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croi2015_w280x100Ascolta o popolo di naviganti eroi poeti e santi
di emigranti di ricchi benestanti e lavoranti stanchi
or piantatela con i lamenti
basta di mugugnare
presto in coro a cantar e attenti a non stonare…

Sulla PrEP rimbalzano dal web, o dalle dichiarazioni dei tanti “ministri per la salute”, diverse inesattezze, imprecisioni, o addirittura sciocchezze spesso lasciate intendere, qualche volta perfino scritte da presunti esperti i quali, purtroppo, vengono ascoltati.

Anche se un po’ infastidito dalla superficialità con cui vengono affrontati temi delicati, provo a replicare con serenità a tali scempiaggini augurandomi che prima di scriverle/dirle, in futuro ci si informi un po’ meglio.

Apro affermando che la PrEP è consigliata ai soggetti ad elevato rischio di contagio. Non a tutti, non controvoglia o per forza.

A chi interessa la PrEP e perché tutto questo baccano intorno alla profilassi post esposizione per HIV.
Semplice: perché si parla di una infezione che si trasmette scopando.

Infatti la PrEP è una metodica utilizzata anche per prevenire la malaria e nessuno si è mai posto strane domande né si è mai chiesto chi ci guadagna con la malaria.

La PrEP per HIV per ora è stata autorizzata negli USA con un prodotto di Gilead che si chiama Truvada.
Poiché Gilead è una multinazionale, qualcuno ha pensato che chi promuove la PrEP, sia in qualche modo a libro paga della Gilead.
Poco importa che sia l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) a consigliare la PrEP. Pagheranno anche l’OMS, per non parlare del FDA (Food and Drug Administration che ha autorizzato la PrEP negli USA), UNAids (il programma delle Nazioni Unite contro l’Aids) che ha giusto oggi rilasciato un comunicato stampa a sostegno della PrEP (UNAIDS welcomes further evidence of the efficacy of antiretroviral medicines in preventing new HIV infections). Pagheranno anche tutte le 81 associazioni europee che, come noi in Italia, hanno sottoscritto lo stesso documento.

PuzzleQuello che sospettosi ignorano, è che il brevetto del Truvada scadrà nel 2017, ossia fra pochissimo, e che Gilead non ha nessun interesse economico a sponsorizzare il suo farmaco come PrEP in Europa. Banalmente si dovrebbe sbattere in richieste di autorizzazioni al commercio, concordare costi e procedure per poi far guadagnare le aziende dei generici.
Se non sollecitata dalle associazioni di pazienti e di lotta contro l’Aids europee, Gilead non farà nulla.
Quindi a chi interessa la PrEP?

Semplice: alle associazioni che hanno a cuore la salute delle persone e il cui obiettivo primario è evitare foss’anche una singola sieroconversione.

Il Truvada ha effetti collaterali. E’ assurdo far prendere una pillola al giorno ed esporre le persone a tali effetti. I farmaci sono veleno.

I farmaci salvano la vita alle persone. Gli effetti collaterali vanno gestiti dal medico insieme al paziente. In particolare gli effetti del farmaci ARV solo ormai noti e la loro gestione è più che possibile. Chi sostiene che il trattamento ARV è veleno, è una persona che non ha idea di quello che scrive.

Gli effetti collaterali del Truvada sono cosa notissima. La mia opinione, per quello che vale, è che è meglio il Truvada nel sangue che l’HIV, con buona pace degli effetti collaterali.

Detto questo, su possibili effetti a breve termine, mal di testa, vomito, ecc non sto neppure a replicare perché sono problemi che scemano velocemente e non si ripresentano. Cosa diversa, invece, sono gli effetti collaterali di lungo periodo.

Questi ultimi, hanno colpito le persone sieropositive che, costrette ad assumere il trattamento antiretrovirale a vita, hanno assunto il Truvada per anni non per un periodo di tempo.

La PrEP è una profilassi, non una terapia che si assume a vita e non puoi interrompere.

Interrompendo la PrEP gli eventuali problemi, per esempio ai reni, rientrano immediatamente (cfr SeattleCROI 2015 abstract 981 Reversibility of glomerular kidney function decline in HIV uninfected men and women discontinuing Emtricitabine/Tenofovir Dosoproxil Fumarate Pre-exposure Prophylaxis).

Cito uno studio presentato al CROI di Seattle sia perché è meglio sostenere le affermazioni con documenti scientifici, sia per far notare come sulla PrEP la ricerca sta andando avanti nel mondo, con buona pace degli scettici italiani. Ne allego alcuni in fondo alla pagina fotografati nel salone degli abstract del CROI, mi scuso per la qualità.
Il CROI è una conferenza della International Antiviral Society USA, non è il consiglio di amministrazione di Gilead.

Come se non bastasse, chi lamenta che il soggetto in PrEP prenderà farmaci per tutta la vita dimostra quantomeno di non essere informato se non addirittura in malafede. Gli studi europei Proud e Ipergay andavano proprio nella direzione opposta. In particolare Ipergay ha studiato l’assunzione on demand della PrEP. Ipergay ha dimostrato l’efficacia della formulazione che oltre ad essere efficace è anche meno costosa dell’assunzione quotidiana.

E qui veniamo ad un altro tema. Costa troppo, chi paga?

Costa troppo chi lo dice? Se in Italia prendessimo l’abitudine di fare studi, forse potremmo scoprire che costa meno una PrEP ad un ventenne ormonato per qualche mese, che ritrovarselo sieropositivo di li a poco e essere costretti a dargli una terapia per 60 anni, quella si tutti i giorni e con gli effetti collaterali di lungo periodo.

In Italia i farmaci di quel genere vengono rimborsati agli ospedali dal sistema sanitario. La PEP, profilassi post esposizione, la paga il sistema sanitario. Non vedo motivi perché debba essere diverso per la PrEP. Ovviamente è necessario che i decisori affrontino questi temi, non possono farlo le associazioni che semmai possono collaborare.

Ho scritto che la PrEP non è per tutti ma solo per gli individui esposti. In Italia, con ogni probabilità, parleremmo di MSM (maschi che fanno sesso con maschi).

A chi sostiene che quei gay che volessero accedere alla PrEP se ne devono assumere la responsabilità e devono pagare la visita, i farmaci e tutto il resto, così come a quei baroni della sanità che sostengono che la PrEP non è etica, rispondo benissimo, condivido.

Ma se la salute pubblica la misuriamo con il metro della responsabilità personale, allora anche chi fuma dovrà pagare il cardiologo o l’oncologo, gli interventi chirurgici, i farmaci antitumorali o chiemioterapici, ecc.; le donne che accedono all’aborto se ne assumeranno la responsabilità e pagheranno visite e intervento perché ci sono preservativi, femidom e anticoncezionali a piacere, e così via.

E’ del tutto evidente che chi fa certe sparate, dovrebbe valutare con maggiore attenzione le sue affermazioni, anche perché oggi la tendenza epidemiologica segnala un problema nella comunità MSM, ma non è detto che domani cambi. Assunto che si tratta di omosessuali maschi, non posso fare a meno di chiedermi che ruolo gioca l’omofobia, così diffusa in Italia, anche interiorizzata nella discussione in corso sulla PrEP.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente

Secondo giorno, altra letterina.
croi2015_w280x100Plus, insieme a molte altre associazioni europee e, udite udite, italiane, ha sottoscritto un documento di sostegno alla PrEP preparato niente meno che da EATG e Aides.
Già alla pubblicazione del comunicato stampa, sono apparsi i primi commenti ed è davvero curioso notare come in questa conferenza sembra che i relatori li leggano e rispondano.
Infatti una plenaria e una intera mattinata di oral abstract (non è sesso orale astratto ma comunicazioni orali sulle ricerche effettuate), sono state dedicate al tema della prevenzione di secondo livello e della PrEP. Gli studi europei Proud e Ipergay, nome non certo casuale, sono stati presentati durante i workshop, così come un “demostration project” su PrEP e ART (trattamento antiretrovirale), un’analisi sull’incidenza della PrEP a S. Francisco, uno studio di fase III sull’applicazione pericoitale del gel al tenofovir per la prevenzione femminile.
Ma procediamo con ordine.
La plenaria di stamattina è iniziata con un primo resoconto dell’andamento della conferenza:

  • 4.015 partecipanti
  • 86 Paesi rappresentati
  • 44% dei partecipanti vengono da fuori gli USA
  • 25% per la prima volta al CROI

dato commentato dal podio con “sangue fresco”, forse non rendendosi ben conto.
Battute a parte, la plenaria parte in quarta con un argomento scottante, quanto meno per l’Italia, che è la PrEP, con una presentazione dal titolo: PrEP nella prevenzione di HIV. Quello che sappiamo e quello che abbiamo ancora bisogno di sapere per implementarla.
Relatore Raphael Landovitz University of California Los Angeles.
Landoviz inizia la lettura con una slide che, riassumendo, spiegava che per HIV non abbiamo né un vaccino, né una cura e indicava in PrEP e circoncisione maschile i punti su cui intervenire per ridurre il più possibile l’incidenza. Oltre alla necessità di ottimizzare la prevenzione proprio perchéPuzzle1 i fondi non sono illimitati.
Quindi dobbiamo utilizzare in modo combinato tutte le risorse che abbiamo a disposizione, e la slide successiva dimostra come la prevenzione di HIV sia un puzzle formato da tanti elementi, tutti con lo stesso obiettivo. Uno di questi elementi è la PrEP.
La PrEP non nasce certo con HIV, per esempio viene utilizzata per prevenire la malaria (ora qualcuno mi risponderà che però non protegge dalla febbre gialla?), in qualche modo è pure possibile un paragone con gli anticoncezionali che, alla loro comparsa sul mercato, provocarono polemiche infinite tutte di ordine morale e ora sappiamo tutti che cosa è e soprattutto non è successo con quelle pillole, ormai diventate di uso comune.
Il farmaco che ad oggi ha dato risultati più rilevanti è il Tenofovir+Emtricitabina. Perché è generalmente ben tollerato, è già possibile una co-formulazione, è relativamente difficile da aggirare e creare resistenze, ha una rapida concentrazione nei tessuti genitali e rettali. Il tutto è anche supportato da modelli animali.
Come ci siamo arrivatiNon mi dilungo sui meccanismi di funzionamento che sono molto complessi, vado subito al tema dei dosaggi. A quanto ho capito, oltre che sui modelli animali, ci si è basati sulle tempistiche della PEP (profilassi post esposizione) che è efficace entro un massimo di 48 ore dal rapporto a rischio. Per cui la PrEP andrebbe assunta entro 24/48 ore dal rapporto sessuale per ottimizzare la copertura del farmaco? Nel 1998/2000 questi erano gli orientamenti di studio. Sono poi stati riportati diversi studi a partire dal 2010 che ne dimostrano l’efficacia, nonché, per la gioia dei miei preoccupati connazionali, una serie di studi che dimostrano che la PrEP è generalmente ben tollerata tranne per lo start up dove si registrano sintomi quali nausea, vomito. I classici effetti collaterali a breve termine. Per quanto riguarda gli effetti collaterali seri la presentazione mostra dati e percentuali davvero poco significative in relazione ai possibili problemi renali (un leggero aumento di creatinina su 2 partecipanti su 5469), e ossei, tanto è vero che non c’è associazione ad un incrementato rischio di fratture. Tuttavia, giustamente, il ricercatore segnala che sono necessari follow up di lungo termine per essere certi di questi risultati.
Viene giustamente citato il counselling a sostegno di chi fa la PrEP e anche tutta una serie di strumenti che posso essere di aiuto, sostegno, controllo della persona in PrEP: dagli sms, ai portapillole pre-dosati, alle app.
Altro tema caldo: costo-efficacia. Ovviamente la PrEP non è per tutta la popolazione sessualmente attiva, ma se la PrEP viene targettizzata su individui o gruppi ad elevato rischio di contagio, ci sono già i primi studi che parlano di costo-efficacia positiva (Buchbinder SP e altri, Lancet 2014).Cost-effectiveness
Le conclusione a cui giunge il ricercatore sono che la PrEP:
è altamente efficace se assunta come da indicazioni;
va rivolta solo a particolari persone, segnala la necessità di più studi su persone transgender, donne esposte, possibilmente in partnership con le associazioni. E chiude in maiuscolo con un bellissimo “nessun singolo intervento sarà mai in grado di far finire l’epidemia da HIV”, quindi la parola magica è combinazione di più elementi, utilizzare tutte le armi che abbiamo in combinazione. Torniamo al puzzle di prima.
Il resto della mattinata è stato dominato dalle presentazioni degli studi europei sulla PrEP.
Sheena McCormack (Clinical Trial Unit of University College, London) ha presentato lo studio randomizzato open label Proud. Uno studio molto interessante che parte implicitamente da una critica allo studio statunitense Iprex, il quale pretendeva una aderenza stellare per avere risultati buoni. Il mondo reale non è l’Iprex, che succede se non c’è quel tipo di aderenza? Lo studio è stato proposto a maschi gay (guarda caso), randomizzato in due bracci uno con Truvada subito, uno con Truvada dopo 12 mesi. Il follow up di 3 volte al mese per 24 mesi. Una cosa impegnativa. Disegnato per imitare la vita reale, dice una slide della ricercatrice, e infatti anche i test clinici sono ridotti alla routine, ma vengono testate le IST (HIV, HCV, sifilide, gonorrea, clamidia); vengono anche proposti interventi di cambio di comportamento in base al rischio sessuale corso, alla aderenza, ecc. Gli arruolati sono 545, di cui 276 trattati subito e 269 differiti.
Interessante notare come fra i trattati subito in 14 non hanno mai iniziato la PrEP e sempre la stessa percentuale è in seguito ricorsa alla PEP. Ma va anche detto che ben l’83% dei differiti è ricordo alla PEP. La PrEP è stata interrotta da 28 partecipanti di entrambi i gruppi, ma solo 13 hanno avuto eventi che correlavano con l’assunzione dei farmaci (nausea, mal di testa, ecc.). 11 su

CONCLUSIONI STUDIO PROUD
CONCLUSIONI STUDIO PROUD

13 hanno ripreso lo studio. Questi in sostanza sono stati i disturbi fisici.
I risultati sono impressionanti. A 48 settimane dall’arruolamento, i casi di sieroconversione nel braccio dei trattati subito sono stati 3. Nei differiti 19. Con un rapido calcolo è facile vedere che l’incidenza totale di 4,9, già alta, sale a 8,9 nel gruppo dei differiti. Lo studio propone una percentuale di efficacia del 86% (P value 0,0002).
Ma la PrEP non protegge dalle altre IST. Verissimo. Lo studio è andato a misurare l’incidenza nei i due gruppi delle varie infezioni a trasmissione sessuale (sifilide, clamidia, ecc.) e si è visto che non ci sono differenze significative fra i due gruppi. Al follow up si è visto che in entrambi i gruppi non ci sono stati incrementi nel numero dei partner, nel numero dei rapporti sessuali senza condom. Sembra cade quindi un altro tema caldo: le infezioni a trasmissione sessuale non subiscono modifiche, non c’è la rincorsa allo scopare tutto ciò che si muove.
Ricordo che parliamo di persone che non usano sempre il condom.
Le conclusioni segnalano che gli stessi ricercatori non si aspettavano una indicenza così alta e che la PrEP è opportuno usarla in questi casi e, quindi, in questi gruppi. Che le IST contratte sono state speculari in entrambi i gruppi. Che per gli MSM ad elevato rischio la PrEP è una strategia concreta di riduzione del rischio e che il condom va usato comunque. Aggiunge in ultimo che le cliniche devono essere nelle condizioni di poter fornire la PrEP, ovviamente.

ON DEMAND
ASSUNZIONE ON DEMAND

Il secondo studio europeo è Ipergay presentato da Jean Michel Molina, Università Diderot di Parigi, in rappresentanza del gruppo di lavoro dello studio che ha unito centri francesi e canadesi.
Ipergay si presenta subito come ancora più attento alla vita quotidiana. Infatti vuole capire se la PrEP funzione anche on demand.
Già vedo i fumetti sulla testa di chi sta leggendo… per caso c’è scritto così le checche sono libere di scoparsi il mondo con un paio di pillole alla bisogna?
Nel caso vi ricordo che la stessa cosa la dicevano i nostri nonni delle pillole anti-concezionali.
Il background da cui parte Ipergay è simile a quello britannico: alta prevalenza fra gli MSM (cosa che evidentemente in Francia nessuno teme che si sappia); il tallone d’achille degli studi americani rispetto alla aderenza altissima; i costi più bassi del dosaggio on demand rispetto all’assunzione giornaliera e, probabilmente, un maggiore gradimento di questa modalità. Anche in questo caso si citano i modelli animali a supporto.

Con “on demand” si intende che lo studio ha sperimentato un’assunzione di 2 compresse prima del rapporto sessuale, 1 compressa 24 ore dopo il rapporto e una 48 ore dopo la prima dose.
Anche in questo caso vengono controllate la sieroconversione, l’aderenza, le IST, i comportamenti sessuali (uso del condom, numero dei partner, numero dei rapporti sessuali, ecc.), la sicurezza e l’efficacia. Lo studio è organizzato su due bracci, uno trattato e un placebo. Ed è proprio sull’efficacia che a ottobre 2014 il braccio placebo viene interrotto per ragioni etiche, tale era l’evidenza dell’efficacia.

CONCLUSIONI IPERGAY
CONCLUSIONI IPERGAY

414 arruolati sono stati randomizzati in due bracci: 206 trattato con tenofovir/emtricitabina e 208 placebo. 88% di follow up in entrambi i gruppi. Di nuovo ricordo che parliamo di persone con una vita sessuale molto attiva e che non sempre usano il condom.
Per quanto riguarda le IST i risultati sono simile allo studio inglese, così come l’andamento dei rapporti sessuali. Le sieroconversiono sono state 14 nel braccio placebo e 2 nel braccio trattato. Anche qui il risultato finale è 86% di copertura (P value 0,0002), la percentuale di uso corretto della PrEP è stata buona anche grazie alla modalità on demand.
Le conclusioni di Ipergay sono speculari allo studio Proud:
non si aspettavano una incidenza così alta;
la PrEP on demand è altamente efficace nel ridurre tale incidenza;
la PrEP on demand è sicura, ed è una alternativa attrattiva alla PrEP con assunzione quotidiana di pillole, almeno negli MSM ad alto rischio che non sempre usano il condom.

Ma andiamo avanti. Jared Baeten ha presentato un altro aspetto della lotta contro HIV, sempre sul piano della prevenzione. Ossia la combinazione di Art e PrEP in un progetto dimostrativo effettuato in Kenya/Uganda. Un approccio combinato quindi, che potrebbe portare la riduzione dell’incidenza al 90%.
Questa volta il target sono coppie eterosessuali sierodiscordanti, escluse le coppie che già avevano partecipato allo studio Partner.
La ART offerta al partner positivo a prescindere dal numero di CD4 come da linee guida ugandesi; la PrEP offerta in assunzione quotidiana per via orale di tenofovir/emtricitabina per circa 6 mesi, ossia il periodo necessario al partner positivo per raggiungere la viremia undetectable. Anche qui c’è stato un follow up di 24 mesi comprensivo di test HIV, supporto, riduzione del rischio, ecc. In totale 1013 sono le coppie arruolate, il 66% delle quali ha avuto rapporti non protetti nel mese precedente l’arruolamento.
L’osservazione ha mostrato una riduzione del 96% rispetto all’incidenza attesa.

Il Dipartimento di salute pubblica di S. Francisco e la SFAF si stanno già chiedendo come incrementare l’uso della PrEP, stante i risultati che stanno avendo a partire dal 2013. Robert Grant, Gladston Institutes, S. Francisco, ne ha parlato nel workshop successivo. Gli obiettivi del Dipartimento sono rendere disponibilità la PrEP per tutte le persone che ne necessitano, soddisfareSCALE UP SFAF il desiderio di PrEP, raggiungere così un calo del 70% delle nuove diagnosi.
Come tale hanno svolto studi e ricerche tese a valutare i rapporti a rischio più comuni, i bisogni della popolazione più a rischio, a valutare l’impatto che la PrEP potrebbe avere nella pratica quotidiana. Mi sembra di vedere un film di fantascienza.

Ultimo poi vi disturbo più per un po’; lo studio sulle donne e la prevenzione al femminile. E’ uno studio sudafricano, randomizzato, multicentrico, di fase III, sull’utilizzo pericoitale di gel al Tenofovir. Banalmente significa l’applicazione del gel vaginale prima e dopo il rapporto. Il tema dell’aderenza è stato un dramma in questo caso, meno del 25% delle donne è riuscita ad essere aderente, nonostante gli sforzi e le campagne (“I party with my gels”) degli organizzatori. In questo caso la stima di riduzione di incidenza è risultata essere del 52% (P value 0,04). Le conclusioni parlano di sicurezza del prodotto ma di efficacia insufficiente a tutelare questa popolazione che, evidentemente, ha dimostrato grosse difficoltà nell’utilizzo dello strumento in sé. Le donne hanno utilizzato il gel nel 50-60% dei rapporti sessuali (percentuale definita semi oggettiva dagli stessi ricercatori). Infatti la maggior parte delle partecipanti non è riuscita a raggiungere il livello di copertura necessario alla protezione. Chiude chiedendo strumenti di prevenzione studiati per le giovani donne, strumenti facili da usare, che sia possibile integrare nella quotidianità.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente

croi2015_w280x100Il CROI, Conference on Retrovirus and Opportunistic Infection, quest’anno la IAS-USA l’ha organizzato a Seattle, ed io ho avuto l’opportunità di partecipare alla conferenza grazie ad AbbVie.
Tecnicamente la conferenza non è ancora incominciata, infatti aprirà ufficialmente fra qualche ora, tuttavia stamattina ho partecipato ad un workshop sulla prevenzione.
La “ballroom” del Convention Center dove si svolge la conferenza, era piena di studenti e giovani ricercatori ai quali erano state riservate le prime file. Un battaglione di giovani di belle speranze, ossia il futuro della lotta contro HIV.
Non ho potuto fare a meno di pensare all’appello che venne fatto alla conferenza mondiale aids di Città del Messico, affinché tutti i giovani ricercatori concentrassero le loro menti fresche su HIV.
Accidenti come obbediscono gli USA!
Di fatto si è trattato di lezioni ma decisamente avanzate.
Non la faccio lunga e vado direttamente al workshop che ho trovato più interessante, ossia quello tenuto da Susan Buchbinder del Dipartimento di Salute Pubblica di San Francisco, California.
IMG_3709La presentazione della Buchbinder aveva un titolo emblematico “HIV Prevention 2.0: What’s next?”.
Quindi non solo c’è una prevenzione 2.0, ossia avanzata, ma c’è pure dell’altro? Lo sanno i medici italiani e, soprattutto, gli attivisti MSM italiani?
Già la prima slide pone quelle che saranno le domande centrali in questa conferenza almeno per quanto riguarda la prevenzione: come costruire sui primi successi degli interventi biomedicali per incrementarne l’impatto e l’efficacia?
La dottoressa presenta come ormai “old” i pilastri della prevenzione che abbiamo utilizzato e sui quali abbiamo spinto dal 1981 fino al 2010: Campagne sulla salute (la Buchbinder ha scritto campagne pubbliche ma lei è statunitense e se lo può permettere diversamente da noi), i test su HIV, i condom.
La dottoressa chiarisce subito che questi interventi biomedicali hanno svolto un ottimo lavoro con un grafico che mostra il crollo delle stime di nuove diagnosi negli USA dal 1980 al 2010 (ovviamente anche grazie all’introduzione delle terapie).
Eppure ora siamo nelle condizioni di far meglio, e introduce i tre nuovi pilastri della prevenzione che si vanno ad aggiungere ai precedenti:

  • Circoncisione maschile,
  • PrEP (profilassi pre-esposizione),
  • Tasp (Trattamento come prevezione).

La Buchbinder cita è vero la metanalisi del 2014 di Jiang pubblicata da Plos One, ma parla di PrEPIMG_3711 come se fosse ovvio che a) funziona b) è efficace, c) è uno strumento che tutti dovrebbero accettare come tale… illusa.
Quel che è meglio, è che a nessuno dei giovani ricercatori verrà in mente di far domande tese a mettere in discussione l’opportunità di usare la PrEP (non lo sanno in USA che il condom costa meno? Come mai non pensano che chi non lo usa sono cazzi suoi, come nella migliore tradizione cattolica?). Tutte le domande sono centrate sulla durata, sulla frequenza delle assunzioni, ecc.
Le richieste di chiarimento si sono molto più concentrate sul fatto che la circoncisione maschile non mette certo al riparo le donne ma, anche in questo caso, non con l’ottica di negare la possibilità ma per trovare una soluzione.
La Buchbinder, per altro non è impreparata, cita studi sulla durata (494 MACS pts, Pines et al, JAIDS 2014; J. McConnell/AVAC) e spiega che una persona a rischio o un gruppo a rischio non sarà tale per sempre.
Ovviamente, aggiungo io, se verranno prese misure efficaci per far si che ciò avvenga. Incredibilmente la Buchbinder sembra dare per scontato questo pezzo.
Ormai che c’è, ci segnala anche quali sono i gruppi più esposti e, guarda caso, meno raggiunti da campagne ecc. sui quali bisogna agire e mettere in campo anche i nuovi pilastri. Ovviamente cita una ricerca USA ma MSM (maschi che fanno sesso con maschi) bianchi, MSM afro-americani, MSM latino americani sono ai primi tre posti. IMG_3719Poi le donne eterosessuali afro-americane anch’esse con percentuali importanti.
E per chiarire subito la Buchbinder mi cita lo studio di Rosemberg (Lancet 2014) che spiega al mondo come non sono i rischi individuali a creare nuovi positivi, ma i motivi strutturali (accesso al test, stigma e discriminazione, ecc., si infettano di più omosessuali e neri… il dubbio che lo stigma c’entrasse mi era venuto ma sono contento che lo abbia pubblicato Lancet.
Come membro della Commissione Regionale Aids dell’Emilia Romagna ho chiesto che la PrEP venisse messa in ordine del giorno. Per la verità la presidenza mi ha fissato per 5 minuti senza rispondere come se avessi chiesto la ricetta del pan di spagna invece che di trattare un tema sul quale Francia e Regno Unito hanno appena portato a termine due studi.
Spero che anche in Italia si riesca quantomeno a discutere delle esperienze e dei dati degli altri, visto che il cervello medievale che contraddistingue i decisori italiani oggigiorno, non consente di investire in ricerche che possano portare a un calo delle nuove infezioni. Ma questo è il Croi e qui sembra comandare la scienza, l’efficacia e meno l’ignoranza. E’ davvero l’America…(!?). Vi terrò informati.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente

Silenzio = Discriminazione

Nel corso di questo mese Plus ha dato voce al blogger Mark S. King, che con la sua prosa accattivante e provocatoria ha messo qualche puntino sulle i.

Mark ha spiegato ai sieronegativi cosa significa, oggi, vivere con hiv, ha tracciato la linea che separa il rischio teorico dal rischio effettivo, ha parlato di bareback in maniera schietta e amorale e ha tentato, infine, di individuare in un film porno del 2004 l’inizio della moda del sesso senza preservativo, dandone un’interpretazione basata sui fatti.

Sulla medesima linea d’onda, fattuale e non ideologica (né tanto meno moralistica) ci sembra necessario concludere questo «settembre antistigma» con alcune considerazioni stringenti.

A cominciare dal ruolo del preservativo, che resta imprescindibile ma va ricontestualizzato. Il condom è una sine qua non valida per tutti, negativi e positivi, poiché è l’unico scudo utile ad arginare le infezioni sessualmente trasmissibili, da quelle croniche a quelle passeggere che possono comunque fiaccare il sistema immunitario e agevolare l’hiv. Oltretutto, la legge italiana non ha ancora recepito lo status «undetectable» (la non contagiosità di chi ha la viremia non rilevabile) che riguarda l’80% delle persone sieropositive diagnosticate nel nostro Paese, e questo va sempre tenuto presente in caso di incontri «sierodiscordanti».

Poi ci sono altri dati di realtà, a cominciare dalle idiosincrasie che da sempre, hiv o non hiv, penalizzano l’uso del condom. Motivo per cui è ora di riconoscere lo status di safer sex anche ad altri strumenti, a cominciare dalla TasP, vale a dire la terapia come prevenzione, i cui effetti succitati in tema di viremia stanno trovando conferma grazie allo studio Partner.

È importante sottolineare come le condizioni di successo della TasP siano piuttosto severe (a tale proposito, date un’occhiata al vademecum Sesso Gay Positivo) e per stare sul sicuro, anche alla luce di altri infezioni come la sifilide e l’epatite C – sempre più presente tra gli MSM – si ritorna giocoforza al buon vecchio profilattico. D’altro canto, nella realtà dei fatti vi è uno scarto sostanziale tra adoperare uno strumento, per l’appunto, artigianale e poco amato, e ricorrere a una protezione 24/7 come quella offerta da una terapia in pillole.

Sulla convenienza e la sostenibilità della PreP, cioè la terapia antiretrovirale preventiva a mezzo Truvada©, il dibattito è ancora apertissimo. Gli aspetti di ordine medico – aderenza, effetti collaterali – vanno soppesati insieme a quelli economici, ovvero il costo ancora abnorme di queste medicine, e il freno globale costituito dai brevetti.

Nel frattempo, per le persone sieropositive la battaglia continua giorno dopo giorno, ed è una battaglia soprattutto sociale e culturale. Sociale, perché l’hiv è un’infezione contagiosa che interessa quella sfera delicatissima dell’interazione umana che è il sesso. Culturale, perché se l’ambito medico resta opaco e inaccessibile ai più, il tema dello stigma è a portata di tutti. Ed è su questo tema che Plus ha deciso di focalizzarsi grazie agli articoli di Mark.

In cima alla lista c’è il disinnesco di un’immagine deflagrante, oltre che sbagliata: la persona sieropositiva contagiosa, disperata e inaffidabile. A ben vedere, il rischio reale di nuove infezioni riguarda in primis le persone in sieroconversione, cioè fresche di contagio e nella massima parte dei casi all’oscuro della cosa, e in seconda battuta quelle che non solo non lo sanno, ma non fanno nemmeno regolarmente il test. Una persona diagnosticata, al corrente del proprio stato sierologico e seguita da un medico, non è quasi mai un pericolo – e una volta entrata in terapia non lo è al cento per cento.

Persino le coinfezioni o le altre cause dei cosiddetti blip virali (l’improvviso aumento della viremia nelle persone in cura, o la differenza tra virus nel sangue e nello sperma) non escono dal recinto del rischio irrisorio e residuale, per quanto possano rappresentare un problema per la salute del diretto interessato.

Da questo punto di vista, il salto copernicano che va introdotto nella concezione stessa del profilattico è che il goldone serve ai positivi soprattutto per proteggersi, oltre che per proteggere. Proteggersi dalle infezioni che la terapia non targetizza e che rischiano di compromettere un sistema immunitario già ballerino.

L’altro salto riguarda le persone sieronegative e la loro percezione del rischio. Alla luce delle evidenze scientifiche bisogna saper distinguere il contatto dal contagio: hiv è uno dei tanti virus ormai entrati a far parte del nostro quotidiano, ma dalla vicinanza all’infezione il passo è bello lungo. Hiv si trasmette con notevole difficoltà. Comprenderne le dinamiche e accettarle senza cedere alle malie del rischio teorico significherebbe mettere la parola fine alla discriminazione delle persone sieropositive.

Ecco perché noi di Plus ne parliamo senza censure, nella speranza che questi argomenti diventino oggetto di discussione anche nel nostro Paese. Uno dei primi slogan della lotta all’aids fu silence = death, per evitare che l’elefante della pandemia restasse ignorato nel bel mezzo del salotto. Oggi di hiv non si muore quasi più (in Occidente, almeno), ma resta la gestione – anche sociale, interpersonale – di un’infezione cronica per la quale non s’intravede ancora una cura. Un’infezione spesso taciuta dalle persone colpite proprio per paura dello stigma – lo stesso stigma che si ciba dell’ignoranza diffusa e di vecchi stereotipi duri a morire. L’hiv non si vede, ma il silenzio la rafforza.

I tempi degli strali, dei decaloghi biblici e del politicamente corretto hanno mostrato la corda: è il momento di decisioni informate, prima di tutto in ambito sessuale, la cui responsabilità va condivisa in parti uguali tra tutti noi, positivi e negativi.

Non più «lungi da me», ma «so quel che faccio».

È questa la sfida che Plus lancia alla comunità lgbt italiana.

Simone Buttazzi

[l’immagine che apre l’articolo è una rielaborazione dell’ultima inquadratura, censurata, del film Porcile (1969) di Pasolini. Dietro alla maschera c’è un Ugo Tognazzi che ci ricorda come avere qualcosa da dire, e star zitti, sia una gran porcata]

di Mark S. King

Il re è nudo (ma proprio nudo)

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il tema del sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi dell’immagine soprastante, che mutua lo slogan proposto dal gruppo canadese Aids Action Now! nel 2012.

Ogni volta che un nuovo studio sui maschi omosessuali scopre che si fa sesso bareback, cioè senza preservativo, le anime belle della condotta sessuale si stracciano le vesti e denigrano questo comportamento vergognoso, choccante e assassino. Quindi immaginatevi quanti scampoli di tessuto sono finiti sul pavimento dopo che uno studio ha indicato che quasi la metà degli utenti della app di geolocalizzazione Grindr si cimenta col sesso «a pelo».

Vorrei tanto che quelle triste figure mettessero da parte i sali per rinvenire e cercassero di comprendere le ragioni di tutto questo. E invece, ogni volta che un nuovo studio, ampio o affrettato che sia, dimostra ciò che sappiamo già, riecco le statue pompeiane con la mano sul cuore, impietrite nella loro indignazione d’altri tempi.

Niente di nuovo sotto il sole… eccetto forse il sempre rinnovato stupore dinanzi al fatto che i maschi omosessuali si comportano pari pari come qualsiasi altro uomo del pianeta Terra.

Forse quelli che trovano ripugnante il bareback credono di essere politicamente corretti, che i loro aspri giudizi sulla vita sessuale altrui servano alla prevenzione, che criticare gli altri perché che si comportano come esseri umani possa in qualche modo modificare istinti radicati, che ci accompagnano dalla notte dei tempi.

O forse rientra nel nuovo decalogo della cultura gay voler dimostrare alla società etero che siamo bravi quanto loro a svergognare gli omosessuali, che ci castreremmo volentieri nel nome dei pari diritti e che altrettanto volentieri ci priveremmo degli stessi piaceri che loro danno per scontati: insomma, concedeteci il matrimonio gay e noi vi risparmieremo il racconto della scopata anale non protetta che avrà luogo la sera della cerimonia.

In un modo o nell’altro siamo giunti alla conclusione omofoba che quando due maschi omosessuali si cimentano nell’atto romantico, emotivo e spirituale dell’amore fisico senza barriere, questo va etichettato come barebacking psicotico, mentre quando lo fanno gli etero si chiama buon sesso. Due pesi e due misure: ridicolo. Lo sapete che anche vostra madre faceva bareback? È un atto naturale e prezioso che persiste, letteralmente, dagli albori dell’umanità. Abramo (facendo bareback) generò Isacco, Isacco (facendo bareback) generò Giacobbe, Giacobbe (facendo bareback) generò Giuda e i suoi fratelli (Matteo 1-2). Forse voi avete l’incredibile abilità di spassarvela al meglio col pene avvolto nel lattice. Wow, fantastico, raccontate. Sono tutt’orecchi. A voi piace davvero usare questo classico strumento di prevenzione, un autentico gioiellino immarcescibile. Forse tu e il tuo fidanzato siete sieronegativi e avete la fortuna di una relazione esclusiva e monogama che possa escludere l’uso del condom. O magari, forti di olimpionica disciplina, siete persino in grado di usarlo ogni volta che fate sesso, cascasse il mondo. Siete commendevoli, non c’è che dire, peccato che siate anche una minoranza. Quelli che ho appena fatto sono esempi validi e reali, che non rappresentano però una posizione moralmente superiore dalla quale lanciare strali sulle scelte altrui.

Durante gli anni critici dell’aids, noi maschi omosessuali abbiamo stipulato un tacito accordo: accettammo di usare i preservativi – a quel tempo l’unico «safer sex» esistente – in attesa di tempi migliori. Molti di noi pensavano che questo contratto non sarebbe mai arrivato a scadenza, forse perché si credeva di morire tutti nel giro di pochi anni. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare, trent’anni più tardi, di doverci ancora attenere a queste rigide linee guida.

Anche a suo tempo, alcuni di noi le ignoravano. Si potrebbe supporre che alla luce di tutte quelle morti si sarebbe verificato uno stabile cambiamento nello stile di vita. In realtà, molti di noi reagirono all’ecatombe in maniera irrazionale, quindi umana: trovavamo conforto nel fare l’amore l’uno con l’altro, spesso senza preservativo. Era una sorta di gesto assertivo, un vaffanculo all’aids. Tant’è che uno studio del 1988 sui maschi omosessuali dimostrò come la metà del campione non lo usasse mai, e che la maggioranza non lo usasse sempre. Sono numeri molto, molto simili a quelli dei recenti studi su Grindr. L’eterno ritorno di una pratica, direi, mai passata di moda.

Lo studio del 1988 è particolarmente interessante se si considera quanti maschi omosessuali ripensino a quegli anni come a un periodo di grande austerità sessuale. C’è chi desidera, forse troppo, un ritorno a quei funerei fasti e c’è chi, avendo visto con i propri occhi il massacro dei primi anni dell’aids, ogni tanto sentenzia: «Se solo i giovani sapessero cos’abbiamo passato… Se toccasse a loro, non si comporterebbero così».

Roba da vomito. Tanto per dirne una, non mi auguro affatto che i giovani di oggi assistano alle scene strazianti che ho visto io. Anni addietro ho sudato sangue, in trincea, proprio per consentire loro un po’ di apatia. Preferisco vederli sguazzare nella loro ignoranza spensierata che ipotizzare di seppellirli.

Non c’è dubbio che il numero di maschi omosessuali che muoiono ancora oggi per le conseguenze dell’aids sia incomparabilmente inferiore alle cifre degli anni Ottanta e dei primi Novanta. Oggigiorno le persone sieropositive muoiono più per il tabagismo che per il virus. L’hiv è diventata un’infezione pericolosa ma in larga parte gestibile, e le manovre terroristiche che sostengono tesi diverse vengono ignorate perché non corrispondono al vero. Il sesso è sesso, è una cosa naturale e rigenerante, e chiunque voglia parificare il sesso senza preservativo alla morte e alle malattie ha proprio bisogno di andare in terapia.

Inoltre, l’uso del condom continuerà sicuramente a calare, in futuro, per via dei nuovi strumenti che stanno arricchendo la gamma delle opzioni di prevenzione anti-hiv. A cominciare dalla profilassi pre-esposizione (PrEP), ovvero l’assunzione di antiretrovirali in via preventiva, che secondo studi recenti riesce davvero a ridurre il rischio di nuove infezioni (resta il problema di chi ne coprirebbe i costi se venisse legalizzata in Italia, oltre a quello dell’aderenza e dei possibili effetti collaterali). Molte persone che vivono con hiv limitano la scelta dei propri partner ad altre persone sieropositive, fanno cioè serosorting, e nel farlo hanno dimostrato l’infondatezza delle tante voci sul nuovo spauracchio, il supervirus della reinfezione, che in realtà non si è mai materializzato.

Sappiamo inoltre che i positivi con viremia non rilevabile sono, di fatto, non contagiosi, per cui la TasP (terapia come prevenzione) è stata rafforzata dallo studio Partner, realizzato in gran parte su coppie etero, che assegna persino una percentuale maggiore di efficacia alla terapia antiretrovirale rispetto al condom. Un risultato che dovrebbe confermarsi anche studiando solo coppie omosessuali.

All’orizzonte brillano poi i microbicidi rettali. Sono prodotti ancora sperimentali che arriveranno sul mercato sotto forma di lubrificanti o clisteri capaci di prevenire un’infezione da hiv, in modo da mettere la parola fine al chiacchiericcio e alle facili sentenze in tema di preservativi.

E potrei continuare. Insomma, non c’è bisogno di scannarci a colpi di integralismo profilattico, discreditando il valore intrinseco della nostra vita sessuale o promuovendo una singola strategia che, nella realtà dei fatti, non funziona per tutti. Sarebbe ora, invece, di accettare l’evidenza che i maschi omosessuali stanno facendo scelte consapevoli, mettendo alla prova diverse tecniche di riduzione del rischio. E una volta verificate nella loro validità, sarebbe ora di chiamare anche queste tecniche «safer sex». Infine, possiamo anche smetterla di far finta di credere che i fissati del preservativo abbiano la moralità dalla loro.

Il re è nudo. E non indossa nemmeno il goldone.

Mark

Mark S. King

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

Ma non vi basta mai?

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.

Mark S. King

Una vecchia puntata dello show di Oprah Winfrey, anno 1987, riesce ancora a farmi vedere rosso. La minuscola cittadina di Williamson, in West Virginia, innescò un dibattito nazionale sull’aids dal momento che Mike Sisco, che era tornato al paese natale per morirvi, aveva osato tuffarsi nella piscina pubblica.

Il paesello uscì subito di testa. Sisco venne subito etichettato come uno psicopatico (secondo alcuni, sputava persino sui banchi del verduraio), e il giorno dopo la piscina venne chiusa per procedere a una decontaminazione in stile Silkwood. Ben presto, Oprah piombò sul posto con troupe e telecamere per discutere pubblicamente dell’accaduto. Il timor panico era all’ordine del giorno. «Se c’è anche solo una possibilità su un milione che qualcuno possa essersi beccato il virus in piscina» annunciò il sindaco al pubblico mondiale dello show «ritengo di aver fatto la cosa giusta». Certo. Perché non reagire nella maniera più isterica possibile, se c’è anche solo una possibilità su un milione?

Gli abitanti di Williamson non si lasciarono tranquillizzare dagli agenti della naccho che spiegarono loro con grande calma come si trasmette l’hiv, e l’impossibilità che ciò avvenga in piscina. «I medici potranno anche dire che non si prende così» concionò una signora «ma come la mettiamo se un bel giorno fanno marcia indietro e sbottano «be’, ci siamo sbagliati?». Massì. Come la mettiamo? Se c’è anche solo una chance su un milione…

Quella puntata sarebbe potuta restare una triste nota a piè di pagina nella storia dell’hiv/aids, un esempio istruttivo di come la gente ignori le evidenze scientifiche al solo scopo di salvaguardare una paura corroborante… peccato che la storia tenda a ripetersi.

Oggi, purtroppo, l’ignoranza più caparbia non riguarda solo i villici di un borgo dimenticato nel sud degli Stati Uniti, difficile persino da trovare sulla mappa. Riguarda i maschi omosessuali, che verso la scienza tendono a sfoggiare il medesimo atteggiamento impaurito, aggressivo e isterico dei bifolchi di Williamson di trent’anni fa.

In occasione della conferenza internazionale CROI sono stati presentati i risultati di uno studio di nome Partner, che hanno dimostrato ciò che gli attivisti nel campo dell’hiv sospettavano da tempo: le persone sieropositive con viremia non rilevabile non sono in grado di trasmettere il virus ai loro compagni. Lo studio ha riguardato circa 800 coppie discordanti, in maggioranza eterosessuali, col partner positivo in terapia e carica vitale stabilmente sotto le 50 copie per millilitro di sangue. Nel corso di due anni sono stati documentati più di 30.000 rapporti sessuali (le coppie erano state scelte in base alla loro tendenza a non usare il preservativo), e non è stato registrato neanche un caso di trasmissione del virus da parte di una persona sieropositiva «undetectable». Se lo studio Partner fosse stato indetto per mettere alla prova un nuovo farmaco, la fase sperimentale sarebbe stata interrotta per immetterlo subito sul mercato.

Gli esiti dello studio Partner legittimano la strategia preventiva detta TasP («therapy as prevention»: terapia come prevenzione), che si fonda sul fatto che una persona sieropositiva sottoposta con successo alla terapia non è più contagiosa. Non esiste un solo caso documentato di persona con viremia non rilevabile che abbia infettato il partner, tanto in ambito sperimentale quanto nella vita vera.

Ma non andate a raccontarlo a una bella fetta di maschi omosessuali scettici, molti dei quali si sono armati di tastiera per gettare fango sugli esiti dello studio Partner. Frasi come «falso senso di sicurezza», «i positivi mentono», «fantascienza pura» e «se c’è anche solo un minimo rischio» hanno invaso i social network e la sezione dei commenti del mio blog. Già m’immagino gli abitanti di Williamson annuire soddisfatti…

Le resistenze allo studio Partner vanno di pari passo con i dubbi nei confronti della PrEP (profilassi pre-esposizione, cioè l’assunzione di Truvada da parte di individui sieronegativi – strumento ancora inaccessibile in Italia). Malgrado qualsiasi obiezione pelosa verso la PrEP sia stata spazzata via dai fatti, i suoi strenui oppositori continuano o a negare la realtà o a emettere giudizi morali sulla vita sessuale dei sieronegativi che hanno deciso di entrare in PrEP. Sì, ci sono delle zone d’ombra, a cominciare dal problema dell’aderenza. Ce ne sono sempre quando il mondo degli studi scientifici incontra quello reale. E non tutte le strategie funzionano con chiunque. Ma il rifiuto veemente di scoperte così importanti indica che c’è qualcos’altro sotto, annidato nella mentalità dei maschi omosessuali. Che cos’è?

Difficile scrollarsi di dosso i ricordi collettivi degli anni tragici dell’aids, anzi: cominciamo proprio da qui. La classica reazione viscerale a qualsiasi studio che parli di neutralizzazione dell’hiv è di profondo scetticismo. Le buone notizie sembrano non reggere il confronto con un lutto durato trent’anni.

Inoltre, lo studio Partner mette a rischio l’opinione diffusa secondo la quale i maschi omosessuali altro non sono che mine vaganti. Lo studio toglie di torno «l’uomo nero con l’hiv». Cosa vuol dire questo? Che chi è al corrente del proprio status e voglia entrare in terapia ha la possibilità di diventare «undetectable». E una volta che il partner positivo non rappresenta più un problema, ecco che entrambe le persone sono egualmente responsabili delle proprie azioni. Una rivoluzione copernicana nella mentalità diffusa della comunità gay.

Una rivoluzione tuttavia difficile da compiere finché continua a serpeggiare la paura, e i dubbi più fantasiosi hanno la meglio. Come la mettiamo se il mio partner salta una dose e, anche se i principi attivi degli antiretrovirali restano nel sangue per un pezzo, la sua carica virale s’impenna? Come la mettiamo se non m’ha detto la verità circa la viremia? Come la mettiamo se non conosce il proprio status?

Amici miei cari, il pericolo vero non è rappresentato dai sieropositivi che credono di avere la viremia non rilevabile e si sbagliano. È rappresentato da chi crede di essere sieronegativo e non lo è. Ma a noi piace concentrarci sulle mancanze della persona positiva conclamata perché, sapete, i sieropositivi mentono. E a noi sieropositivi piace saltare le dosi, perché vogliamo morire prima e nel frattempo cercare la prossima vittima.

Allora anch’io ho qualche domanda del tipo «come la mettiamo se?». Come la mettiamo se queste paure irrazionali servono solo a stigmatizzare le persone positive? Come la mettiamo se ho la viremia non rilevabile e non sento alcun bisogno di tirare in ballo il mio status con un partner occasionale, visto che non sono in vena di lezioncine scientifiche? Come la mettiamo se ciascuno di noi sceglie la strategia di prevenzione che gli va maggiormente a genio? Come la mettiamo se il mio stato sierologico non è affar vostro?

I rischi diminuirebbero, naturalmente, se ciascuno di noi proteggesse il proprio corpo quando fa sesso con uno sconosciuto o una persona di cui non si fida. Ma questa ipotesi caricherebbe di responsabilità anche i sieronegativi, ed è una gran scocciatura. Meglio lasciare tutto il fardello sulle spalle dei positivi, untori che non siamo altro. Considerateci dei criminali, dei bugiardi, gente che sputa sugli alimenti e non vede l’ora di attaccarvela.

Finché continueremo a lasciarci distrarre da ipotesi fantasiose, non riusciremo mai a comprendere le minacce reali. Le infezioni sessualmente trasmissibili sono in pieno rigoglio. La nostra comunità è piagata dall’alcolismo, dalle droghe, da malattie mentali. Vogliamo parlare di questioni scientifiche serie o preferiamo dissipare le energie in dibattiti scandalistici?

Se siete ancora così arroganti da credere di poter vincere la lotteria dell’hiv infettandovi in maniere che la scienza ha scartato da un pezzo, nessuno vi può privare di questo punto di vista. Ma consentitemi di darvi un paio di semplici consigli. Statevene alla larga dal computer e non toccate i cavi, perché in America 50 persone l’anno muoiono fulminate per via di dispositivi difettosi. Recatevi piano, molto piano in camera da letto, guardando dove mettete i piedi, perché gli incidenti domestici ammazzano 55 persone al giorno. E ora infilatevi tra le coltri della vostra testarda ignoranza e vedete di mettervi a vostro agio. Perché gli abitanti di Williamson vi guardano.

Mark

P.S. Il numero di persone infettate da una persona sieropositiva con carica virale non rilevabile durante la lettura di questo articolo è stato pari a: zero.

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

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Con questo articolo inizia la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.

Mark S. King

Quando Donald Sterling insultò Magic Johnson dandogli del promiscuo e dell’indegno, l’accusa non suonò nuova a chi viveva con l’hiv. L’abbiamo sentita per anni. Ancora oggi molte di queste idee sbagliate persistono, addirittura – o forse soprattutto – tra i maschi omosessuali. Certi atteggiamenti possono ferire, stigmatizzare, pur nella loro assurdità. Cerchiamo allora di mettere i puntini sulle i stilando una lista di dieci cose che i maschi sieropositivi vorrebbero tanto far sapere ai maschi sieronegativi. Questa lista può non rispecchiare al cento per cento le opinioni di tutti i gay con hiv, ma include sicuramente molte delle loro frustrazioni.

1. Non tutti i maschi sieropositivi sono tossici con la fissa del bareback

È umano, forse, cercare di trovare la «falla» in coloro che s’infettano. Vederli come estremisti ci fa sentire per certi versi al sicuro. Eppure, la verità è che la maggioranza delle nuove infezioni si verifica all’interno di «relazioni primarie», come una storia fissa o una frequentazione abituale, spesso perché uno dei due non sa di essere infetto e finisce per trasmettere l’hiv al partner. Ecco perché ha senso insistere col test, e farlo regolarmente. Di solito le nuove infezioni non sono, statistiche alla mano, il risultato di una notte brava a un sex party imbottiti di crystal meth, né di un pomeriggio etilico in sauna. Certo, queste sono situazioni possibili, ma il concetto è che il sesso tra persone che si vogliono bene non è per forza più sicuro. Per l’hiv, una striscia di pelle nera o il fiocchetto di un regalo d’anniversario sono la stessa identica cosa.

2. Vivere con l’hiv non è un film ospedaliero dell’orrore

Sì, quando hai l’hiv vai regolarmente dal dottore e prima o poi prendi medicine. Ma non bisogna confondere una condizione cronica con una acuta, l’infezione con la malattia. Grazie all’ampia gamma di farmaci antiretrovirali, gli effetti collaterali sono stati ridotti di molto, e i nuovi ritrovati li ridurranno ulteriormente. I sieropositivi non piangono come fontane ogni mattina mentre trangugiano le pillole insieme al caffellatte. Devono prenderle ogni santo giorno, questo sì, magari a orari ben definiti e dopo aver consumato un pasto completo. È scocciante, ma non certo drammatico.

3. Un’infezione da hiv non ti trasforma automaticamente in un bugiardo patentato

Uno dei pregiudizi più penosi circa i maschi positivi è che mentono come se respirassero sul loro stato sierologico pur di scopare, magari con l’obiettivo di infettarti. Ce la facciamo a rimodulare questi cliché sulla trasmissione intenzionale, per cortesia? La verità è che i sieropositivi possono avere difficoltà a rivelare il proprio status… proprio per paura di discriminazioni derivanti da sciocchezze come questa. È ingiusto dare la colpa a tutti i positivi del comportamento criminoso di pochi.

4. «Sono pulito, devi esserlo anche tu»: una bella stronzata

Se in chat usi questa frase a mo’ di «filtro» per cercare nuovi scopamici, sappi che stai commettendo un grosso errore. Tanto per cominciare bisogna tenere a mente che i positivi con viremia non rilevabile non possono infettare nessuno, per cui rifiutare un partner per via dello stato sierologico rischia di essere una mossa puramente discriminatoria, e tutt’altro che pratica. Inoltre, etichettare chiunque come una merce difettosa o un frutto marcio è disgustoso (se ti è già capitato per un motivo o per l’altro, sai come ci si sente). Il «sono pulito» ti dà poi un senso illusorio di sicurezza, perché come dimostra uno studio britannico, il rischio di contrarre il virus è molto più elevato andando con qualcuno che crede di essere negativo e non lo è. Questo perché l’attività virale in una persona appena infettata, cioè in piena sieroconversione, può schizzare alle stelle senza che il diretto interessato lo sappia o possa impararlo a breve. Quindi, in ogni caso, evita mosse rischiose, metti le cose in chiaro, fa’ il test con lui oppure accertati che prenda le medicine e che sia «undetectable». E se senti il bisogno di chiedere subito lo stato sierologico al tuo partner, formula la domanda in maniera rispettosa («Il mio ultimo test è negativo. E il tuo?»). Chiedergli se è «pulito» o «senza malattie» ti fa fare la figura del cretino, soprattutto perché, quando si ha una vita sessuale, le infezioni sono tante e non si può mai sapere.

5. Sei l’unico responsabile della tua salute (comportamenti a rischio inclusi)

Dopo decenni di ricerca incentrata sulle persone con hiv, ora esistono trattamenti pensati anche per maschi sieronegativi e sessualmente attivi, come la PrEP (Pre-Exposure Prophylaxis, profilassi pre-esposizione – non ancora disponibile in Italia), uno strumento che consente di tenere sotto controllo i comportamenti a rischio. Sì, sono stati sollevati dei dubbi sulla tossicità del Truvada, la medicina che viene somministrata come PrEP, ma studi recenti hanno dimostrato come tali rimostranze fossero esagerate. Sei tu l’unico responsabile del tuo stato di salute, tutto dipende cioè dalle scelte che fai – che non hanno nulla a che vedere con lo stato sierologico del tuo partner, noto o ignoto che sia. Lo scaricabarile non ha mai giovato a nessuno, e a letto si è sempre tutti sulla stessa barca, che lo si voglia ammettere o meno.

6. I tipi con l’hiv non sono iperpromiscui… né hanno una vita sessuale schifosa… e non sono neppure delle monache di clausura

Ecco tre preconcetti ricorrenti… e falsi, se si prende come punto di riferimento la tipica vita sessuale di un maschio gay single. Abbiamo tutti i nostri momenti no. A volte il carnet di ballo è pieno, ci sono tempi di vacche magre e altre volte ancora il sesso che facciamo fa schifo. Proprio come chiunque altro, anche i sieropositivi sono sull’ottovolante e quando le cose girano per il verso giusto fanno un sesso grandioso, di quelli da urlo. Giudicare le persone in base a quanto scopano è un argomento vecchio e ritrito (spesso usato contro tutti i gay) del quale faremmo volentieri a meno. Tra l’altro, è un ulteriore esempio di come si tenti di prendere le distanze dai sieropositivi etichettandoli come diversi da noi. Non lo sono mica. C’è la suora così come c’è la troia. Del resto, per beccarsela basta una volta sola. E non diamo forse della troia a chiunque scopi più di noi?

7. Come la si è presa e da chi è una questione privata

I dettagli di un’infezione altrui non sono roba da soap opera o da novella esemplare, per quanto buone possano essere le tue intenzioni. Se una persona sieropositiva è in vena di confidenze, può anche sciorinarti la sua storiella, ma è probabile che per lui la questione sia chiusa da tempo e che comunque si tratti di una vicenda noiosa. Ha fatto sesso senza le dovute precauzioni e se l’è buscata. Ah, vuoi pure i dettagli? Ma una forchettata di cacchi tuoi?

8. Se hai bisogno di informarti sull’hiv, datti una mossa

Avere l’hiv non significa possedere anche un master in epidemiologia o una specializzazione in malattie infettive. Non tutti i sieropositivi sono esperti del virus, specialisti nel campo della prevenzione – o attivisti. Vivono con hiv, tutto qua. E se si trovano nell’incresciosa situazione di doverti fare la lezioncina sui fondamentali della prevenzione, non te la prendere se saranno loro a dire no grazie, preferisco non scopare. Niente ammoscia gli animi come il signor virus hiv. E gran parte dei sieropositivi non ha voglia di «convincerti» prima di andare a letto. Anzi, tra i loro contatti vi sono sicuramente persone più bone di te e con qualche nozione in più tra neurone e neurone.

9. Dici che le persone sieropositive non vivono a lungo? Ma per carità…

Secondo studi recenti, una persona che al giorno d’oggi riceve la diagnosi di hiv in tempo utile (prima cioè che l’infezione raggiunga uno stadio avanzato) ha la medesima aspettativa di vita di una persona «normale». C’è chi sostiene addirittura che questa aspettativa possa essere superiore alla media, in quanto i frequenti controlli medici consentono di individuare subito, e trattare, gli eventuali problemi. Inoltre, è probabile che le persone sieropositive stiano molto più attente al fumo, alle droghe o all’alcol, che mangino bene e facciano esercizio fisico, in modo da restare in salute e vivere a lungo. Molti positivi lo sono di nome e di fatto, vivono la vita con gioia e guardano al futuro. Che motivo hanno di deprimersi? Col progredire delle scoperte scientifiche – ma anche delle infezioni – il numero dei maschi sieropositivi nella società è in aumento. Tanto vale capirli, rispettarli e accettarli invece di impiccarsi a paure antiquate e sciocchi pregiudizi.

10. … E le sorprese non finiscono qui

Molte ricerche in corso sono destinate a migliorare ulteriormente la situazione, rendendo la vita più facile e meno rischiosa tanto per i sieropositivi quanto per i sieronegativi. Stanno testando dei microbicidi rettali (pomate e clisteri che uccidono il virus all’istante), la gamma dei medicinali per la PrEP si sta ampliando e potrebbe includere iniezioni capaci di proteggere dal virus per mesi, evitando così la scocciatura della pillola quotidiana. Anche i profilattici stanno subendo un restyling volto a migliorarne il design e la sensibilità. Nel giro di non molto tempo si potranno eliminare anche i rischi d’infezione più modesti, e i farmaci antiretrovirali diventeranno sempre meno tossici e ancora più efficaci. Si tratta di progressi importanti non solo in termini di statistiche e numeri: di questo passo possiamo davvero colmare quel «viral divide» che ha danneggiato la nostra comunità per decenni, e continua a farlo.

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.