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Articolo di Benjamin Ryan

di Benjamin Ryan

Nell’estate del 2016, due studi di ampia portata hanno scoperto quanto segue: nessun partecipante sieropositivo ha trasmesso il virus al proprio partner sieronegativo in presenza di viremia soppressa (non rilevabile), malgrado rapporti sessuali in massima parte senza preservativo. Abbiamo quindi la garanzia che i sieropositivi undetectable non sono contagiosi?

Una recente meta-analisi di vari studi ha scoperto che i maschi che fanno sesso con altri maschi (i cosiddetti MSM) in PrEP (la profilassi pre-esposizione) hanno un tasso molto elevato di infezioni sessualmente trasmissibili rispetto agli altri MSM. Significa forse che prendere la PrEP agevola l’acquisizione di gonorrea, clamidia & co.?

La corretta interpretazione di queste ricerche – quali conclusioni trarre, quali evitare – dipende dalla comprensione di determinati principi della letteratura scientifica. Non bisogna avere un dottorato per arrivarci, ma quando ci si trova di fronte a certe notizie può essere utile ricorrere a un paio di concetti chiave, scientifici e matematici. Eccoli qua.

TasP - articolo di Benjamin Ryan

L’intervallo di confidenza

Forse vi è arrivato alle orecchie il motto lanciato dalla Prevention Access Campaign (PAC), «Undetectable = Uninfectious». Lo slogan si basa sull’assenza di trasmissioni di hiv rilevata nel corso dello studio HPTN 052 e nello studio PARTNER, tuttora in corso. Nessun partecipante sieropositivo con carica virale non rilevabile ha trasmesso al partner sieronegativo. Nel caso dello studio PARTNER, parliamo di 22.000 rapporti sessuali tra MSM e 36.000 rapporti sessuali etero.

Si tratta di un bel po’ di sesso senza preservativo in assenza di trasmissioni. Ciò detto, i ricercatori non saranno mai in condizione di affermare con assoluta certezza che chi è undetectable non è infettivo. Per capire il perché, bisogna prendere in considerazione un concetto importante in ambito statistico noto come l’intervallo di confidenza.

Quando gli autori degli studi scientifici pubblicano le stime relative a un determinato esito – in questo caso il tasso stimato di trasmissioni di hiv nel corso del tempo in presenza di viremia non rilevabile – forniscono anche un intervallo di confidenza. Questo significa che basandosi sui dati a disposizione, gli autori dello studio sono sicuri al 95% che l’esito definitivo si trova all’interno di un certo intervallo. Più dati hanno, più possono restringere l’intervallo di confidenza della loro stima.

Un intervallo di confidenza si può solo restringere, non eliminare. La sua persistenza, categorica conferma dell’inamovibile natura dell’incertezza, sta a significare che qualsiasi affermazione scientifica circa il rischio di trasmettere hiv anche in presenza di un virus soppresso si accompagnerà sempre a un briciolo di dubbio. I ricercatori possono solo consolidare la loro certezza nella stima del rischio.

Mettiamola così: in ambito scientifico non esistono garanzie al 100%, né c’è modo di dimostrare il contrario. Anche se i partecipanti allo studio PARTNER avessero centomila miliardi di rapporti sessuali in presenza di viremia soppressa e con zero trasmissioni, c’è sempre la possibilità che essa scatti in occasione del prossimo. Gli autori dello studio PARTNER possiedono già abbastanza dati per stimare che il rischio di trasmissione quando la viremia non è rilevabile è, davvero, zero. Ma i loro intervalli di confidenza per i vari tipi di atto sessuale sono molto diversi, in quanto si basano sui dati raccolti finora.

Dando un’occhiata a tutti i possibili tipi di sesso penetrativo con una persona sieropositiva undetectable, l’intervallo di confidenza degli studiosi ci dice che se seguissimo 10.000 coppie per un anno, il virus verrebbe trasmesso tra le 0 e le 30 volte. Dato che lo studio dispone di meno dati per gli MSM, l’intervallo di confidenza per quanto riguarda il rischio di trasmissione nel sesso anale con eiaculazione e partner hiv+ attivo oscilla attualmente tra 0 e 270.

Col procedere dello studio PARTNER, questi intervalli di confidenza sono destinati a rimpicciolirsi. E col tempo, almeno finché non si registreranno trasmissioni, la scienza potrà dire con sempre maggiore certezza che il rischio di passare il virus è così minuscolo da essere trascurabile.

PrEP - Articolo di Benjamin RyanCorrelazione vs. causalità, ovvero perché è così difficile determinare se la PrEP è responsabile dell’aumento delle IST

Può essere molto difficile, per gli studi scientifici, anche solo avvicinarsi all’obiettivo di dimostrare che un determinato fattore provoca un determinato esito. In una recente meta-analisi che mette a confronto il tasso di infezioni sessualmente trasmissibili tra MSM partecipanti a studi sulla PrEP e quello degli MSM coinvolti in altri studi, i ricercatori hanno scoperto che per i maschi in PrEP è 25 volte più probabile ricevere una diagnosi di gonorrea, 11 volte più probabile riceverne una di clamidia e 45 volte più probabile essere diagnosticati con la sifilide.

Quello che l’articolo non può dire con certezza è se andare in PrEP o partecipare a uno studio sulla PrEP faccia sì che gli uomini contraggano un maggior numero di IST. L’unica cosa acclarata è questa associazione, questo link, questa correlazione tra uso della PrEP e alti tassi di infezioni sessualmente trasmissibili. In altre parole: chi prende la PrEP tende a contrarre IST. O, detto con maggiore accuratezza, chi partecipa a studi sulla PrEP registra alti tassi di infezioni sessualmente trasmissibili. Tuttavia, un numero indefinito di cosiddetti fattori di confondimento può aver contribuito a questo alto tasso di infezioni che interessa i partecipanti agli studi sulla PrEP.

È più che comprensibile che un gruppo di MSM in PrEP tenda a contrarre un sacco di IST, visto che sono proprio i comportamenti sessuali ad alto rischio a far sì che una persona sia adatta a entrare in uno studio del genere – comportamenti che agevolano la presenza di gonorrea, clamidia o sifilide. E la buona notizia è che i maschi che rischiano di più sono anche i più interessati alla PrEP: quindi, se tutto va bene, la loro assunzione di Truvada dovrebbe concorrere al calo delle nuove infezioni.

Spesso, gli autori delle ricerche tendono a correggere o controllare i dati per tenere conto dei fattori di confondimento e dare un senso più netto di causa ed effetto, o almeno suggerire che una variabile possa aiutare a predirne un’altra – ad esempio l’obesità come fattore predittivo dell’infarto. Controllare questi fattori può aiutare gli studiosi a individuare con maggiore chiarezza il loro ruolo nell’esito che stanno esaminando.

Gli autori dell’articolo sulla PrEP non hanno modificato il tasso di IST per dare conto di qualche fattore confondente. Non hanno teorizzato che la differenza tra i tassi di infezione tra gli MSM in PrEP e quelli degli altri studi possa in parte essere funzione del fatto che per partecipare agli studi sulla PrEP bisogna essere propensi a rapporti rischiosi. La loro analisi non è stata strutturata per esaminare i cambiamenti nel tasso delle IST nel corso del tempo o per individuare le potenziali cause di tali tassi.

Se uno studio volesse capire se andare in PrEP cambia il tasso di IST, dovrebbe prima fotografare il tasso prima di assumere il Truvada e poi monitorare come cambia nel tempo. Anche in tal caso, lo studio non potrebbe dire se il tasso di IST avrebbe comunque seguito una traiettoria analoga anche senza introdurre la PrEP. I ricercatori avrebbero bisogno di un gruppo di confronto composto da persone simili, non in PrEP, in modo da seguire l’andamento delle IST nel corso del tempo.

Ma se i membri di questo gruppo di controllo non vengono selezionati a caso, ecco che il paragone rischia di introdurre variabili disorientanti. Le differenze nei comportamenti sessuali che influenzano le scelte di quegli MSM che hanno deciso di propria sponte di andare in PrEP o di partecipare a uno studio sulla PrEP, rispetto a quelli di coloro che hanno scelto di non farlo, potrebbero viziare i risultati di un confronto tra i due gruppi.

Lo studio PROUD con la PrEP, centrato su MSM con comportamenti ad alto rischio in Inghilterra, ha istituito sul serio un gruppo di confronto – allo scopo di determinare quanto la PrEP riesce a prevenire le nuove infezioni – facendo sì che una porzione dei partecipanti ricevesse il Truvada in un secondo momento. In questo modo tutti i partecipanti sono entrati nello studio alle medesime condizioni, ma ad alcuni di essi, scelti a caso, la PrEP è stata somministrata più tardi. Effettuato un confronto tra i tassi di IST dei partecipanti in PrEP e quelli in attesa di prenderla – tassi in entrambi i casi molto elevati – i ricercatori non hanno individuato alcuna correlazione tra l’inizio della PrEP e un aumento delle infezioni.

Altri studi sulla PrEP non hanno tendenzialmente riscontrato alcun cambiamento nel tasso di IST tra i partecipanti nel corso del tempo. Tuttavia, uno studio basato su una somministrazione della PrEP non giornaliera ha registrato un calo nell’uso del preservativo appena i partecipanti sono passati dalla fase placebo a quella open label, in cui sapevano cosa stavano prendendo. Questa è, finora, la prova scientifica più solida di come, almeno tra gli MSM, andare in PrEP coincida davvero con un aumento dei comportamenti sessuali a rischio, un fenomeno che può essere definito compensazione del rischio o, in parole povere, disinibizione.

Articolo originale (pubblicato su POZ il 4 novembre 2016)

Traduzione di Simone Buttazzi

Silenzio = Discriminazione

Nel corso di questo mese Plus ha dato voce al blogger Mark S. King, che con la sua prosa accattivante e provocatoria ha messo qualche puntino sulle i.

Mark ha spiegato ai sieronegativi cosa significa, oggi, vivere con hiv, ha tracciato la linea che separa il rischio teorico dal rischio effettivo, ha parlato di bareback in maniera schietta e amorale e ha tentato, infine, di individuare in un film porno del 2004 l’inizio della moda del sesso senza preservativo, dandone un’interpretazione basata sui fatti.

Sulla medesima linea d’onda, fattuale e non ideologica (né tanto meno moralistica) ci sembra necessario concludere questo «settembre antistigma» con alcune considerazioni stringenti.

A cominciare dal ruolo del preservativo, che resta imprescindibile ma va ricontestualizzato. Il condom è una sine qua non valida per tutti, negativi e positivi, poiché è l’unico scudo utile ad arginare le infezioni sessualmente trasmissibili, da quelle croniche a quelle passeggere che possono comunque fiaccare il sistema immunitario e agevolare l’hiv. Oltretutto, la legge italiana non ha ancora recepito lo status «undetectable» (la non contagiosità di chi ha la viremia non rilevabile) che riguarda l’80% delle persone sieropositive diagnosticate nel nostro Paese, e questo va sempre tenuto presente in caso di incontri «sierodiscordanti».

Poi ci sono altri dati di realtà, a cominciare dalle idiosincrasie che da sempre, hiv o non hiv, penalizzano l’uso del condom. Motivo per cui è ora di riconoscere lo status di safer sex anche ad altri strumenti, a cominciare dalla TasP, vale a dire la terapia come prevenzione, i cui effetti succitati in tema di viremia stanno trovando conferma grazie allo studio Partner.

È importante sottolineare come le condizioni di successo della TasP siano piuttosto severe (a tale proposito, date un’occhiata al vademecum Sesso Gay Positivo) e per stare sul sicuro, anche alla luce di altri infezioni come la sifilide e l’epatite C – sempre più presente tra gli MSM – si ritorna giocoforza al buon vecchio profilattico. D’altro canto, nella realtà dei fatti vi è uno scarto sostanziale tra adoperare uno strumento, per l’appunto, artigianale e poco amato, e ricorrere a una protezione 24/7 come quella offerta da una terapia in pillole.

Sulla convenienza e la sostenibilità della PreP, cioè la terapia antiretrovirale preventiva a mezzo Truvada©, il dibattito è ancora apertissimo. Gli aspetti di ordine medico – aderenza, effetti collaterali – vanno soppesati insieme a quelli economici, ovvero il costo ancora abnorme di queste medicine, e il freno globale costituito dai brevetti.

Nel frattempo, per le persone sieropositive la battaglia continua giorno dopo giorno, ed è una battaglia soprattutto sociale e culturale. Sociale, perché l’hiv è un’infezione contagiosa che interessa quella sfera delicatissima dell’interazione umana che è il sesso. Culturale, perché se l’ambito medico resta opaco e inaccessibile ai più, il tema dello stigma è a portata di tutti. Ed è su questo tema che Plus ha deciso di focalizzarsi grazie agli articoli di Mark.

In cima alla lista c’è il disinnesco di un’immagine deflagrante, oltre che sbagliata: la persona sieropositiva contagiosa, disperata e inaffidabile. A ben vedere, il rischio reale di nuove infezioni riguarda in primis le persone in sieroconversione, cioè fresche di contagio e nella massima parte dei casi all’oscuro della cosa, e in seconda battuta quelle che non solo non lo sanno, ma non fanno nemmeno regolarmente il test. Una persona diagnosticata, al corrente del proprio stato sierologico e seguita da un medico, non è quasi mai un pericolo – e una volta entrata in terapia non lo è al cento per cento.

Persino le coinfezioni o le altre cause dei cosiddetti blip virali (l’improvviso aumento della viremia nelle persone in cura, o la differenza tra virus nel sangue e nello sperma) non escono dal recinto del rischio irrisorio e residuale, per quanto possano rappresentare un problema per la salute del diretto interessato.

Da questo punto di vista, il salto copernicano che va introdotto nella concezione stessa del profilattico è che il goldone serve ai positivi soprattutto per proteggersi, oltre che per proteggere. Proteggersi dalle infezioni che la terapia non targetizza e che rischiano di compromettere un sistema immunitario già ballerino.

L’altro salto riguarda le persone sieronegative e la loro percezione del rischio. Alla luce delle evidenze scientifiche bisogna saper distinguere il contatto dal contagio: hiv è uno dei tanti virus ormai entrati a far parte del nostro quotidiano, ma dalla vicinanza all’infezione il passo è bello lungo. Hiv si trasmette con notevole difficoltà. Comprenderne le dinamiche e accettarle senza cedere alle malie del rischio teorico significherebbe mettere la parola fine alla discriminazione delle persone sieropositive.

Ecco perché noi di Plus ne parliamo senza censure, nella speranza che questi argomenti diventino oggetto di discussione anche nel nostro Paese. Uno dei primi slogan della lotta all’aids fu silence = death, per evitare che l’elefante della pandemia restasse ignorato nel bel mezzo del salotto. Oggi di hiv non si muore quasi più (in Occidente, almeno), ma resta la gestione – anche sociale, interpersonale – di un’infezione cronica per la quale non s’intravede ancora una cura. Un’infezione spesso taciuta dalle persone colpite proprio per paura dello stigma – lo stesso stigma che si ciba dell’ignoranza diffusa e di vecchi stereotipi duri a morire. L’hiv non si vede, ma il silenzio la rafforza.

I tempi degli strali, dei decaloghi biblici e del politicamente corretto hanno mostrato la corda: è il momento di decisioni informate, prima di tutto in ambito sessuale, la cui responsabilità va condivisa in parti uguali tra tutti noi, positivi e negativi.

Non più «lungi da me», ma «so quel che faccio».

È questa la sfida che Plus lancia alla comunità lgbt italiana.

Simone Buttazzi

[l’immagine che apre l’articolo è una rielaborazione dell’ultima inquadratura, censurata, del film Porcile (1969) di Pasolini. Dietro alla maschera c’è un Ugo Tognazzi che ci ricorda come avere qualcosa da dire, e star zitti, sia una gran porcata]

di Mark S. King

Il porno gay più importante di tutti i tempi

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi di queste quasi 20.000 battute che sì, ebbene sì, parlano proprio di un pornazzo. La prossima settimana Plus tirerà le fila di questo settembre antistigma lanciando una sfida alla comunità lgbt italiana.

Questo articolo è stato condiviso più di 15.000 volte dalla sua pubblicazione nel luglio del 2012. Alcuni lettori hanno reagito con rabbia, e l’aspetto bareback della vicenda ha suscitato commenti di ogni tipo (un utente ha accusato il regista Max Sohl di «crimini contro l’umanità»). In tutta franchezza, ho sempre pensato che la storia del film e il suo impatto sociologico fossero degne di approfondimento; ho apprezzato il candore delle persone coinvolte, così come trovo interessante l’approccio offerto dagli scienziati sociali e dai pezzi grossi dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention), che fungono da sfondo.

Il Folsom che si tiene tutti gli anni a San Francisco è famoso per l’abbraccio caloroso che riserva a ogni singola stella del nostro firmamento sessuale. Persino la comunità leather dura e pura, che l’ha fondato, rischia di sfigurare dinanzi allo sfoggio di abbigliamento fetish (o alla totale nudità) che serpeggia per le strade tortuose di Cisco.

Nell’autunno del 2003, nel bel mezzo di questi chiassosi baccanali, Paul Morris si trovava allo stand della Treasure Island Media (TIM), la casa di produzione pornografica da lui fondata e specializzata in sesso non protetto (bareback, per l’appunto). Un ingrediente, questo, destinato a garantirgli un successo senza precedenti.

Leggenda vuole che Lana Turner, bigiando una lezione, si sia appoggiata voluttuosamente al bancone di un negozio, dove venne notata da un giornalista. Nel nostro caso, un bel maschietto si fermò allo stand della Treasure. Quei video gli piacevano, tanto ma tanto, e sperava di poter documentare, prima o poi, qualche sua intima fantasia. Anche Jesse O’Toole, star della Treasure, era allo stand, e i due si fecero fotografare assieme. Guardando oggi lo scatto, si ha la netta impressione che il giovinastro col cappellino in pelle abbia ritrovato la sua tribù a lungo dispersa, mentre O’Toole ha l’aria di chi si trova a tavola, le posate strette in pugno, pronto a consumare un pranzo luculliano.

La foto venne spedita a Max Sohl, sporadico attore porno con un passato teatrale a cui Morris aveva dato l’incarico di girare un film. Sohl diede appuntamento all’aspirante modello e gli chiese di compilare un questionario con una sola domanda: Descrivi la scena dei tuoi sogni. Il giovane prese la penna e scrisse: «io che vengo inculato e inseminato da un branco di manzi». «Il Black Party era alle porte» raccontò poi Sohl in un’intervista riferendosi al week-end annuale dei leather men che si svolge a New York, a base di feste e orge «al che mi son detto ok, vediamo quanti ne può prendere».

Nacque così Dawson’s 20 Load Weekend (‘Dawson e il week-end delle venti dosi di sborra’).

Prima dell’aids, l’uso del preservativo nei porno gay era nullo – prima, per l’appunto, che i fluidi corporei diventassero sinonimi di malattia e morte. Per un decennio abbondante dopo l’inizio della pandemia, nei porno gay si son visti solo piselli ben avvolti nel lattice, ma le storie – attori compresi – sembravano intontite, ammorbate da un malessere drammaturgico, una specie di sonnambulismo sessuale: gli amplessi erano pura routine col sarcoma di Kaposi nascosto dietro le quinte. Quei video rispecchiavano la pressoché totale mancanza d’interesse nel rimorchiare il pizza boy di turno o nel buttarsi in un orgione con degli estranei, e molti consumatori tornarono a infilare nei VCR le vecchie videocassette pre-aids, bareback sì, ma «giustificate».

Quando le morti diminuirono bruscamente con l’introduzione delle nuove medicine nel 1996, la cultura dei maschi omosessuali si vendicò. Si registrò un trionfo di festini privati (destinati a soccombere sotto il peso dei loro stessi eccessi), i comportamenti ligi al safer sex si rilassarono e nell’aria si respirò un ardente desiderio di sfuggire agli orrori degli ultimi quindici anni. Reclamare a gran voce una sessualità senza confini – qualcosa che molti maschi omosessuali ritenevano perduta per sempre – fu il miglior tonico per curare lo stress post-traumatico generalizzato. I più giovani, che avevano sentito parlare di un’epoca sessualmente liberata paragonabile a un’era perduta della paleontologia, si dimostrarono ben disposti a esplorarne le nuove versioni, qualunque esse fossero.

Il sesso non protetto dopo l’arrivo dell’hiv non è nulla di nuovo – a ben vedere è il motivo numero uno delle nuove infezioni, il cui numero stenta a calare – ma nella seconda parte degli anni Novanta la comunità gay scoprì ancora una volta quanto fosse facile, e un po’ comico, (ri)etichettare un fenomeno: fu così che il termine «bareback» entrò nel linguaggio comune. È ironico, semmai, che sia stata introdotta una parola nuova per definire la più antica pratica sessuale del mondo: fare sesso senza barriere. Non era certo cambiato il sesso, bensì il suo significato e i giudizi che attirava, soprattutto se a farlo erano dei maschi omosessuali. Come ha dichiarato l’attivista Jim Pickett in occasione di una conferenza, «Quando un amico mi dice che stanno aspettando un bambino, mi vien voglia di urlare ‘Ah-ha! Avete fatto bareback!’».

Ma mentre le menti più fini e gli attivisti più appassionati indagavano le ragioni del barebacking cercando una risposta sensata, nessuno aveva osato documentarlo su videocassetta per darlo in pasto agli appetiti erotici delle masse. Non ancora, almeno.

Nel 1998 esistevano due società scavezzacollo fondate solo a questo scopo: la Hot Desert Knights e la Treasure Island Media. Nessuna delle case di produzione leader del mercato avrebbe mai preso in considerazione la stessa idea (per quanto rieditassero volentieri i vecchi best seller pre-aids, ovviamente bareback). I video fatti con pochi soldi dalle quelle due start up del porno tirarono fuori dall’«armadio» le scelte sessuali di un numero crescente di uomini e le condussero dritte nel mercato dei DVD e sugli schermi dei computer.

Si tratta di video uniformi nel loro pauperismo, nell’aspetto non freschissimo degli attori, e nel fatto che molti di essi paiono recare i segni di un’infezione da hiv presa per il collo con farmaci molto tossici. Era come se un gruppo di uomini sopravvissuti al virus fosse sbottato di punto in bianco con un «oh, al diavolo» mettendo in bella mostra il tipo di sesso che facevano tra di loro da qualche tempo. Questo tipo d’immaginario da «exploitation» era considerato un sottogenere underground incapace di infrangere la superficie del mainstream pornografico.

Ma quando Max Sohl incontrò quel giovane di bella presenza reduce dal Folsom che aveva una voglia matta di farsi «inseminare» da una ganga di estranei, e con lo Zeitgeist ormai pronto per il loro arrivo, quei due fecero un film destinato a cambiare per sempre il volto dell’industria pornografica e a influenzare, senza dubbio alcuno, il comportamento sessuale di moltissime persone.

Ribattezzata «Dawson», la promettente star del porno si sistemò in una camera d’albergo nel corso del Black Party 2004 newyorkese, a disposizione di un’autentica parata di attivi senza profilattico. I rapporti sessuali vennero filmati con stile documentaristico, senza musica né dialoghi, né alcun tentativo di nascondere i cavi e le telecamere piazzati nella stanza. Il più intimo desiderio di Dawson era stato appagato, e Sohl poteva dimostrarlo. Nel giugno del 2004, Dawson’s 20 Load Weekend venne distribuito con tanto di battage pubblicitario.

Di primo acchito si può avere l’impressione sconcertante che il video sia stato girato in un mondo dove di hiv non si è mai sentito parlare, almeno finché una precisa, fiammeggiante coreografia sessuale non viene ripetuta ad libitum. Mentre nel porno pre-aids gli orgasmi venivano di solito mostrati con l’attivo che estraeva il cazzo per venire sulla schiena del partner, gli stalloni di Dawson hanno una mission ben diversa, e deliberata: estrarre il cazzo il tempo necessario a mostrare l’inizio dell’orgasmo, per poi reinserirlo immediatamente certificando così l’«inseminazione».

Dawson non è un film fatto in assenza di hiv, ma concepito per via di hiv. Sembra quasi di sentire una vocina che sussurra: «Guarda bene: ecco come fanno sesso i maschi gay al giorno d’oggi. Ecco dove va messo lo sperma. Fanculo l’aids».

A seconda dei punto di vista, trattasi di rituale erotico e trasgressivo oppure di una pratica intollerabile e irresponsabile che dimostra come ci s’infetta con l’hiv. O forse entrambe le cose…

E al centro di tutto questo c’era lui, Dawson: il porno bareback non aveva mai avuto a disposizione un protagonista così virile, atletico e devoto. «Un modello di tale qualità non si era mai visto in quel tipo di scene estreme» spiegò Sohl. «Il film ha cambiato le cose per via di Dawson. È adorabile, disarmante, sorride per davvero, ride nel film. È una pasticca di Cialis in carne e ossa». «Le case di produzione che fanno bareback hanno le mani sporche di sangue» divenne poi un adagio molto diffuso tra maschi omosessuali e attivisti nel campo della salute. Dan Savage, giornalista specializzato in consigli sessuali alla comunità lgbt, equiparò quei video alla pedopornografia, accusando gli autori di circonvenzione d’incapaci. Qualcuno accusò la Treasure di fare degli snuff movies.

Il video di Dawson riscosse un successo clamoroso in ogni dove. Persino Sohl ne fu sorpreso. «La nostra équipe, o anche i miei amici, mi dicevano ‘ovunque vada, in sauna, a un sex party, a casa di uno per scopare, lo mettono su: è dappertutto’».

I negozi hard che fino a quel momento avevano snobbato i titoli Treasure risposero alle richieste dei clienti prenotando il video e arrivando a creare apposite sezioni bareback sui loro scaffali. I siti porno gay che si erano sempre rifiutati di caricare clip di questo tipo si adeguarono. Dawson e il suo film diventarono così la bandiera di una sessualità spoglia e sfrontata, che aborriva i profilattici e non ne voleva sapere di lasciarsi intimidire dal virus.

Ben presto anche altre compagnie si misero a produrre porno bareback e riuscirono ad assoldare tipi in forma, giovani e muscolosi, il ritratto della salute. I volti e i corpi dei video bareback si trasformarono in fretta, cancellando ogni traccia di lipodistrofia e sincronizzandosi con l’invisibilità dell’infezione dei giorni nostri.

Ripensando alle conseguenze di questo film, Sohl è più pragmatico che orgoglioso. «Nel 2004, l’idea di farsi sborrare dentro venti volte era molto più che tabù, ma adesso… no, adesso non è più così estrema. Sono sicuro che prima o poi qualcuno l’avrebbe fatto. È capitato a noi».

Sohl non ammette alcun tipo di remore circa la salvaguardia dei suoi attori, oggi come allora. «Lo faccio dal 2004, l’ho fatto con migliaia di uomini, e solo uno ha detto di essersi beccato una malattia venerea [sul mio set]. Direi che il 50% del mio lavoro consiste nel fare counseling sull’hiv» precisa senza un filo d’ironia. «Passo un sacco di tempo a parlarne. La mia opinione è che la gente deve fare scelte consapevoli, deve informarsi prima di fare».

Una di queste persone capaci di decisioni importanti vivendo con l’hiv è proprio l’attore meglio noto come Dawson, che ha ammesso il proprio stato sierologico a «The Windy City Times» nel 2005. E se nessuno si è stupito del suo status, nell’intervista ha aggiunto anche un dettaglio tristemente rivelatore. «È stato dopo la diagnosi che ho deciso di fare un film con la Treasure Island Media. Mi ero sieroconvertito pochi mesi prima…».

Una volta ricevuta la diagnosi di sieropositività, molte persone ne approfittano per fare il punto della situazione e optano per scelte sessuali diverse, spesso orientate a godersi la vita come meglio credono. Nel caso dell’uomo destinato a diventare Dawson, alla sieroconversione seguì la scelta di fare la troia, senza vergogna né scrupoli, davanti all’obiettivo. Potrà anche essere stata la sua più intima fantasia, ma non fa che alimentare la credenza stigmatizzante che le persone con hiv siano vettori irresponsabili dell’infezione, disposti a propagarla abbandonando qualsiasi precauzione.

Forse il film valse come un trattatello sul tipo di liberazione sessuale disponibile per i maschi omosessuali dei giorni nostri, in quanto dimostrerebbe la «nuova normalità» di chi prende la terapia, elimina l’attività virale nel sangue e «scopa libero e senza paura», nelle parole di Paul Morris. Oppure ha semplicemente dipinto i sieropositivi come troie da sbarco, un’accusa rilanciata da frotte di sieronegativi disgustati (e magari gelosi)?

«Ciò che la gente vede riguarda più loro stessi che noi» spiega Sohl. «La migliore strategia è non confermare né negare alcunché. Mi capita di vedere online una scena che ho girato» continua riferendosi ai tanti siti che piratano frammenti dei suoi film «rititolata ‘passivo negativo si piglia lo sperma di un positivo’, manco fosse una scena d’infezione. Chi l’ha mai detto? Oppure, la gente crede che il passivo sia sotto crystal meth. Mi spiace, ma son tutte cose che la dicono lunga su chi guarda, non su quello che è successo davvero».

Questa relazione tra porno e spettatore è particolarmente cara ad alcuni attivisti della prevenzione che vedono il porno bareback come una forma di incoraggiamento al sesso senza preservativo nella vita vera. Ciò è scaturito in una campagna dell’Aids Healthcare Foundation volta a imporre l’uso del preservativo sui set, una mossa popolare a un livello molto semplicistico ma che non tira in ballo nessuno dei tanti fattori associati al reale rischio d’infezione, né le relative strategie preventive, come può essere la TasP.

E mentre la teoria sociale cognitiva afferma che prendiamo decisioni comportamentali guardando gli altri, sono ancora scarse le ricerche sull’eventuale relazione tra porno bareback e comportamenti reali. Tant’è che i ricercatori non sono stati in grado di affermare con certezza se chi fa bareback guarda molto porno bareback, o se è il porno a sfornare nuovi barebacker.

Un enigma che lo stesso Max Sohl è lieto di risolvere: «Certo che sì. Certo che influenza la gente». Ma alla domanda su quale sia la responsabilità del porno, Sohl non ne vuole sapere. «La responsabilità del porno» ha dichiarato con piglio malandrino «è far sì che chi lo guarda si faccia una sega».

Dawson è ormai un’icona del porno, presente su dozzine di siti, e ha ottenuto il premio tanto agognato. Lui e la sua progenie di pornoattori infisicati e allettanti hanno oltrepassato un punto di non ritorno. Le loro scorribande sono disponibili ovunque, a portata di tutti, inclusi i giovani maschi gay freschi di coming out che vanno in Internet in cerca di conferme in tema di sessualità.

Quei giovani uomini vedranno sicuramente, online, fior di scene di sesso senza preservativo, dato che ormai i video bareback sono più numerosi di quelli col profilattico. È fuori di dubbio che per i novellini del sesso il bareback sembrerà lo standard, e chi cerca di promuovere il safer sex farà molta fatica a superare la forza di quelle immagini. Il messaggio «usa sempre il condom» è ormai morto e sepolto, affogato nei secchi di fluidi corporei di Dawson e i suoi fratelli.

Dawson’s 20 Load Weekend ha ridefinito il porno gay bareback e i suoi attori, ha influenzato una caterva d’imitazioni e ha aumentato a dismisura la presenza sul mercato di video «condomless». Dawson descrive una verità diffusa sul comportamento sessuale tra maschi in tempi di antiretrovirali, e ha indubbiamente incoraggiato la ricerca di avventure rischiose. Ha inoltre condotto a una saturazione del bareback online, elevandolo alla norma per chiunque cerchi porno in rete. Prendere sottogamba questo film, minimizzare il suo impatto sociale e culturale sarebbe solo un gesto miope nei confronti della sessualità gay dei giorni nostri.

«Il bareback è un diritto» ha scritto l’antropologo gay Eric Rofes. «Dopotutto, quasi ogni uomo etero al mondo lo fa senza per forza sentirsi irresponsabile, pazzo o suicida… il bareback è una liberazione. Il bareback è sfida».

Folle o profetico, liberatorio, illuminante o distruttivo? Quale che sia la vera natura del bareback, la scopriremo solo nel prossimo capitolo della tormentata storia della nostra comunità omosessuale.

Mark

Mark S. King

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

Il re è nudo (ma proprio nudo)

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il tema del sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi dell’immagine soprastante, che mutua lo slogan proposto dal gruppo canadese Aids Action Now! nel 2012.

Ogni volta che un nuovo studio sui maschi omosessuali scopre che si fa sesso bareback, cioè senza preservativo, le anime belle della condotta sessuale si stracciano le vesti e denigrano questo comportamento vergognoso, choccante e assassino. Quindi immaginatevi quanti scampoli di tessuto sono finiti sul pavimento dopo che uno studio ha indicato che quasi la metà degli utenti della app di geolocalizzazione Grindr si cimenta col sesso «a pelo».

Vorrei tanto che quelle triste figure mettessero da parte i sali per rinvenire e cercassero di comprendere le ragioni di tutto questo. E invece, ogni volta che un nuovo studio, ampio o affrettato che sia, dimostra ciò che sappiamo già, riecco le statue pompeiane con la mano sul cuore, impietrite nella loro indignazione d’altri tempi.

Niente di nuovo sotto il sole… eccetto forse il sempre rinnovato stupore dinanzi al fatto che i maschi omosessuali si comportano pari pari come qualsiasi altro uomo del pianeta Terra.

Forse quelli che trovano ripugnante il bareback credono di essere politicamente corretti, che i loro aspri giudizi sulla vita sessuale altrui servano alla prevenzione, che criticare gli altri perché che si comportano come esseri umani possa in qualche modo modificare istinti radicati, che ci accompagnano dalla notte dei tempi.

O forse rientra nel nuovo decalogo della cultura gay voler dimostrare alla società etero che siamo bravi quanto loro a svergognare gli omosessuali, che ci castreremmo volentieri nel nome dei pari diritti e che altrettanto volentieri ci priveremmo degli stessi piaceri che loro danno per scontati: insomma, concedeteci il matrimonio gay e noi vi risparmieremo il racconto della scopata anale non protetta che avrà luogo la sera della cerimonia.

In un modo o nell’altro siamo giunti alla conclusione omofoba che quando due maschi omosessuali si cimentano nell’atto romantico, emotivo e spirituale dell’amore fisico senza barriere, questo va etichettato come barebacking psicotico, mentre quando lo fanno gli etero si chiama buon sesso. Due pesi e due misure: ridicolo. Lo sapete che anche vostra madre faceva bareback? È un atto naturale e prezioso che persiste, letteralmente, dagli albori dell’umanità. Abramo (facendo bareback) generò Isacco, Isacco (facendo bareback) generò Giacobbe, Giacobbe (facendo bareback) generò Giuda e i suoi fratelli (Matteo 1-2). Forse voi avete l’incredibile abilità di spassarvela al meglio col pene avvolto nel lattice. Wow, fantastico, raccontate. Sono tutt’orecchi. A voi piace davvero usare questo classico strumento di prevenzione, un autentico gioiellino immarcescibile. Forse tu e il tuo fidanzato siete sieronegativi e avete la fortuna di una relazione esclusiva e monogama che possa escludere l’uso del condom. O magari, forti di olimpionica disciplina, siete persino in grado di usarlo ogni volta che fate sesso, cascasse il mondo. Siete commendevoli, non c’è che dire, peccato che siate anche una minoranza. Quelli che ho appena fatto sono esempi validi e reali, che non rappresentano però una posizione moralmente superiore dalla quale lanciare strali sulle scelte altrui.

Durante gli anni critici dell’aids, noi maschi omosessuali abbiamo stipulato un tacito accordo: accettammo di usare i preservativi – a quel tempo l’unico «safer sex» esistente – in attesa di tempi migliori. Molti di noi pensavano che questo contratto non sarebbe mai arrivato a scadenza, forse perché si credeva di morire tutti nel giro di pochi anni. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare, trent’anni più tardi, di doverci ancora attenere a queste rigide linee guida.

Anche a suo tempo, alcuni di noi le ignoravano. Si potrebbe supporre che alla luce di tutte quelle morti si sarebbe verificato uno stabile cambiamento nello stile di vita. In realtà, molti di noi reagirono all’ecatombe in maniera irrazionale, quindi umana: trovavamo conforto nel fare l’amore l’uno con l’altro, spesso senza preservativo. Era una sorta di gesto assertivo, un vaffanculo all’aids. Tant’è che uno studio del 1988 sui maschi omosessuali dimostrò come la metà del campione non lo usasse mai, e che la maggioranza non lo usasse sempre. Sono numeri molto, molto simili a quelli dei recenti studi su Grindr. L’eterno ritorno di una pratica, direi, mai passata di moda.

Lo studio del 1988 è particolarmente interessante se si considera quanti maschi omosessuali ripensino a quegli anni come a un periodo di grande austerità sessuale. C’è chi desidera, forse troppo, un ritorno a quei funerei fasti e c’è chi, avendo visto con i propri occhi il massacro dei primi anni dell’aids, ogni tanto sentenzia: «Se solo i giovani sapessero cos’abbiamo passato… Se toccasse a loro, non si comporterebbero così».

Roba da vomito. Tanto per dirne una, non mi auguro affatto che i giovani di oggi assistano alle scene strazianti che ho visto io. Anni addietro ho sudato sangue, in trincea, proprio per consentire loro un po’ di apatia. Preferisco vederli sguazzare nella loro ignoranza spensierata che ipotizzare di seppellirli.

Non c’è dubbio che il numero di maschi omosessuali che muoiono ancora oggi per le conseguenze dell’aids sia incomparabilmente inferiore alle cifre degli anni Ottanta e dei primi Novanta. Oggigiorno le persone sieropositive muoiono più per il tabagismo che per il virus. L’hiv è diventata un’infezione pericolosa ma in larga parte gestibile, e le manovre terroristiche che sostengono tesi diverse vengono ignorate perché non corrispondono al vero. Il sesso è sesso, è una cosa naturale e rigenerante, e chiunque voglia parificare il sesso senza preservativo alla morte e alle malattie ha proprio bisogno di andare in terapia.

Inoltre, l’uso del condom continuerà sicuramente a calare, in futuro, per via dei nuovi strumenti che stanno arricchendo la gamma delle opzioni di prevenzione anti-hiv. A cominciare dalla profilassi pre-esposizione (PrEP), ovvero l’assunzione di antiretrovirali in via preventiva, che secondo studi recenti riesce davvero a ridurre il rischio di nuove infezioni (resta il problema di chi ne coprirebbe i costi se venisse legalizzata in Italia, oltre a quello dell’aderenza e dei possibili effetti collaterali). Molte persone che vivono con hiv limitano la scelta dei propri partner ad altre persone sieropositive, fanno cioè serosorting, e nel farlo hanno dimostrato l’infondatezza delle tante voci sul nuovo spauracchio, il supervirus della reinfezione, che in realtà non si è mai materializzato.

Sappiamo inoltre che i positivi con viremia non rilevabile sono, di fatto, non contagiosi, per cui la TasP (terapia come prevenzione) è stata rafforzata dallo studio Partner, realizzato in gran parte su coppie etero, che assegna persino una percentuale maggiore di efficacia alla terapia antiretrovirale rispetto al condom. Un risultato che dovrebbe confermarsi anche studiando solo coppie omosessuali.

All’orizzonte brillano poi i microbicidi rettali. Sono prodotti ancora sperimentali che arriveranno sul mercato sotto forma di lubrificanti o clisteri capaci di prevenire un’infezione da hiv, in modo da mettere la parola fine al chiacchiericcio e alle facili sentenze in tema di preservativi.

E potrei continuare. Insomma, non c’è bisogno di scannarci a colpi di integralismo profilattico, discreditando il valore intrinseco della nostra vita sessuale o promuovendo una singola strategia che, nella realtà dei fatti, non funziona per tutti. Sarebbe ora, invece, di accettare l’evidenza che i maschi omosessuali stanno facendo scelte consapevoli, mettendo alla prova diverse tecniche di riduzione del rischio. E una volta verificate nella loro validità, sarebbe ora di chiamare anche queste tecniche «safer sex». Infine, possiamo anche smetterla di far finta di credere che i fissati del preservativo abbiano la moralità dalla loro.

Il re è nudo. E non indossa nemmeno il goldone.

Mark

Mark S. King

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

Ma non vi basta mai?

Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.

Mark S. King

Una vecchia puntata dello show di Oprah Winfrey, anno 1987, riesce ancora a farmi vedere rosso. La minuscola cittadina di Williamson, in West Virginia, innescò un dibattito nazionale sull’aids dal momento che Mike Sisco, che era tornato al paese natale per morirvi, aveva osato tuffarsi nella piscina pubblica.

Il paesello uscì subito di testa. Sisco venne subito etichettato come uno psicopatico (secondo alcuni, sputava persino sui banchi del verduraio), e il giorno dopo la piscina venne chiusa per procedere a una decontaminazione in stile Silkwood. Ben presto, Oprah piombò sul posto con troupe e telecamere per discutere pubblicamente dell’accaduto. Il timor panico era all’ordine del giorno. «Se c’è anche solo una possibilità su un milione che qualcuno possa essersi beccato il virus in piscina» annunciò il sindaco al pubblico mondiale dello show «ritengo di aver fatto la cosa giusta». Certo. Perché non reagire nella maniera più isterica possibile, se c’è anche solo una possibilità su un milione?

Gli abitanti di Williamson non si lasciarono tranquillizzare dagli agenti della naccho che spiegarono loro con grande calma come si trasmette l’hiv, e l’impossibilità che ciò avvenga in piscina. «I medici potranno anche dire che non si prende così» concionò una signora «ma come la mettiamo se un bel giorno fanno marcia indietro e sbottano «be’, ci siamo sbagliati?». Massì. Come la mettiamo? Se c’è anche solo una chance su un milione…

Quella puntata sarebbe potuta restare una triste nota a piè di pagina nella storia dell’hiv/aids, un esempio istruttivo di come la gente ignori le evidenze scientifiche al solo scopo di salvaguardare una paura corroborante… peccato che la storia tenda a ripetersi.

Oggi, purtroppo, l’ignoranza più caparbia non riguarda solo i villici di un borgo dimenticato nel sud degli Stati Uniti, difficile persino da trovare sulla mappa. Riguarda i maschi omosessuali, che verso la scienza tendono a sfoggiare il medesimo atteggiamento impaurito, aggressivo e isterico dei bifolchi di Williamson di trent’anni fa.

In occasione della conferenza internazionale CROI sono stati presentati i risultati di uno studio di nome Partner, che hanno dimostrato ciò che gli attivisti nel campo dell’hiv sospettavano da tempo: le persone sieropositive con viremia non rilevabile non sono in grado di trasmettere il virus ai loro compagni. Lo studio ha riguardato circa 800 coppie discordanti, in maggioranza eterosessuali, col partner positivo in terapia e carica vitale stabilmente sotto le 50 copie per millilitro di sangue. Nel corso di due anni sono stati documentati più di 30.000 rapporti sessuali (le coppie erano state scelte in base alla loro tendenza a non usare il preservativo), e non è stato registrato neanche un caso di trasmissione del virus da parte di una persona sieropositiva «undetectable». Se lo studio Partner fosse stato indetto per mettere alla prova un nuovo farmaco, la fase sperimentale sarebbe stata interrotta per immetterlo subito sul mercato.

Gli esiti dello studio Partner legittimano la strategia preventiva detta TasP («therapy as prevention»: terapia come prevenzione), che si fonda sul fatto che una persona sieropositiva sottoposta con successo alla terapia non è più contagiosa. Non esiste un solo caso documentato di persona con viremia non rilevabile che abbia infettato il partner, tanto in ambito sperimentale quanto nella vita vera.

Ma non andate a raccontarlo a una bella fetta di maschi omosessuali scettici, molti dei quali si sono armati di tastiera per gettare fango sugli esiti dello studio Partner. Frasi come «falso senso di sicurezza», «i positivi mentono», «fantascienza pura» e «se c’è anche solo un minimo rischio» hanno invaso i social network e la sezione dei commenti del mio blog. Già m’immagino gli abitanti di Williamson annuire soddisfatti…

Le resistenze allo studio Partner vanno di pari passo con i dubbi nei confronti della PrEP (profilassi pre-esposizione, cioè l’assunzione di Truvada da parte di individui sieronegativi – strumento ancora inaccessibile in Italia). Malgrado qualsiasi obiezione pelosa verso la PrEP sia stata spazzata via dai fatti, i suoi strenui oppositori continuano o a negare la realtà o a emettere giudizi morali sulla vita sessuale dei sieronegativi che hanno deciso di entrare in PrEP. Sì, ci sono delle zone d’ombra, a cominciare dal problema dell’aderenza. Ce ne sono sempre quando il mondo degli studi scientifici incontra quello reale. E non tutte le strategie funzionano con chiunque. Ma il rifiuto veemente di scoperte così importanti indica che c’è qualcos’altro sotto, annidato nella mentalità dei maschi omosessuali. Che cos’è?

Difficile scrollarsi di dosso i ricordi collettivi degli anni tragici dell’aids, anzi: cominciamo proprio da qui. La classica reazione viscerale a qualsiasi studio che parli di neutralizzazione dell’hiv è di profondo scetticismo. Le buone notizie sembrano non reggere il confronto con un lutto durato trent’anni.

Inoltre, lo studio Partner mette a rischio l’opinione diffusa secondo la quale i maschi omosessuali altro non sono che mine vaganti. Lo studio toglie di torno «l’uomo nero con l’hiv». Cosa vuol dire questo? Che chi è al corrente del proprio status e voglia entrare in terapia ha la possibilità di diventare «undetectable». E una volta che il partner positivo non rappresenta più un problema, ecco che entrambe le persone sono egualmente responsabili delle proprie azioni. Una rivoluzione copernicana nella mentalità diffusa della comunità gay.

Una rivoluzione tuttavia difficile da compiere finché continua a serpeggiare la paura, e i dubbi più fantasiosi hanno la meglio. Come la mettiamo se il mio partner salta una dose e, anche se i principi attivi degli antiretrovirali restano nel sangue per un pezzo, la sua carica virale s’impenna? Come la mettiamo se non m’ha detto la verità circa la viremia? Come la mettiamo se non conosce il proprio status?

Amici miei cari, il pericolo vero non è rappresentato dai sieropositivi che credono di avere la viremia non rilevabile e si sbagliano. È rappresentato da chi crede di essere sieronegativo e non lo è. Ma a noi piace concentrarci sulle mancanze della persona positiva conclamata perché, sapete, i sieropositivi mentono. E a noi sieropositivi piace saltare le dosi, perché vogliamo morire prima e nel frattempo cercare la prossima vittima.

Allora anch’io ho qualche domanda del tipo «come la mettiamo se?». Come la mettiamo se queste paure irrazionali servono solo a stigmatizzare le persone positive? Come la mettiamo se ho la viremia non rilevabile e non sento alcun bisogno di tirare in ballo il mio status con un partner occasionale, visto che non sono in vena di lezioncine scientifiche? Come la mettiamo se ciascuno di noi sceglie la strategia di prevenzione che gli va maggiormente a genio? Come la mettiamo se il mio stato sierologico non è affar vostro?

I rischi diminuirebbero, naturalmente, se ciascuno di noi proteggesse il proprio corpo quando fa sesso con uno sconosciuto o una persona di cui non si fida. Ma questa ipotesi caricherebbe di responsabilità anche i sieronegativi, ed è una gran scocciatura. Meglio lasciare tutto il fardello sulle spalle dei positivi, untori che non siamo altro. Considerateci dei criminali, dei bugiardi, gente che sputa sugli alimenti e non vede l’ora di attaccarvela.

Finché continueremo a lasciarci distrarre da ipotesi fantasiose, non riusciremo mai a comprendere le minacce reali. Le infezioni sessualmente trasmissibili sono in pieno rigoglio. La nostra comunità è piagata dall’alcolismo, dalle droghe, da malattie mentali. Vogliamo parlare di questioni scientifiche serie o preferiamo dissipare le energie in dibattiti scandalistici?

Se siete ancora così arroganti da credere di poter vincere la lotteria dell’hiv infettandovi in maniere che la scienza ha scartato da un pezzo, nessuno vi può privare di questo punto di vista. Ma consentitemi di darvi un paio di semplici consigli. Statevene alla larga dal computer e non toccate i cavi, perché in America 50 persone l’anno muoiono fulminate per via di dispositivi difettosi. Recatevi piano, molto piano in camera da letto, guardando dove mettete i piedi, perché gli incidenti domestici ammazzano 55 persone al giorno. E ora infilatevi tra le coltri della vostra testarda ignoranza e vedete di mettervi a vostro agio. Perché gli abitanti di Williamson vi guardano.

Mark

P.S. Il numero di persone infettate da una persona sieropositiva con carica virale non rilevabile durante la lettura di questo articolo è stato pari a: zero.

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.

di Mark S. King

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Con questo articolo inizia la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.

Mark S. King

Quando Donald Sterling insultò Magic Johnson dandogli del promiscuo e dell’indegno, l’accusa non suonò nuova a chi viveva con l’hiv. L’abbiamo sentita per anni. Ancora oggi molte di queste idee sbagliate persistono, addirittura – o forse soprattutto – tra i maschi omosessuali. Certi atteggiamenti possono ferire, stigmatizzare, pur nella loro assurdità. Cerchiamo allora di mettere i puntini sulle i stilando una lista di dieci cose che i maschi sieropositivi vorrebbero tanto far sapere ai maschi sieronegativi. Questa lista può non rispecchiare al cento per cento le opinioni di tutti i gay con hiv, ma include sicuramente molte delle loro frustrazioni.

1. Non tutti i maschi sieropositivi sono tossici con la fissa del bareback

È umano, forse, cercare di trovare la «falla» in coloro che s’infettano. Vederli come estremisti ci fa sentire per certi versi al sicuro. Eppure, la verità è che la maggioranza delle nuove infezioni si verifica all’interno di «relazioni primarie», come una storia fissa o una frequentazione abituale, spesso perché uno dei due non sa di essere infetto e finisce per trasmettere l’hiv al partner. Ecco perché ha senso insistere col test, e farlo regolarmente. Di solito le nuove infezioni non sono, statistiche alla mano, il risultato di una notte brava a un sex party imbottiti di crystal meth, né di un pomeriggio etilico in sauna. Certo, queste sono situazioni possibili, ma il concetto è che il sesso tra persone che si vogliono bene non è per forza più sicuro. Per l’hiv, una striscia di pelle nera o il fiocchetto di un regalo d’anniversario sono la stessa identica cosa.

2. Vivere con l’hiv non è un film ospedaliero dell’orrore

Sì, quando hai l’hiv vai regolarmente dal dottore e prima o poi prendi medicine. Ma non bisogna confondere una condizione cronica con una acuta, l’infezione con la malattia. Grazie all’ampia gamma di farmaci antiretrovirali, gli effetti collaterali sono stati ridotti di molto, e i nuovi ritrovati li ridurranno ulteriormente. I sieropositivi non piangono come fontane ogni mattina mentre trangugiano le pillole insieme al caffellatte. Devono prenderle ogni santo giorno, questo sì, magari a orari ben definiti e dopo aver consumato un pasto completo. È scocciante, ma non certo drammatico.

3. Un’infezione da hiv non ti trasforma automaticamente in un bugiardo patentato

Uno dei pregiudizi più penosi circa i maschi positivi è che mentono come se respirassero sul loro stato sierologico pur di scopare, magari con l’obiettivo di infettarti. Ce la facciamo a rimodulare questi cliché sulla trasmissione intenzionale, per cortesia? La verità è che i sieropositivi possono avere difficoltà a rivelare il proprio status… proprio per paura di discriminazioni derivanti da sciocchezze come questa. È ingiusto dare la colpa a tutti i positivi del comportamento criminoso di pochi.

4. «Sono pulito, devi esserlo anche tu»: una bella stronzata

Se in chat usi questa frase a mo’ di «filtro» per cercare nuovi scopamici, sappi che stai commettendo un grosso errore. Tanto per cominciare bisogna tenere a mente che i positivi con viremia non rilevabile non possono infettare nessuno, per cui rifiutare un partner per via dello stato sierologico rischia di essere una mossa puramente discriminatoria, e tutt’altro che pratica. Inoltre, etichettare chiunque come una merce difettosa o un frutto marcio è disgustoso (se ti è già capitato per un motivo o per l’altro, sai come ci si sente). Il «sono pulito» ti dà poi un senso illusorio di sicurezza, perché come dimostra uno studio britannico, il rischio di contrarre il virus è molto più elevato andando con qualcuno che crede di essere negativo e non lo è. Questo perché l’attività virale in una persona appena infettata, cioè in piena sieroconversione, può schizzare alle stelle senza che il diretto interessato lo sappia o possa impararlo a breve. Quindi, in ogni caso, evita mosse rischiose, metti le cose in chiaro, fa’ il test con lui oppure accertati che prenda le medicine e che sia «undetectable». E se senti il bisogno di chiedere subito lo stato sierologico al tuo partner, formula la domanda in maniera rispettosa («Il mio ultimo test è negativo. E il tuo?»). Chiedergli se è «pulito» o «senza malattie» ti fa fare la figura del cretino, soprattutto perché, quando si ha una vita sessuale, le infezioni sono tante e non si può mai sapere.

5. Sei l’unico responsabile della tua salute (comportamenti a rischio inclusi)

Dopo decenni di ricerca incentrata sulle persone con hiv, ora esistono trattamenti pensati anche per maschi sieronegativi e sessualmente attivi, come la PrEP (Pre-Exposure Prophylaxis, profilassi pre-esposizione – non ancora disponibile in Italia), uno strumento che consente di tenere sotto controllo i comportamenti a rischio. Sì, sono stati sollevati dei dubbi sulla tossicità del Truvada, la medicina che viene somministrata come PrEP, ma studi recenti hanno dimostrato come tali rimostranze fossero esagerate. Sei tu l’unico responsabile del tuo stato di salute, tutto dipende cioè dalle scelte che fai – che non hanno nulla a che vedere con lo stato sierologico del tuo partner, noto o ignoto che sia. Lo scaricabarile non ha mai giovato a nessuno, e a letto si è sempre tutti sulla stessa barca, che lo si voglia ammettere o meno.

6. I tipi con l’hiv non sono iperpromiscui… né hanno una vita sessuale schifosa… e non sono neppure delle monache di clausura

Ecco tre preconcetti ricorrenti… e falsi, se si prende come punto di riferimento la tipica vita sessuale di un maschio gay single. Abbiamo tutti i nostri momenti no. A volte il carnet di ballo è pieno, ci sono tempi di vacche magre e altre volte ancora il sesso che facciamo fa schifo. Proprio come chiunque altro, anche i sieropositivi sono sull’ottovolante e quando le cose girano per il verso giusto fanno un sesso grandioso, di quelli da urlo. Giudicare le persone in base a quanto scopano è un argomento vecchio e ritrito (spesso usato contro tutti i gay) del quale faremmo volentieri a meno. Tra l’altro, è un ulteriore esempio di come si tenti di prendere le distanze dai sieropositivi etichettandoli come diversi da noi. Non lo sono mica. C’è la suora così come c’è la troia. Del resto, per beccarsela basta una volta sola. E non diamo forse della troia a chiunque scopi più di noi?

7. Come la si è presa e da chi è una questione privata

I dettagli di un’infezione altrui non sono roba da soap opera o da novella esemplare, per quanto buone possano essere le tue intenzioni. Se una persona sieropositiva è in vena di confidenze, può anche sciorinarti la sua storiella, ma è probabile che per lui la questione sia chiusa da tempo e che comunque si tratti di una vicenda noiosa. Ha fatto sesso senza le dovute precauzioni e se l’è buscata. Ah, vuoi pure i dettagli? Ma una forchettata di cacchi tuoi?

8. Se hai bisogno di informarti sull’hiv, datti una mossa

Avere l’hiv non significa possedere anche un master in epidemiologia o una specializzazione in malattie infettive. Non tutti i sieropositivi sono esperti del virus, specialisti nel campo della prevenzione – o attivisti. Vivono con hiv, tutto qua. E se si trovano nell’incresciosa situazione di doverti fare la lezioncina sui fondamentali della prevenzione, non te la prendere se saranno loro a dire no grazie, preferisco non scopare. Niente ammoscia gli animi come il signor virus hiv. E gran parte dei sieropositivi non ha voglia di «convincerti» prima di andare a letto. Anzi, tra i loro contatti vi sono sicuramente persone più bone di te e con qualche nozione in più tra neurone e neurone.

9. Dici che le persone sieropositive non vivono a lungo? Ma per carità…

Secondo studi recenti, una persona che al giorno d’oggi riceve la diagnosi di hiv in tempo utile (prima cioè che l’infezione raggiunga uno stadio avanzato) ha la medesima aspettativa di vita di una persona «normale». C’è chi sostiene addirittura che questa aspettativa possa essere superiore alla media, in quanto i frequenti controlli medici consentono di individuare subito, e trattare, gli eventuali problemi. Inoltre, è probabile che le persone sieropositive stiano molto più attente al fumo, alle droghe o all’alcol, che mangino bene e facciano esercizio fisico, in modo da restare in salute e vivere a lungo. Molti positivi lo sono di nome e di fatto, vivono la vita con gioia e guardano al futuro. Che motivo hanno di deprimersi? Col progredire delle scoperte scientifiche – ma anche delle infezioni – il numero dei maschi sieropositivi nella società è in aumento. Tanto vale capirli, rispettarli e accettarli invece di impiccarsi a paure antiquate e sciocchi pregiudizi.

10. … E le sorprese non finiscono qui

Molte ricerche in corso sono destinate a migliorare ulteriormente la situazione, rendendo la vita più facile e meno rischiosa tanto per i sieropositivi quanto per i sieronegativi. Stanno testando dei microbicidi rettali (pomate e clisteri che uccidono il virus all’istante), la gamma dei medicinali per la PrEP si sta ampliando e potrebbe includere iniezioni capaci di proteggere dal virus per mesi, evitando così la scocciatura della pillola quotidiana. Anche i profilattici stanno subendo un restyling volto a migliorarne il design e la sensibilità. Nel giro di non molto tempo si potranno eliminare anche i rischi d’infezione più modesti, e i farmaci antiretrovirali diventeranno sempre meno tossici e ancora più efficaci. Si tratta di progressi importanti non solo in termini di statistiche e numeri: di questo passo possiamo davvero colmare quel «viral divide» che ha danneggiato la nostra comunità per decenni, e continua a farlo.

L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.

Traduzione di Simone Buttazzi.