donne. Questo solo per dire che intervenire per fermare l’Hiv tra i gay credo che vada a vantaggio anche degli etero e della diffusione generale dell’infezione.
In conclusione, non sto richiamando attenzione sull’Hiv tra i gay per puro narcisismo frocio – dal quale pure potrei non essere esente – né voglio negare l’importanza enorme che hanno anche altre situazioni, come la questione della salute sessuale delle persone straniere o delle donne. Mi viene però il sospetto che qualcuno possa credere che non ci sia più bisogno di parlare dell’Hiv tra i gay. A quel qualcuno vorrei dire che credo proprio che ce ne sia un gran bisogno. Quel “qualcuno” forse non lo sa, ma sta ponendo una censura pericolosa (e, credo, non esente da un odioso moralismo) su un tema che riguarda la salute dei cittadini e di tutte le persone, gay certo ma anche di altri orientamenti sessuali. E davvero l’ultima cosa di cui l’Hiv ha bisogno è di altre censure.
World Aids Day 2018: Plus pone l’accento sulla TasP
In occasione del 1 dicembre, giornata mondiale della lotta all’Aids, Plus Onlus ribadisce con una campagna la centralità della TasP, acronimo inglese che sta per trattamento come prevenzione. Una persona sieropositiva in terapia efficace non è in grado di trasmettere il virus. La TasP è una delle colonne della prevenzione dell’Hiv insieme al preservativo, alla PrEP (profilassi pre-esposizione) e alla PEP (profilassi post-esposizione). Strategie che posso essere integrate e sono di sicura efficacia.
È dal 2015, dalla campagna Positivo ma non infettivo, che Plus Onlus pone l’accento sulla non contagiosità delle persone che vivono con Hiv e hanno la carica virale non rilevabile (undetectable). Questa affermazione è suffragata dai risultati di 10 anni di studi, dalla Swiss Declaration allo studio Partner. Dopo la conferenza mondiale di Amsterdam del luglio 2018 e la presentazione dei risultati dello studio Partner2, la validità della TasP è più che mai confermata. Lo dicono 77.000 rapporti sessuali penetrativi senza preservativo tra partner sierodiscordanti (uno negativo, uno positivo undetectable) e zero contagi. A livello internazionale, il messaggio della TasP è stato riassunto nella formula U=U (undetectable = untransmittable).
Questa non è solo una buona notizia in termini di prevenzione, ma dovrebbe anche mettere la parola fine allo stigma nei confronti delle persone sieropositive diagnosticate, che nella stragrande maggioranza dei casi raggiungono in breve tempo lo status undetectable.
Dovrebbe, ma purtroppo non è sempre così. A Plus sono infatti arrivate segnalazioni da utenti che si sono rivolti a ospedali di Livorno, Brescia e Grosseto, i cui medici hanno negato la formula U=U generando paure irrazionali. Un atteggiamento spesso fomentato da articoli giornalistici irresponsabili. In occasione di questo 1 dicembre Plus invita ufficialmente Simit, nonché l’Ordine dei giornalisti, a organizzare eventi di aggiornamento per i propri iscritti affinché questi incidenti non si ripetano più. La TasP è una misura efficace contro la diffusione di Hiv, e le persone sieropositive che raggiungono lo status undetectable sono fiere di svolgere un ruolo chiave nella battaglia contro il virus.
In vista del laboratorio residenziale di Plus, ecco alcune testimonianze scelte fra quelle delle oltre 100 persone gay sieropositive che hanno già partecipato ai laboratori residenziali di Plus (HIVoices, Sono Sieropositivo, +o- Diversi).
“Fatti del bene”
Mi iscrissi al primo residenziale con timori e paure: l’incognita di ciò cui mi accingevo a partecipare, il disagio che avrei potuto incontrare persone che conoscevo ed entrare in confronto con loro, dello sentirmi sporco per via dell’infezione, e dei maestrali cui la vergogna mi aveva dato in pasto. per giorni mi sono chiesto che cosa mai mi era saltato in mente… Dopo, nei giorni successivi, la condivisione di racconti intimi intensi di vite altrui, differenti ma vicine alla mia regalavano una strana energia, una nuova coscienza che via via segretamente mi accompagnava verso il benessere ed allontanava il vuoto della solitudine. Goloso e bisognoso ho frequentato lab. successivi alla ricerca di quiete interiore. la mia vittoria? È stata l’aver saputo raccogliere l’offerta di Plus; di comprendere che non ho colpe e perdonare me stesso… Invito te che mi leggi a farti del bene partecipando, non hai nulla da perdere, anzi. Michele Degli Esposti. Plussiano Fiero. Sempre.
Dieci motivi per i quali partecipare a un Laboratorio Plus.
1. Perché ci fa star meglio. Ci smuove emozioni, sensazioni ed energie che ci aiutano, col tempo, a essere più sereno, consapevole, risolto. 2. Perché c’è un prima e un dopo. Un Laboratorio Plus è un’esperienza forte, che generalmente segna un confine tra un prima e un dopo nelle nostre vite: un punto di vista inaspettato e nuovo, che ci aiuta tanto nel nostro percorso verso la felicità. 3. Perché non siamo soli. I Laboratori sono una palestra eccezionale per capire che non siamo soli. Che ci sono altri ragazzi e uomini HIV+ che conoscono i nostri problemi, le nostre preoccupazioni, che fanno il possibile, proprio come noi, per stare meglio. 4. Per prenderci una pausa. Perché ci fa bene prenderci una pausa per noi stessi. Una piccola parentesi che ci consenta una mini-fuga dalla quotidianità. 5. Perché dietro c’è una regia da Oscar. Dietro i Laboratori Plus c’è un mondo. Ci sono due conduttori preparati ed esperti, c’è un’associazione di persone sieropositive molto forte, presente e coraggiosa: incontrare questo mondo è molto emozionante! 6. Perché il gruppo è una figata! La forza del lupo è nel branco, la forza del branco è nel lupo. I gruppi che si creano sono sempre delle belle casse di risonanza delle energie di ciascuno, uno strumento molto potente, che deve essere sperimentato! 7. Perché il set è magico. Un grande casale immerso nei boschi, nel silenzio, lontano da stress, traffico e quotidianità. Un luogo magico, dove dimenticare il telefono e fermarsi ad asocoltare. Ad ascoltarsi. 8. Per conoscere persone nuove. Ai Laboratori Plus partecipano persone belle: motivate, aperte all’altro, anche capaci di divertirsi quando è il momento per farlo. 9. Perché ce lo meritiamo. I Laboratori sono momenti che ci aiutano a riflettere sulla felicità che ci neghiamo. Sulla fatica che abbiamo fatto e che quotidianamente facciamo, sui pregiudizi che subiamo, sull’impatto che l’HIV ha sulle nostre vite. Ci meritiamo un momento per noi stessi, no? 10. Ciascuno ha il suo perché. Il decimo motivo, scrivilo tu. Ciascuno ha il suo perché. Ciascuno la sua strada, la sua motivazione, il suo percorso. Il tuo qual è? Roberto
“Mettermi a nudo, con piacere”
Non volevo andare ad HIVoices; pensavo che dopo 12 anni di sieropositività e l’attività nell’associazionismo Hiv non avessi bisogno di lavorare sulla mia condizione di Hiv+. Fu il mio ragazzo (sieronegativo) a spingermi: ‘Hai ancora delle cose da risolvere rispetto alla tua diagnosi’. Aveva ragione: HIVoices è stato un modo per guardare da vicino quello che nella vita di tutti i giorni rimane nascosto sotto il tappeto. Ho visto le mie paure e le difese che ho sviluppato, come queste mi limitassero nella mia capacità di vivere la mia vita e incontrare le altre persone. Il lavoro mi ha spinto a mettermi a nudo ma l’ho potuto fare con tranquillità, quasi con piacere, perché mi sono sentito protetto. E tirare fuori cose così profonde davanti ad altre persone crea dei legami straordinari: anche se non ci vediamo spesso, sento con tutte le persone di quel gruppo una intimità e una condivisione straordinarie. E sono loro grato per avermi permesso di tirare fuori quello che sono e di aver condiviso con me quello che sono loro. Giulio Maria Corbelli
“Un ambiente protetto”
Pensavo fosse solo un semplice seminario informativo, ma quello che ho trovai, una volta arrivato, fu un ambiente protetto dove ho potuto sfogarmi e liberarmi di alcune cose che sopprimevo, il laboratorio non solo mi ha aiutato su questo fronte, ma anche grazie alle attività di confronto ho trovato alcuni punti di riflessione, dove ho ricavato i miei strumenti per affrontare al meglio la mia vita da gay sieropositivo. Golia
“Si incrociano gli sguardi”
2 laboratori vissuti : non e’ un impegno, non una vacanza, non un party a luci rosse. Come in un film ripercorro la mia vita, il mondo che mi gira attorno, e per qualche istante si incrociano gli sguardi, le vite di chi in quel momento e’ partecipe, vorresti durasse il più possibile per capire…non rimane che il tempo di tornare a casa. Emillio P.
“I pregiudizi che portavo in me”
Qualche mese fa ho partecipato a un laboratorio residenziale organizzato da Plus e composto da persone sierodiscordanti. Nella mia esperienza di vita ho avuto poche occasioni di confrontarmi col tema Hiv perché si tende a parlarne sempre meno. Ancora meno occasione ho avuto di incontrare l’esperienza di vita ed emotiva di persone hiv+. Ho partecipato con un amico sieropositivo e ho incontrato tante esperienze e storie di vita molto arricchenti. Ho preso contatto con pregiudizi più o meno inconsapevoli che portavo con me e ho approfondito molti aspetti relazionali. Mi sono sentito parte di un percorso di crescita sociale che coinvolge le persone hiv+, sempre più in cammino per una integrazione sociale senza stigmi né senso di diversità (ancora più alla luce delle moderne terapie di azzeramento della viremia). Anche da sieronegativo ho percepito un cammino rilevante per superare una paura antica verso la condizione di sieropositività. Questo apporto di crescita che ho ricevuto è stato ancora più significativo perché, a livello personale, è coinciso con la nascita di una bella relazione sentimentale con una persona sieropositiva. Il lavoro di autoconsapevolezza svolto anche nel laboratorio di plus mi ha sicuramente fornito strumenti di comprensione e mi ha liberato di sovrastrutture mentali nella relazione di incontro del mio compagno. Sono riconoscente nei confronti di Sandro Mattioli che ha saputo immaginare il valore di laboratori così intensi. Grazie. Con affetto, Daniele
“Una persona più serena”
Ho partecipato al laboratorio perché ho avuto la fortuna di conoscere Sandro proprio qualche settimana prima che ne iniziasse uno, e probabilmente il Presidente ha colto il mio stato di depressione di allora, dovuto proprio al fatto che ero in terapia da quasi un anno senza aver avuto mai un supporto psicologico od umano. Per me è stata quindi un’esperienza importantissima, ringrazio ancora infinitamente tutti i volontari che si sono rilevati persone fantastiche e professionali, grazie ai quali ho cambiato la mia visione delle cose, ho capito che posso convivere senza problemi con la malattia, ho trovato un gruppo di amici nuovi che in qualche occasione mi capita di reincontrare, e sempre con grande piacere. Consiglio vivamente a tutti di frequentare un laboratorio e di superare i timori iniziali – io stesso ne avevo molti, per fortuna ho partecipato al primo usandomi una sorta di leggera violenza, ma ora sono una persona più serena; ho ancora alcune cose da risolvere, ma almeno ora conosco la direzione per lavorarci. Grazie ancora agli esperti e ai volontari, la gentilezza e la serietà professionale non sono cose scontate! Paolo
“Condividere relativizza”
Mi sono iscritto al primo laboratorio HIVoices, totalmente inconsapevole di come sarebbe stato strutturato e chi sarebbero stati i miei compagni di corso. Ero fresco di diagnosi e sapevo solo che dolevo fare qualcosa. Volevo essere protagonista della situazione che mi stava capitando e non solo subirla. Avevo bisogno di confronto e di non isolarmi e mi è sembrata subito una grande fortuna avere una possibilità del genere. Ammetto che all’inizio avevo l’ansia per l’assicurazione della privacy e sul grado di riservatezza che un esperienza del genere potevano comportare. L’ansia è totalmente svanita durante il viaggio di andata: 1 ora di strada sterrata per arrivare in un posto isolato, deserto, esclusivo e anche un pochino magico. I risultati sono andati ben oltre le aspettative. non solo mi sono confrontato con storie diverse dalla mia ma ho trovato nuovi amici, suggestioni, consigli pratici oltre a una spinta emotiva verso un futuro che dopo sembra sicuramente meno spaventoso. Insomma, da soli le cose si radicalizzano. Condivise con gli altri si relativizzano. Matteo.
“Un legame ci univa”
Mi chiamo Raffaello gay-sieropositivo da oltre 15 anni – vivo a Milano – ho partecipato ad uno dei primissimi laboratori HIVoices e Sono Sieropositivo. Personalmente non ho avuto dubbio su andarci o no, è stata una esperienza meravigliosa che porterò sempre dentro di me. Già il luogo del seminario ci conduceva ad una vicinanza del gruppo dandoci la possibilità di conoscerci di parlarci di confrontarci. Durante le varie sedute impegnative ma belle sentendo altri compagni sulla loro vita e sulle proprie emozioni ad essere sieropositivi e gay ho pianto. Alcune volte sono dovuto uscire dal laboratorio perché l’emozione era troppo forte. Una esperienza stupenda che quando si era sulla strada del ritorno verso Bologna, quasi si voleva che questi tre giorni non finissero mai. Un legame ci univa tutti. Grazie a chi vi lavora a Sandro, a Plus e se mi sentirò e ne avrò l’occasione sicuramente ne farò altri. Raffaello.
“Ne uscirete più forti!”
Non abbiate remore ne uscirete più forti e sereni. Ho partecipato a tutti e tre i laboratori organizzati da Plus: HIVoices, Sono Sieropositivo e +o- Ho impiegato un po’ di tempo a decidermi per il primo, sapevo che sarebbe stato un momento molto forte e avevo timore Poi l’ho fatto e sono state tre esperienze travolgenti che hanno messo in moto un cambiamento con cui mi confronto quotidianamente, chiavi di lettura che partono dalla pancia e poi su, cuore e testa e ritorno, appartenenza e riconoscimento con gli altri partecipanti, consapevolezza di aver condiviso emozioni che restano per la vita. Hiv che diventa risorsa e ti migliora, dare senso e significato al perché sia successo, accettare che può capitare e dopo tanto tempo fare pace Esperienza fondamentale per me, di cui sarò sempre grato a Plus e ai due conduttori. Marco.
“Siamo una comunità”
Frequentavo il BLQ solo come utente e all’ultimo test ho saputo che a breve sarebbe iniziato il corso per volontari. Appartengo alla categoria “gay terrorizzati del contagio HIV”. Così ho deciso di prendere il toro per le corna e mi sono inscritto! Il corso mi ha proposto molti temi per approfondire e studiare il virus dal punto di vista scientifico e sociale. La paura resta sempre, però ora ho più conoscenza dei rischi e sulle diverse forme di prevenzione. Consiglio il corso a tutti: l’HIV ci riguarda, a prescindere dal suffisso + o -. Ora sono un volontario, e accolgo chi viene a fare il test. In qualche occasione mi è capitato di incontrare ragazzi impauriti come lo ero io. Recentemente ad uno ho risposto: “ti capisco, succede, anche a me quando faccio il test” e ci siamo fatti una risata liberatoria. Questa è la magia di quando ci si aiuta “alla pari”. Siamo una comunità, ricordiamocelo! Guido.
“Caricato di speranza”
Era molto tempo che ero incuriosito riguardo a questi Laboratori residenziali. Non ne sapevo molto, a parte che per qualche giorno mi sarei confrontato con altre persone sieropositive. Dopo un anno, riuscii a partecipare al primo step. Non sapevo chi di preciso avrei incontrato o cosa avrei fatto, ma fui tanto colpito, che dopo qualche mese, decisi di andare anche al secondo step. Desideravo fare questa esperienza perché sentivo il bisogno di confrontarmi con altre persone che potevano offrirmi uno scambio di informazioni, di esperienze vissute, di sentimenti forse simili ai miei. Le uniche perplessità che ho avuto sono state le cose da mettere nella scheda di adesione (non sapevo proprio cosa scrivere). Ho avuto occasione di sfogarmi, di conoscermi meglio, e di sforzarmi a capire molte cose a cui non avevo posto il focus : tutto questo insieme agli altri, in un ambiente quasi bucolico,tranquillo e riservato ; anche se ci sono stati dei momenti in cui, la mia tensione emotiva, credo che abbia raggiunto il record (Quanto mi è servito!) L’accoglienza e le coccole, della cucina e della sala, hanno insaporito l’esperienza. Credo che sia stata un ottima occasione di crescita personale. Mi è piaciuto moltissimo : persino durante il viaggio sono riuscito a fare amicizia con delle persone fantastiche. Dopo aver visto il mio test diventare positivo mi sono sentito tremendamente senza via di uscita e solo. Un anno prima di partecipare al HIVoices sul suggerimento di un amico con cui mi ero confidato, avevo preso il primo treno utile per andare a Bologna e incuriosito entrai a Plus. Feci una lunga chiacchierata con un counselor, partecipai a diversi incontri con varie associazioni che trattano il tema HIV e non solo . Partecipai ai 2 step di HIVoices . Tutto questo mi ha caricato di speranza . Tutto questo mi ha fatto vedere che c’è un sacco di gente che si organizza, si industria, si aiuta, vive, lotta giorno per giorno. Ho avuto il desiderio di far parte di questa realtà, ho avuto la voglia di dare il mio piccolissimo contributo, ho avuto la voglia di condividere il mio vissuto e così la mia voce… soprattutto con chi era disposto a darmi ascolto e ricambiare! Antonio.
“La mia paura era il confronto con l’altra persona”
Il mio rapporto con l’HIV è sempre stato molto conflittuale, quindi ho deciso di partecipare al laboratorio +o- in quanto avevo bisogno di affrontare del tutto, sviscerare le mie insicurezze e le mie paure relative a questo tema. Non sapevo assolutamente cosa aspettarmi, sapevo bene cosa fosse la sierodiscordanza e teoricamente sapevo anche come affrontarla. Dico teoricamente perché durante il laboratorio è emerso che la sierodiscordanza non esiste, o almeno per me non esiste, cerco di spiegarmi meglio: per me non è assolutamente rilevante, mi sono accorto che il mio problema era il rapportarsi con l’altro indipendentemente dal suo stato sierologico o meno. La mia paura era il confronto con l’altra persona, non certo con HIV. Ritengo il laboratorio estremamente utile e lo consiglio vivamente a tutti. Massimo Baldini
Anche nel 2018 Plus onlus prosegue con il calendario di appuntamenti mensili dedicati ai maschi gay che vivono con l’Hiv. I Venerdì Positivi sono incontri informali, non sono gruppi di auto-aiuto: ciascun incontro è incentrato su un tema – sintetizzato nel titolo con una parola – sul quale i partecipanti sono invitati, se lo desiderano, a condividere i loro pensieri o le loro esperienze.
I Venerdì positivi si svolgono una volta al mese, al BLQ Checkpoint di Bologna (via San Carlo 42/C). Pur essendo pensati per uomini omosessuali sieropositivi, gli incontri sono aperti a chiunque, nel più totale rispetto della privacy e in un ambiente accogliente.
Di seguito il programma per i mesi da gennaio a giugno 2018. Cliccando sul titolo si sarà indirizzati al relativo evento Facebook.
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I Venerdì Positivi sono realizzati grazie a un contributo non condizionato di ViiV healthcare.
In occasione del 1 dicembre 2017 (Giornata mondiale per la lotta contro l’Aids), l’associazione Plus riprende la campagna di prevenzione “Pillole di buon sesso”, rivolta sia a persone sieronegative, sia a persone sieropositive.
Le pillole sono i farmaci antiretrovirali nei loro diversi usi, e la campagna si concentra su due strategie di comprovata efficacia, da associare a quelle già esistenti principalmente basate sull’uso del condom:
TasP è la sigla che indica la “terapia come prevenzione”. Si basa su un concetto semplice: se la quantità di virus in una persona con Hiv è drasticamente ridotta dai farmaci, non si trasmette l’infezione ad altri. Riprendendo lo slogan lanciato da Plus nel 2015: Positivo non infettivo. La TasP aiuta le persone con Hiv a non considerarsi pericolose per gli altri. E chi non ha l’Hiv può comprendere che fare sesso con una persona in TasP è una delle opzioni più sicure per restare negativi!
PrEP sta per “profilassi pre-esposizione”. È un modo perché le persone sieronegative possano ridurre sensibilmente le possibilità di contrarre l’Hiv. Consiste nel prendere quotidianamente una pillola che contiene due farmaci antiretrovirali. In due parole: Negativo non infettabile. In Italia è possibile acquistarla in farmacia con la prescrizione dell’infettivologo. Sono finalmente arrivati anche i farmaci generici, ma hanno ancora un costo troppo elevato (115€ a scatola) per garantire un’aderenza adeguata. Detto questo è importante fare informazione e accedere a ogni risorsa disponibile contro l’infezione!
Lo scorso dicembre, Plus ha lanciato la campagna Fallo come vuoi, che metteva sullo stesso piano di efficacia, contro l’Hiv, preservativo, TasP e PrEP. Il motivo di una campagna specifica sulle «pillole di buon sesso» è semplice: della TasP si parla ancora troppo poco, malgrado sia una realtà da molti anni. Quanto alla PrEP, implementata con successo in svariati Paesi europei, manca ancora la volontà politica di renderla accessibile in Italia, dove la barriera del prezzo costringe gli interessati a rimediarla per vie illegali, senza supervisione medica. È ora che l’intera gamma delle risorse disponibili per combattere l’Hiv sia nota e resa disponibile a tutti, così che sia possibile effettuare una scelta consapevole, utilizzando in modo integrato le varie modalità di prevenzione. Dobbiamo stringere un patto sociale per invertire i dati epidemiologici e debellare l’epidemia. È ora di usare il buon senso per affrontare un tema, quello dell’Hiv, troppo spesso appannaggio del giornalismo scandalistico e di teorie irrazionali. In occasione del 1 dicembre, il BLQ Checkpoint sarà aperto dalle 18 alle 21 per effettuare il test per HIV e per l’epatite C. Per informazioni e prenotazioni è possibile telefonare allo 0514211857 (martedì e giovedì dalle 18 alle 21), oppure scrivere a prenota@blqcheckpoint.it. Come sempre, le persone che effettueranno i test riceveranno condom, lubrificante e potranno avere la possibilità di un counselling con persone qualificate.
Nel 2008 partecipai alla Conferenza Mondiale Aids di Città del Messico, dove ho avuto il privilegio di ascoltare la relazione del prof. Pietro Vernazza sullo studio che portò alla Swiss Declaration. Lo studio, ancorché piccolo, aveva creato molto scalpore nell’ambiente scientifico e quando giunse alla conferenza, l’attesa e la tensione si potevano percepire chiaramente sia da parte scientifica, sia da parte delle persone HIV+. L’enorme aula che ospitava la plenaria era stipata, almeno 10.000 persone assiepate per ascoltare la notizia dell’anno: Le persone con HIV, a carica virale non rilevabile, senza altre IST, non sono contagiose. Studio allora piccolo (in seguito confermato da decine di altri), dati e rigore scientifico svizzero.
Ricordo l’emozione mia e di Alessandra Cerioli di Lila: finalmente non siamo più untori.
Ricordo anche l’intervento furibondo di una funzionaria dell’OMS. Non si possono dare queste notizie in una conferenza mondiale – disse la funzionaria – perché è alto il rischio che i maschi sieropositivi smettano di usare il condom. La dichiarazione svizzera è alla base delle decine di studi confirmatori della Tasp, trattamento come prevenzione, oggi praticata comunemente in pressoché ogni centro clinico. Oggi l’OMS supporta la Tasp e sostiene che le persone in trattamento efficace non sono contagiose. Perché questo incipit? Oggi abbiamo la possibilità di utilizzare Tasp e PrEP per far circolare meno virus nella comunità. Tuttavia vedo la stessa paura immotivata della funzionaria dell’OMS in molti “scienziati di Facebook”, convinti che la profilassi pre-esposizione, PrEP, porterà ad un crollo nell’uso dei preservativi e il conseguente incremento dei casi di HIV. Il razionale ideologico che è alla base del ragionamento, spesso ha a che vedere con una semplice equazione: “io uso il condom=tutti devono usare il condom”. Un modo di ragionare che implica un giudizio e una discriminazione che sono, in parte, alla base delle numerose, troppe, nuove diagnosi annue di HIV in Italia (3-4 mila ormai stabili da tempo). Provoco, lo so, ma spiego. È evidente che non tutti sono o riescono ad essere talebani del preservativo e la conseguenza è che si espongono al rischio di infezione. In Italia c’è uno zoccolo duro di nuove diagnosi che le attuali strategie di prevenzione non riescono a ridurre. Ormai è evidente da tempo e dobbiamo prenderne atto.
Quindi che vogliamo fare?
Insistiamo che tutti devono usare il preservativo fino a quando nessuno ascolterà più? Oppure seguiamo la strada aperta dai 2 studi europei, Proud e Ipergay, e realizziamo interventi mirati di prevenzione PrEP based? Intendiamoci: in nessuno studio è stato dato il farmaco e arrivederci. Sempre è stato proposto un counselling sulle pratiche a rischio e relative tecniche di riduzione, si è parlato dell’uso di condom e lubrificante, di attività e pratiche sessuali e poi di PrEP. Il farmaco autorizzato per la PrEP oggi è il solo Truvada® (azienda produttrice: Gilead Sciences). Truvada ha la capacità di concentrarsi rapidamente nei tessuti rettali oltre ad una emivita del principio attivo molto lunga. Sia lo studio Proud che Ipergay hanno arruolato MSM (maschi che fanno sesso con maschi) e i risultati sono stati molto buoni: un calo molto consistente dei casi di HIV attesi, prossimo al 90%. Attenzione: non è un vaccino! È un farmaco, anche se generalmente ben tollerato, non è esente da effetti collaterali per esempio a reni e ossa. Ma anche qui: si tratta di soggetti sieronegativi, che possono interrompere il trattamento in qualunque momento. Certo la PrEP non può essere assunta a caso. Ci sono degli schemi da seguire, dei controlli clinici da fare a partire dai test per le IST. Capiamoci: non stiamo parlando di milioni di persone che non vedono l’ora di togliere il condom e scopare come ricci. In Francia, dove la PrEP è disponibile da quasi due anni rimborsata dal servizio sanitario (al contrario dell’Italia), sono circa 3.000 le persone in PrEP. Per lo più nell’area di Parigi. Dunque in cosa consiste la vostra paura? In niente! C’è una larghissima maggioranza di persone che preferiscono continuare a usare il condom per mille ragioni: non è un farmaco, non vogliono mangiare roba chimica per fare sesso, perché con il preservativo non hanno problemi di erezione, piacere o altro, e così via. Ottimo, fantastico, super, top. Ma c’è una parte minoritaria di popolazione, anche gay, che non usa il condom. Non mi interessa entrare nel merito in questo momento: non lo usa o lo usa in modo incostante. Quindi che vogliamo fare? Continuiamo a discriminare chi fa scelte difformi dalla maggioranza? Proprio noi persone omosessuali che ne subiamo di ogni dalla maggioranza eterosessuale?
Smettiamola, subito! Non abbiamo nessuna base scientifica a sostegno e, quel che è peggio, la PrEP è già presente anche nel nostro Paese. È possibile comprare Truvada in farmacia con una prescrizione dello specialista a prezzo pieno: oltre 700€ per 30 pillole, quindi non alla portata di tutte le tasche. Sappiamo di persone che vanno in Francia a prendere il farmaco e lo assumono dio sa come senza controllo clinico alcuno. Sappiamo di persone che la acquistano online da aziende di generici. Sappiamo che c’è un mercato nero di Truvada che esce dalle farmacie ospedaliere come PEP (profilassi post esposizione) o diretto a persone con HIV che ne fanno un altro uso. Poco importa. La PrEP è già presente in Italia perché funziona e c’è richiesta. Il nostro berciare scomposto ha portato stigma e mercato parallelo, quando non nero.
Veramente vogliamo continuare in questo modo? Plus non ci sta! Dal prossimo autunno partirà Sex Check: un programma di controlli gratuiti rivolto anche a chi sostiene (magari su Grindr o GayRomeo) di essere in PrEP. Su base trimestrale testeremo diverse IST: HIV, HCV, sifilide, gonorrea, ecc. unitamente a couselling sulle pratiche sessuali e sulla riduzione del rischio. La tutela della propria salute è un diritto che Plus ha intenzione di sostenere, senza giudizio alcuno. Restate connessi.
Non sono sicuro di condividere l’impostazione del post di Accolla che critica aspramente l’articolo di Rossi Marcelli “L’epidemia della solitudine gay” recentemente apparso su Internazionale. La risposta a chi analizza un problema cercandone le radici profonde, non può sempre essere gli etero non sono messi meglio o, se preferite, è un errore legare l’orientamento sessuale ad un problema anche se, guarda un po’, riguarda più spesso i gay che altri gruppi sociali. Accusare tutti di omofobia, più o meno esplicitamente, è indubbiamente la soluzione più comoda e semplice non solo per evitare un confronto serio, che sarebbe il problema minore, ma, quel che è peggio, è la via più breve per insabbiare il tema e la testa. Se si crede che l’omofobia interiorizzata, come ipotizza Internazionale, non sia alla base della solitudine che spinge alcune persone omosessuali a prendere strade pericolose, ad assumere comportamenti a rischio di contagio, ecc. allora si provi ad esporre una teoria alternativa, non a negare, non ad accusare di omofobia chi, per una volta, tenta un’analisi non scandalistica sulla falsa riga del ciarpame delle iene. Personalmente trovo l’articolo di Rossi Marcelli ben scritto e del tutto plausibile, parte da una valutazione di dati che sembrano essere ignoti solo alla comunità italiana, stante che l’alto tasso di suicidi o l’alta frequenza di diagnosi di HIV nella popolazione gay, è un dato scontato per pressoché tutte le associazioni per i diritti LGBT o di lotta contro HIV europee. ILGA Europe ci passa intere sessioni delle sue conferenze annuali sul tema dei suicidi, fatico a credere che sia un consesso omofobo. Quella della discriminazione e, quindi dell’omofobia interiorizzata, in effetti, è una teoria tutt’altro che nuova anche per quanto attiene alla diffusione di HIV: la conferenza mondale aids di Vienna 2010, si concentrò proprio sul tema della discriminazione e di come essa contribuisca a diffondere il virus dell’immunodeficienza umana. A nessun attivista sieropositivo gay venne in mente di polemizzare e far credere che la IAS fosse omofoba, né che fosse errato associare l’orientamento sessuale all’epidemia di HIV. Semplicemente prendemmo atto dei dati epidemiologici, banalmente perché ci ponevano, e pongono ancora oggi, in cima alla classifica delle nuove diagnosi in mezza Europa. Poiché nessuno crede che HIV gradisca di più i linfociti se di provenienza gay, è evidente che il problema risiede altrove. Guarda caso, laddove le leggi o le religioni discriminano le persone omosessuali, voila il virus si diffonde primariamente proprio in quel gruppo. E’ facile ipotizzare che la non accettazione porti le persone a non darsi valore. L’epidemiologia italiana, cfr dati del Centro Operativo Aids (COA), segnala da anni (almeno dal 2010 guarda caso), che i maschi che fanno sesso con maschi sono in cima alla classifica delle nuove diagnosi, nel silenzio colpevole della comunità LGBT che, tranne rari casi, si ricorda di HIV solo in occasione del 1 dicembre e spesso solo in una logica generalista e moraleggiante. Almeno l’articolo di Rossi Marcelli ha il pregio di tentare di avviare una riflessione, chissà forse addirittura nella speranza di indurre un confronto dialettico. Una modalità che non faremmo male a praticare al nostro interno se vogliamo avere idea di come mutare abitudini o ridurre rischi che si stanno diffondendo, se vogliamo per una volta tentare di andare oltre la retta via dell’offerta del condom in occasione del 1 dicembre o poco altro, se vogliamo davvero ascoltare quella parte di comunità che solitamente fingiamo di non vedere… ops anche la comunità LGBT discrimina? Ancora oggi in Italia, una parte importante della comunità manda segnali preoccupanti. La risposta della parte pensante del movimento non può essere sempre e solo incentrata sul lessico. Un malessere, come la citata solitudine, può essere omosessuale quando i dati ci danno alti indici di suicidi o problemi psicologici nella nostra community. Internazionale ha tentato un’analisi e ha puntato il dito sulla discriminazione che respiriamo fin da piccoli. Si, è ancora così, anche se prima si stava forse peggio. Allora, di nuovo forse, concentrare l’analisi lucida e responsabile su cosa possiamo aver sbagliato nel percorso verso l’accettazione sociale a partire dall’omologazione, o dalla la scelta di delegare ad associazioni generaliste la lotta contro HIV, potrebbe essere utile anche ad attivare strategie tese ad invertire la tendenza esplicitata da Rossi Marcelli, al quale va il mio personale plauso per l’approccio davvero internazionale e per il coraggio di mettere il dito nella piaga.
Sulla copertina del settimanale «Giallo – Storie Delitti Misteri» attualmente in edicola si legge questa sequela di titoli a caratteri cubitali: L’omicidio di Luca Varani – L’orrore non ha fine: Prato è sieropositivo! Chi partecipava ai suoi festini di sesso sfrenato è a rischio.
Trattasi senza dubbio di giornalismo scandalistico, che in quanto tale, come si dice in questi casi, si commenta da solo. Il problema è che questo presunto scoop è stato ripreso in data 28 febbraio da un’altra testata, «Leggo», che ha deciso di dare spazio alla notizia perlomeno on line, riportando gli estremi dell’articolo di «Giallo» e la copertina di cui sopra.
Pur astenendosi da qualsiasi commento circa la vicenda in sé, cronaca giudiziaria pura e semplice, Plus denuncia con fermezza il linguaggio utilizzato, che sottende una criminalizzazione pregiudizievole e senz’appello delle persone sieropositive. È ora che i giornali, cartacei e non, autorevoli e frivoli, affrontino il tema dell’hiv con strumenti diversi da quelli degli anni Ottanta.
Basta leggere le poche righe dell’articolo apparso su «Leggo»: un autentico catalogo dei cliché discriminatori ai danni delle persone sieropositive, trans* e dei lavoratori del sesso. Dimenticando che si parla di rapporti sessuali consenzienti tra adulti capaci di intendere e di volere. Come se la parola «hiv» legittimasse qualsiasi forma di fantasia.
In realtà, quando si parla di un’infezione, di fantasioso c’è ben poco. Hiv è un tema medico-scientifico e come tale dovrebbe essere trattato, senza mai sottovalutare l’aspetto sociale. Sfruttare l’infezione per fare notizia significa ferire le decine di migliaia di cittadini italiani diagnosticati. Decine di migliaia di persone per le quali l’unico «orrore» è costituito dalla paura di essere discriminate. Persone, nella maggior parte dei casi, in terapia efficace e quindi non contagiose.
Ci piacerebbe che d’ora in avanti chi esercita il mestiere di giornalista abbia maggiormente a cuore non solo le evidenze scientifiche, ma anche le conseguenze delle parole utilizzate. Le parole, urlava Nanni Moretti in Palombella rossa, sono importanti. E noi di Plus crediamo che le parole che si usano per parlare di hiv e delle persone sieropositive siano molto, molto importanti.
Nel 2017 Plus Onlus propone 2 nuove edizioni di HIVoices, che ha già visto la partecipazione di 101 uomini omo-bisessuali HIV+ nelle cinque precedenti edizioni.
Che cos’è HIVoices? HIVoices è un laboratorio intensivo, rivolto ESCLUSIVAMENTE a persone che vivono con HIVomosessuali, bisessuali e MsM (maschi che fanno sesso con maschi), pensato come un’esperienza per poter vivere meglio e in maniera più consapevole la propria identità di persona omo/bisessuale che vive con HIV.
Non si tratta di terapia di gruppo. Non è un gruppo di auto-aiuto. Non è un gruppo gay di amanti della natura.
HIVoices è un percorso di sperimentazione nella relazione con Sé e con l’Altro; un’occasione di crescita individuale nel gruppo-di-pari, per accrescere la propria autostima, accettazione e consapevolezza emotiva. Un luogo in cui ritrovarsi con persone differenti, ma simili; un tempo nel quale non-nascondere la propria identità di uomo sieropositivo dotato di un orientamento sessuale altro.
Hivoices è un percorso formativo costruito attorno al concetto di auto-apprendimento, attraverso metodologie di educazione non-formale. Un’occasione per acquisire strumenti per ‘inventare il proprio benessere‘ e valorizzare le proprie capacità individuali, in particolare rispetto ad una piena affermazione di sé.
Perché partecipare ad HIVoices? Essere omo/bisessuali con HIV è difficile. Anche all’interno della realtà lgbtq: nei locali, nei luoghi di incontro sessuale, nelle associazioni, sui social network. “Perché se lo dico, poi non scopo più!”. “Perché se lo dico, poi mi trattano in modo diverso”.
Dire (o non dire) di essere sieropositivo non è come dire di essere omo-bisessuale. Anzi, spesso, tutta la ‘fatica’ fatta nel coming out del proprio orientamento sessuale non serve nel processo di accettazione e comunicazione della propria sieropositività. La paura di essere accettati e visibili in quanto persona dotata di un orientamento sessuale altro si somma alla paura di essere discriminato in quanto persona sieropositiva.
Ma attenzione: se, come, quando e a chi comunicare la propria sieropositività è una scelta individuale. C’è chi (al momento opportuno) lo dice a tutt* e ne fa una bandiera di visibilità; c’è chi invece non lo dice neppure alle persone più care; c’è chi è attivista lgbtq senza dichiarare la propria sieropositività; e c’è chi, essendo sieropositivo e facendo sesso con altri uomini, non accetta la propria omo-bisessualità.
Un ventaglio di possibilità molto ampie; una pluralità di voci differenti.
È così che nasce HIVoices: un laboratorio originale ed atipico nel panorama lgbtq, nel quale i partecipanti possano sentirsi accolti, sia in quanto uomini-che-fanno-sesso-con-altri-uomini, sia in quanto persone che vivono con HIV.
Il gruppo come potente cassa di risonanza, per meglio comprendere ciò che si sa, si fa e si sente – ovvero di ciò che si è; in un luogo accogliente e ‘protetto’, che offra ai partecipanti la certezza che la propria privacy e riservatezza saranno tutelate.
HIVoices 7 QUANDO: venerdì 26 maggio, sabato 27 e domenica 28 maggio 2017. DOVE: in una struttura attrezzata per gruppi residenziali sull’Appennino romagnolo. COSTO: 30 € a testa. SCADENZA ISCRIZIONI: è possibile iscriversi fino a domenica 14 maggio 2017. INFO ED ISCRIZIONI: info@plus-onlus.it