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La plenaria della terza giornata di conferenza mondiale AIDS, ha visto un tema vasto ma sicuramente importante: “affrontare le barriere strutturali”.
Gli speaker hanno affrontato il tema sotto molteplici punti di vista ma sicuramente gli attivisti sono stati prevalenti, come già nella precedente. Di solito le plenarie sono popolate da importanti relazioni che danno idea dell’indirizzo politico che IAS supporta.

Milos Parczewski dell’università di Pomerania, ci ha illustrato le varianti di HIV presenti nel mondo e, in particolare in Europa, la variabilità molecolare e l’epidemiologia locale.
Per capirci, posto che HIV1 è il tipo di virus principale in Europa, si suddivide in 4 gruppi oltre a una serie infinita di sottotipi e sotto-sottotipi. Del resto stante la velocità di replicazione supersonica di HIV, sarebbe stato insolito il contrario. A quanto pare il più popolare è il gruppo “C”, ma anche altri gruppi stanno prendendo piede. Fra gli altri motivi, anche le guerre aiutano a rimescolare le carte della presenza virale e della varietà di gruppi e sottotipi. Per esempio la guerra in Ucraina. Il ricercatore cita gli studi effettuati sui flussi migratori, per esempio verso la Polonia, causati dalla guerra e su come questi abbiano modificato i gruppi e sottogruppi presenti in quel Paese.
Lo so sembra accademia e in parte lo è in effetti, tuttavia i vari gruppi di HIV posso dare seguito a una diversa progressione verso la malattia. Alcuni gruppi sono più aggressivi di altri, oppure possono rendere più difficile la vita ad alcuni farmaci se non addirittura correlare con fallimento terapeutico. Prima che scappiate tutti dalla Polonia chiariamo che i farmaci di prima linea sono comodamente attivi contro ogni gruppo o sottotipo, senza contare che le persone con HIV sono sottoposte a test di controllo per cui un eventuale, futuro problema verrebbe immediatamente identificato, affrontato e risolto. Tuttavia conoscere quali sono le varianti più virulente può rendere più semplice il lavoro del clinico e anche la vita alla persona con HIV.

La seconda relazione, tenuta da Helen Clark ora presidente della omonima fondazione ma se non erro è stata anche Prima Ministra della Nuova Zelanda, è stata tenuta in forma discorsiva, tradizionale, senza slide, ed ha trattato l’importanza di una visione politica globale per affrontare temi globali come HIV, il riscaldamento del pianeta, ecc. Con il dovuto rispetto la relatrice ha toccato e ci ha ricordato una serie di punti e obiettivi sui quali lavoriamo ogni giorno come attivisti. Ovviamente meglio ricordarli che tacerli ma non ha portato alcuna novità o spunto di riflessione innovativo.

La successiva relazione è stata tenuta da Michaela Clayton dalla Namibia, che si occupa di diritti umani da una vita, sul tema della criminalizzazione di HIV che non ha alcuna evidenza scientifica ma continua ad essere utilizzato esplicitamente o in modo ipocritamente indiretto come in Italia.
La Clayton parte dal principio anzi, dai principi di Denver – si vede che anche secondo lei è ora di riprenderli in mano:

  1. Il diritto di essere coinvolti su ogni decisione presa
  2. Il diritto a vivere una vita piena sia dal punto di vista emozionale che sessuale
  3. Il diritto a trattamenti, visite mediche e servizi sociali di qualità senza discriminazioni
  4. Il diritto di ricevere spiegazioni complete su tutte le procedure mediche e i rischi correlati
  5. Il diritto alla privacy e alla confidenzialità
  6. Il diritto di vivere e morire con dignità

È ora di renderci conto che la criminalizzazione di HIV impatta su un range ben più ampio di diritti umani:

  • il diritto a un trattamento non discriminante davanti alla legge
  • il diritto alla vita
  • il diritto a poter accedere a alti standard di salute fisica e mentale
  • il diritto alla libertà e alla sicurezza come persona
  • il diritto alla libertà di circolazione
  • il diritto di chiedere e godere di asilo
  • il diritto alla privacy
  • la libertà di opinione ed espressione e il diritto di usufruire liberamente delle informazioni
  • la libertà di associazione
  • il diritto al lavoro
  • il diritto di sposarsi
  • parità di accesso all’istruzione
  • il diritto ad un adeguato standard di vita
  • la sicurezza sociale, l’assistenza e il welfare
  • il diritto a partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici
  • il diritto di partecipare alla vita pubblica e culturale
  • il diritto a essere liberi dalla tortura e da trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti

allora ditemi: quanti di questi punti si applicano anche nel nostro Paese che passa per essere così liberal? Da persona omosessuale che vive con HIV, che fa attivismo da oltre 20 anni, vi posso dire serenamente che sono ben pochi.

Ma tornando alla presentazione, nel mondo la criminalizzazione per HIV in termini di trasmissione, esposizione o non disclosure è ancora molto alta e non solo, come forse qualcuno crede, nei Paesi in via di sviluppo. Russia, Stati Uniti hanno leggi specifiche che criminalizzano.
Posso capire che in quadro di ignoranza generale ci sia chi pensa in termini vendicativi e chiede leggi che vadano nella medesima direzione.
Ma da nessuna parte, neppure in Europa, con il carcere e leggi punitive si è mai ottenuto un qualsivoglia risultato misurabile che non sia la legge del taglione. La criminalizzazione non ha alcuna base scientifica o epidemiologica, per cui è evidente che viene praticata per motivi che nulla hanno a che vedere con la lotta contro HIV.

Le difficoltà o il mancato riconoscimento della carica virale non rilevabile, del safer sex o la comunicazione dello stato sierologico come difesa contro l’azione giudiziaria, sono tutti atti la Clayton include nella logica generale della criminalizzazione. E poi c’è un bel planisfero dove compare l’Italia, colorata di viola, che vuol dire non legge specifica ma casi segnalati. In effetti l’Italia non ha una specifica legge che criminalizza HIV, ma comunque mette in carcere le persone che vivono con HIV. Dalla mappa risulta inoltre che 79 Paesi hanno leggi punitive per HIV, 4 hanno introdotto tali leggi nel 2022-24; nonostante alcuni successi la criminalizzazione dell’HIV continua a rappresentare una grave minaccia per la salute pubblica e i diritti umani.

Queste leggi, naturalmente, spesso si incrociano con la criminalizzazione del possesso di sostanze, con il lavoro sessuale, in alcuni stati anche con la criminalizzazione delle persone transgender così come dei gay e altri MSM, dice la Clayton introducendo una logica intersezionale.
Ma le leggi retrive non solo l’unica cosa che ci spinge indietro. La mancanza di dati attendibili, poca attenzione alla epidemiologia, la marginalizzazione di HIV (e di chi vive con HIV), un contesto generale sempre più repressivo e spazi di azione sempre più ridotti per la società civile, ecc. tendono a aiutare HIV. Ma, al netto di tutto questo, non importa non importa quali progressi scientifici raggiungiamo, dovremo sempre affrontare barriere a meno che non affrontiamo direttamente il piano dei diritti umani.

Decisamente mi serve un passaggio rigenerante alla Positive Lounge. Si tratta di uno spazio riservato alle persone che vivono con HIV che viene proposto ormai in tutte le conferenze mondiali aids. È un luogo dove le persone con HIV possono rilassarsi un pochino, bersi un caffè o usufruire dei servizi che (di solito) le associazioni locali organizzano per l’occasione dai massaggi rilassanti allo yoga.

Dopo la lounge ho deciso di iniziare a passeggiare per la foresta dei poster, ossia le centinaia di abstract, di studi, stampati in forma di poster e appesi nelle gigantesche sale del Messe. E inizia subito male per la IAS: il primo poster che leggo è un’analisi sullo spazio messo a disposizione delle donne e delle persone trans dalla conferenza. Emergono dati interessanti: speaker invitate 9%, speaker trans 1,2%; abstract presentati da donne HIV+ 2,4%, da trans 0,37%; scholarship donne HIV+ 6%, trans 1,27%. C’è abbondante spazio di miglioramento.
Un altro abstract ci dice che negli USA una ricerca indica che i farmaci long acting orali sono preferiti a quelli iniettivi. Un abstract francese ha studiato l’utilizzo dei MMG e la soddisfazione degli utenti, per la PrEP. Mi cade l’occhio su uno strano studio che analizza quanto l’uso di silicone liquido incida nell’aderenza terapeutica nelle donne trans argentine. Era presente una delle autrici, felice di poter finalmente parlare “castellano”, che mi si presenta direttamente come trabajadora sexual…muy orgullosa, evvai. Mi spiega tutto lo studio e specifica che il finanziamento era del precedente ministero della salute, non questo di Milei.

Sandro Mattioli
Plus aps

Devo dire la verità: ho fortemente voluto partecipare a questa conferenza CROI (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infection) perché, oltre ovviamente ad essere una delle principali al mondo, è a Denver.

Denver (Colorado, USA) è il luogo dove nel 1983 un gruppo di attivisti delle primissime battaglie contro la discriminazione delle persone sieropositive, scrissero e pubblicarono una carta di principi che sono stati e sono ancora oggi basilari per qualunque attività di advocate su HIV e che sono il fulcro della mia azione di attivista HIV positivo.

Buona parte del lavoro che facciamo oggi nel CTS, nelle commissioni regionali AIDS (cambiare nome, no?), nelle associazioni di pazienti e di lotta contro HIV, con e per le persone che vivono con HIV si basa sulla carta di Denver, sul lavoro che ci hanno lasciato dei ragazzi prima di morire di HIV.

Pur nella loro condizione, queste persone hanno scritto dell’importanza dell’empowerment di chi vive con HIV (perché l’ignoranza e la non accettazione ci fanno morire prima), dell’importanza di essere trattati con dignità (in un periodo in cui le persone con HIV venivano abbandonate a loro stesse, anche dalle famiglie, per la vergogna); dell’importanza di essere inclusi sulle decisioni che ci riguardano (nothing on us without us) cosa che ancora oggi in Italia è pochissimo rispettata spesso per assurde posizioni burocratiche praticate da chi, sanità pubblica o multinazionali per esempio, tende ad anteporre le procedure agli interessi dei pazienti; l’importanza del linguaggio e la condanna di ogni tentativo di pietismo e di relegarci in una condizione di sottomissione, di vergogna, di passività. “People living with HIV/AIDS”, che ho usato anche qui sopra, è una definizione che risale ai principi.

Queste persone non si sono rassegnate e sono un esempio per tutti coloro che vivono con HIV.

Per me è un onore calpestare le stesse strade che li hanno visti in azione, quando in Italia il Ministro della Salute prendeva sottogamba l’epidemia e pretendeva di combatterla con l’etica e la morale cattolica, quando gli omosessuali, che ora chiamiamo MSM, vivevano ancora troppo nascosti e le statistiche si concentravano falsamente altrove, quando perfino il movimento decise che di questo tema se ne sarebbero occupati altri per paura della discriminazione o dell’eccesso di impegno per i quattro gatti che si davano da fare allora. Poi si chiedono perché mi inalbero quando gli MSM, pur essendo una popolazione chiave in UE, non vengono presi in considerazione a livello di strategie di prevenzione e ci dobbiamo sbattere con i Checkpoint per colmare le difficoltà del Sistema Sanitario. E ciò nonostante, ancora oggi c’è una minoranza della popolazione italiana che produce il 40% delle nuove diagnosi, ma non sembra che la cosa sia di grande interesse. Ecco… capite perché il principio di Denver sull’empowerment è così importante? Se non pensiamo noi a noi stessi, non lo farà nessuno incluso il cosiddetto movimento LGBTQ+, tanto attento a mille sfaccettature umane, ma distratto e distante dalla discriminazione multipla subita dalle persone MSM che vivono con HIV. Una discriminazione radicata e, spesso, interiorizzata, a tal punto da essere comunemente accettata, ma è proprio in questa condizione passivamente subita dalla community LGBT+ che HIV trova spazio di azione.

Sono stati fatti molti passi in avanti nella lotta contro l’epidemia da HIV. I ragazzi di Denver lottavano per le loro vite, noi oggi lottiamo per la qualità della vita che, in estrema sintesi, significa cercare di non morire per quelle patologie che HIV aiuta a svilupparsi, cancro e problemi cardiovascolari in primis. Detto questo, rispetto agli attivisti di Denver noi viviamo molto più a lungo, noi possiamo ragionare in termini di decenni non di mesi e sicuramente non è poco. Tuttavia, chi crede che la lotta contro HIV sia finita commette un errore clamoroso. Non è un caso che non abbiamo una cura eradicante e che i ricercatori ammettano, a denti stretti, che non abbiamo gli strumenti per trovarla. Il vaccino, a ben vedere, non gode di miglior salute stante che tutti gli studi tentati fino ad oggi sono clamorosamente falliti, incluso il Mosaica sul quale c’erano molte attese e speranze. Tuttavia molti pensano che HIV non sia un grosso problema. In Italia molti pensano che sia un problema del Continente africano o dei gay e mettono la testa sotto la sabbia.

In questi giorni, alla conferenza CROI potremo fare il punto della situazione su tutto ciò che riguarda questo virus che ci accompagna da troppo tempo e che nel mio Paese è ancora causa di stigma e discriminazione nei confronti delle persone omosessuali.

Sandro Mattioli
Plus aps