Articoli

Anche alla conferenza di Glasgow è stato affrontato il tema dei farmaci iniettivi o non iniettivi a lunga durata. Sono stati presentati alcuni aggiornamenti per il trattamento in persone con viremia soppressa. In effetti ormai diversi studi a livello globale hanno dimostrato che per alcune persone assumere la terapia ogni giorno è un problema. Lo studio “Positive perspective 2” è stato uno dei più grandi studi a livello mondiale su HIV, che ha coinvolto oltre 2.300 persone con HIV maggiorenni, da 25 Paesi. Dallo studio è emerso che il 58% del campione maschera o nasconde l’assunzione della terapia per evitare di rivelare lo stato sierologico; il 58% ritiene che prendere le pillole ogni giorno sia un promemoria del proprio stato sierologico, il 33% si sente stressato o ansioso perché si deve ricordare di prendere le pillole.

Lo so, per qualcuna delle persone veterane della lotta contro HIV potrebbero sembrare sciocchezze, ma non lo sono. Anche chi vi scrive ha provato i long acting iniettivi proprio sulla scorta del pensiero che prendere la pillola tutti i giorni mi ricorda l’HIV. Non sarà una cosa vitale, ma se ci fosse la possibilità di ovviare al problema, perché no?
Poi sono tornato alla terapia orale a causa di un effetto collaterale per me fastidioso, anche se non importante.

Anche io, come la relatrice, penso che cabotegravir+rilpivirina possa aiutare, e lo pensano anche le principali linee guida internazionali che fra il 2020 (IAS) e il 2022 (DHHS) hanno definito i passaggi a questo regime che, come sicuramente ormai saprete, prevede 2 iniezioni ogni 2 mesi ossia 12 iniezioni intramuscolo all’anno (e non 6 come ha scritto la relatrice). Zeri i dubbi sull’efficacia del trattamento, tutti gli studi (Atlas, Carisel, Solar, Cares) hanno avuto risultati simili con efficacia tendenzialmente sopra il 90% con punte del 96% (Cares) e fallimenti virologi molto bassi, tendenzialmente sotto l’1%. Lo studio Cares ha attirato la mia attenzione perché ha arruolato per il 58% donne, si è tenuto in Uganda e Sud Africa, quindi in una situazione di endemia. Ovviamente il 99% erano donne nere, con una media di 8 anni di terapia e tutto con viremia <50. Come d’uso lo studio prevedeva un braccio con ART orale (257) e uno con long acting (255).

Nel braccio con LA solo 2 persone su 255 (0,8%) hanno avuto un fallimento virologico per cui un’alta efficacia e, dai PROs somministrati è emersa una elevata soddisfazione delle pazienti.

È stato presentato anche un piccolo ma interessante studio che ha arruolato 140 adolescenti fra i 12 e i 18 anni, con un peso di almeno 35 Kg, non c’è stato nessun fallimento virologico, la concentrazione del farmaco è risultata simile a quella degli adulti e tutti i 140 arruolati hanno espresso netta preferenza per gli iniettivi LA, rispetto all’assunzione quotidiana.

Inoltre, è stata presentata un’analisi multivariata che ha individuato dei fattori di rischio al basale in grado di predire un fallimento virologico come, per esempio, un alto BMI (indice di massa corporea).
Viene perfino presentato uno studio inglese sulla distribuzione dei LA iniettivi in clinica e presso i centri di comunità (LANA).
Lo stesso tipo di studio che abbiamo cercato di effettuare anche noi di Plus ma che ViiV Italia, con vari espedienti, ha messo nelle condizioni di chiudere prima ancora che partisse, dimostrando poca lungimiranza sugli problemi logistico-organizzativi che gli ospedali affrontano come possono e che i centri community-based sicuramente avrebbero risolto diversamente con felicità dei pazienti e di chi avrebbe potuto incrementare il business, mentre ora piange miseria verosimilmente per aver sovrastimato le potenziali vendite del farmaco LA. I dati raccolti indicano chela distribuzione in un setting di comunità è fattibile, accettabile e appropriata per il 44-47% dei partecipanti. In altre parole avremmo potuto dare una mano ad alleggerire il super lavoro dei centri clinici.

Quindi? Tutto ok? Ovviamente no, occorre proseguire su questa strada perché c’è spazio di miglioramento, per esempio:
• Una agevole autosomministrazione a casa
• Ridurre il numero di iniezioni
• Maggiori indicazioni sui pazienti con viremia (barriera genetica più alta).

In effetti quanto sopra è stato studiato su pazienti undetectable. Che succede a chi ha la viremia >50? Ne ha parlato la relatrice Monica Gandhi della UCSF che ha iniziato analizzando quali sono le sfide relative all’aderenza terapeutica (si perché nelle conferenze sono ancora tutti convinti che i long acting vengono dati a chi è poco aderente, non come da noi che vengono dati solo a chi è super aderente, nel senso che arriva puntuale alla visita) e perché alcuni pazienti vanno incontro al fallimento virologico. Ovviamente le terapie funzionano se assunte e pure correttamente, tutte, anche la ART.
Dunque quali sono i fattori che espongono al rischio di fallimento virologico?
• Dimenticare di prendere le pillole
• Essere lontano da casa
• Cambiamenti nella routine quotidiana
• Depressione
• Abuso di alcol/sostanze
• Stigma
• Sentirsi male
• Lontananza dalla clinica
• Scorte esaurite
Ma possiamo aggiungere barriere strutturali come la non fissa dimora o instabilità abitativa, la povertà, l’accesso ai trasporti. Sta di fatto che ogni 100 persone diagnosticate nel 2022 negli USA, solo il 65% è ancora undetectable.

A livello mondiale, il 79% degli adulti resta soppresso a 1 anno, dato che scende al 65% a tre anni. Nei bambini/adolescenti in ART, il 36% di soppressi dopo 1 anno, 24% a 3 anni (HAN, Lancet HIV 2021).
A questo si aggiungono i dati di UNAIDS del 2024 che non sono buoni e portano a chiedersi se gli obiettivi per il 2030 siano realistici:
• 39,9 milioni di persone con HIV, la Russia non comprare nel dato per cui verosimilmente sono oltre 40 milioni
• 1,3 milioni di nuove diagnosi lo scorso anno, lo stesso numero del 2022
• 630.000 morti lo scorso anno, stesso dato del 2022
• 43,3 milioni i morti dall’inizio dell’epidemia e 88,4 milioni di infezioni
• Solo il 77% è in ART, il 72% undetectable
Stigma, incremento del sentimento anti-LGBTQ, perdita dell’8% nei finanziamenti dal 2020-23 giocano un ruolo.


In questo quadro i Long Acting potrebbero dare una mano con l’aderenza e sarebbero una sfida anche in altri campi come il trattamento delle patologie psichiatriche (il trattamento antipsicotico nei pazienti con schizofrenia), nella contraccezione (contraccezione long acting… altra cosa che in Italia la vedrei facile) o il naltrexone long acting per la dipendenza dall’alcol.
Chissà, magari fare rete per un obiettivo comune è chiedere molto mi rendo conto.
Tornando ai long acting per HIV, ormai ci sono dati consolidati sulla efficacia, tutti gli studi confermano valori molto bassi di fallimento virologico ma pressoché tutti rimandano che quei pochi sviluppano resistenze. Per fare un esempio, lo studio ATLAS riporta che su 522 pazienti, alla settimana 152 “solo” 12, il 2,3% ha fallito la terapia, ma di questi 11 hanno sviluppato resistenze al farmaco.
Invece il famoso lenacapavir di Gilead è stato valutato nello studio CAPELLA per quanto riguarda efficacia e sicurezza. Si tratta sempre di LA iniettivo sottocutaneo in paziente viremici, multi trattati, con numerose resistenze… come dire, nella disperazione proviamo anche quello nuovo. I dati non sono definitivi (settimana 104) ma sembra che il farmaco se la stia cavando bene anche in presenza di mutazioni.

Si è parlato dello studio ARTISTRY-1 che mette insieme bictegravir e lenacapavir in pillole su persone con viremia >50 che sembra stia funzionando, anche se è ancora presto per dirlo con certezza, ma che da un senso all’ipotesi di una combinazione di lenacapavir e cabotegravir… figuriamoci! Sono farmaci di 2 imprese strenuamente concorrenti, riusciranno mai a trovare un equilibrio per il bene dei pazienti?

Tuttavia la cosa intriga, la dott.ssa Gandhi di cui sopra, ma messo insieme questa “case series” di pazienti che usano una combinazione di lenacapavir e cabotegravir long acting e, naturalmente, ne ha fatto una pubblicazione con l’idea di stimolare la nascita di uno studio con particolare riguardo a chi ha una resistenza agli NNRTI. Speriamo bene anzi a dire il vero qualcosa si sta muovendo perché la Gandhi ha annunciato che lo studio ACTG A5431 sui due long acting sia stato finalmente approvato. Ovviamente è solo un piccolo studio su 38 persone che devono essere

• viremiche
• resistenti agli NNRTI
• con problemi di aderenza con la ART orale.

La speranza è che lo studio ACTG apra le porte a un grande trial.
Chiudo citando che anche le pillole stanno reagendo allo strapotere dei LA iniettivi. Sta arrivano la pillola da una volta a settimana con islatravir e lenacapavir per ora in pazienti undetectable, siamo ancora alla fase di studio sull’efficacia e la sicurezza ma sembra che si stia comportando bene.

Sandro Mattioli
Plus aps

No, non è che nella città scozzese c’è più HIV (sicuramente ci sono bovini pelosi), si tratta della conferenza sui farmaci che si tiene a Glasgow ogni 2 anni (sic).

Non è esattamente il luogo più centrale al mondo, fra andare e tornare perderò 4 aerei. Tuttavia è una conferenza internazionale importante e vale sempre la pena di andarci.
Non la frequentavo da prima del Covid, ma devo dire che il centro congressi a forma di armadillo non ha perso il suo fascino.

Come cerco sempre di fare, sono arrivato in tempo per l’inaugurazione ufficiale. Di solito è una plenaria dove, oltre ai saluti istituzionali, con gli interventi scientifici si delineano le linee di indirizzo della conferenza, in pratica ciò che viene ritenuto centrale. Quest’anno l’inaugurazione si è concentrata non già su questo o quel farmaco, ma su qualcosa che limita l’efficacia dei farmaci e lascia spazi di azione a HIV: la discriminazione. Strano vero? Una conferenza scientifica che lascia lo spazio principale a una cosa che passa sotto il microscopio.

Ma andiamo per gradi. La prima cosa che ho fatto, subito dopo la registrazione (senza la quale le guardie non ti fanno entrare) è stato appendere il nostro poster (e fare subito un selfie). E’ curioso come a Icar questo piccolo studio sia entrato per il rotto della cuffia, invece in questa conferenza globale sia stato accettato senza problemi… mah… Lo studio ha cercato di capire il parere delle PLWH in terapia con i long acting iniettivi. Sarà interessante riprendere lo stesso studio fra un paio d’anni quando, verosimilmente, ci saranno più persone che usano quel trattamento.
Numerose imprese stanno disinvestendo su HIV per cui anche in questa conferenza si nota un clima di maggiore povertà rispetto al passato, tuttavia i partecipanti sono oltre 2.300 da 93 Paesi, il 79% di persona, 191 scholarship (fra cui la mia), 388 abstract accettati. I focus della conferenza sono molteplici e vanno dalle sfide sociali come lo stigma, alla ricerca scientifica di avanguardia e le applicazioni cliniche, alle responsabilità sociali come l’etica nella ricerca.

C’è anche una breve relazione via remoto sulla situazione relativa all’Mpox… si quello su cui il Ministero non sembra aver interesse e localmente c’è chi scarica la “colpa” sui pazienti. Come ricorderete lo scorso agosto l’OMS ha dichiarato lo stato di emergenza su questo virus che, per ora, sembra concentrarsi soprattutto sul Congo, ma si sta rapidamente diffondendo nei Paesi limitrofi. Circa il 50% delle persone contagiate è HIV+. Casi sono stati individuati in Nigeria, Uganda perfino Kenya. Nonostante in Italia qualche imbecille di twitter scriva che è in Africa chi se ne frega, è proprio li (dove ci sono 13.000 casi confermati) che va bloccato e benissimo ha fatto l’OMS che, con la sua dichiarazione, implicitamente dice che le epidemie vanno bloccate prima che arrivino in Occidente e che le persone che muoiono grazie a questo nuovo sottotipo sono persone e hanno valore tanto quanto un europeo.

In merito allo stigma, la relazione più interessante riguarda lo studio condotto da ECDC su HIV-related stigma and discrimination in the healthcare setting in Europe and Central Asia (ancora non mi è chiaro perché per la sanità mondiale l’asia centrale viene associata all’Europa, ma è così).

Spesso ci lamentiamo di commenti o atteggiamenti poco professionali dei nostri sanitari, ma vi farà piacere sapere che siamo in linea con il resto d’Europa… mal comune doppia sfiga si potrebbe dire.

Incominciamo col dire che in Europa vivono con HIV 2,3 milioni di persone, di cui 1,4 in Russia e Europa Orientale dove, com’è noto, ci sono solo casi fra eterosessuali perché gli omosessuali o non ci sono o sono perseguitati. Già mi vedo la faccina felice di HIV, libero di agire grazie all’ottusa ignoranza ideologica di 4 governanti.
Lo studio è andato a misurare lo stigma sia nella community che fra i sanitari.

Le domande sono quelle a cui abbiamo risposte diverse volte anche in Italia. Dal 22 al 30% dei rispondenti non hanno detto a nessuno (familiari, amici, partner sessuali) di essere HIV+. Il 45% dichiara di aver subito stigma dai sanitari e il 68% ha rinunciato a dei trattamenti per timore di essere discriminato.

Fra i sanitari la situazione è ancora più incredibile. La commissione che ha analizzato i risultati, era composta da professionisti sanitari e attivisti PLWH. Due terzi dei rispondenti sono donne, quasi il 50% medici, il 20% infermieri, più altre professioni sanitarie. Le domande sulla conoscenza di HIV si sono concentrate su U=U, PEP e PrEP con risultati interessanti. Il 48% non ha nessuna o bassa familiarità con i temi. Il 38% ha conoscenze non corrette di U=U, il 44% su PEP e ben il 59%su PrEP. Ma se esaminiamo le conoscenze corrette fra medici, vediamo che il 69% sa di cosa parla su U=U, il dato va al 67% su PEP e crolla al 49% su PrEP (che è studiata da oltre 10 anni). Le altre professioni sanitarie mediamente vanno peggio. In Europa Occidentale, area a cui per ECDC appartiene anche l’Italia per motivi misteriosi, la situazione è leggermente migliore fra i medici: 72% di conoscenze corrette su U=U, 63% su PEP, 54% su PrEP. Un po’ meglio ma sono comunque valori scandalosamente bassi e in questo credo che aver tenuto per decenni HIV chiuso a chiave nei sancta sanctorum dei reparti di malattie infettive sia stata una scelta tutt’altro che lungimirante.

Ma non finisce qua: c’è ancora un alto livello di timore, 53%, nel trattare pazienti con HIV, e se il 70% degli studenti ha paura (non posso fare a meno di chiedermi cosa viene loro insegnato), il 49% degli infermieri hanno timore nel prendere sangue o trattare ferite: il 26% ritiene giusto indossare 2 guanti. Siamo al ridicolo sia professionalmente che scientificamente. Ma non è tutto! C’è ancora personale sanitario che preferisce non trattare pazienti trans (15%), sex worker (15%), MSM (14%), IDU (25%) a prescindere dallo stato sierologico. Fra le ragioni che motivano queste posizioni ci sono ovviamente la mancanza di formazione, ma c’è chi crede che tali gruppi di popolazione siano pericolosi per la salute del sanitario.

Le conclusioni sono abbastanza ovvie:

  1. È evidente che le PLWHIV temono di essere trattate in modo diverso nei centri clinici. Come risultato tendono ad evitare i servizi sanitari;
  2. C’è un gap di conoscenza fra gli operatori sanitari su U=U, PEP e PrEP
  3. Più è basso il livello di conoscenza più è alto il timore nel trattare le PLHIV e si alza il bisogno di precauzioni eccessive quanto inutili;
  4. Una percentuale notevole di operatori sanitari preferisce non fornire assistenza sanitaria alle popolazioni chiave, soprattutto IDU.

Si tratta di uno studio molto importante perché ci fornisce dati su cui basare le nostre strategie per combattere la discriminazione e l’ignoranza che la supporta.

Sandro Mattioli
Plus aps

Stefano Pieralli è scomparso l’anno scorso a soli 57 anni, di cui oltre 40 dedicati all’attivismo LGBT e sieropositivo. È stato uno dei sette fondatori di Plus, di cui è stato vicepresidente e membro del Direttivo pressoché sempre, fin dall’inizio. È stato lo “zoccolo duro” di Plus e ha contribuito a costruirne l’impostazione politica, è stato una figura cruciale non solo nella storia di Plus ma nella lotta alla HIV e alla sierofobia in Italia. Intitolargli la sede nazionale di Plus non è che un riconoscimento minimo per una persona che ha dedicato la sua vita all’attivismo, contribuendo a creare condizioni di vita migliori per centinaia di persone LGBT che vivono con HIV o sierocoinvolte.

Stefano ha dato a Plus un’impostazione politica tesa all’equidistanza dai partiti, preferendo il colloquio istituzionale al rischio di lasciare che questo o quel partito mettesse il cappello sul nostro lavoro. Ci ha insegnato ad avere una serie di attenzioni verso il mondo della politica, da un lato vitale per il sostegno al nostro lavoro e dall’altro spesso poco interessato alla prevenzione. Ci ha insegnato a guardare oltre le parole anche nel mondo delle associazioni, ed è stato proprio grazie a queste osservazioni che abbiamo deciso di fondare Plus in risposta alle carenze dell’associazionismo LGBT nella lotta all’HIV e nell’investimento di fondi nella salute queer.

Il 16 aprile, ad un anno dalla sua morte, Plus ha deciso quindi di ricordare Stefano Pieralli e di intitolare a Stefano la sede in via San Carlo 42/C, un luogo che lui stesso ha contribuito a costruire e che negli anni ha accolto migliaia di persone.

È stato emozionante vedere presenti le istituzioni, l’associazionismo bolognese e tanta gente che ha conosciuto Stefano e ne ha apprezzato il valore. Altrettanto emozionante ripercorrere la storia e la figura di Stefano, l’impegno per Plus fortemente voluta da Stefano proprio perché era giunto il momento di scuotere la comunità LGBT che da troppo tempo non si occupava più del tema, pur a fronte delle alte percentuali di nuove diagnosi fra gli MSM (maschi che fanno sesso con maschi). Oltre alla necessità di invertire il trend delle nuove diagnosi, Plus nasce, come ci spiega Pieralli nella breve intervista che abbiamo mostrato durante la cerimonia, Plus viene creata per intervenire contro lo stigma sociale, anche interno alla comunità LGBT, nonché sul tema della qualità della vita delle persone sieropositive che oggi, grazie alle terapie, hanno un’aspettativa di vita simile a quella della popolazione generale ed è, pertanto, necessario affrontare il tema della qualità della vita, gli aspetti relazionali e sociali, il lavoro, ecc. per tacere della necessità di rompere una serie di pregiudizi sulla trasmissione dell’infezione, sulla possibilità di avere relazioni con le persone sieropositive. In sintesi, un’azione culturale forte, sia all’interno della comunità LGBT che all’esterno di essa.

Azioni oggi più che mai necessarie e rese possibili grazie all’incredibile avanzamento scientifico che ha portato a un consistente allungamento dell’aspettativa di vita delle persone con HIV.

Tuttavia deve essere chiaro che questo non vuol dire che il problema HIV si può considerare risolto, se non addirittura superato, come sentiamo spesso dire anche da alcuni attivisti. Tutt’altro.

Noi non abbiamo un vaccino preventivo e siamo ben lontani dall’ottenere una cura contro HIV.

Pertanto il virus ad oggi rimane nel nostro corpo e continua a fare il suo lavoro anche se non rilevabile. Non tutti sanno che, sul piano patogenetico, il percorso di HIV prevede due tipi di azioni. Una, la più nota, è la distruzione progressiva del sistema immunitario che ci rende vulnerabili agli attacchi di altri agenti patogeni, crea danni d’organo e agevola la formazione di neoplasia; su questo abbiamo potuto porre un freno grazie ai farmaci sempre più potenti e ben tollerati.

L’altra, meno nota, consiste nell’attivazione del sistema immunitario che, a sua volta, attiva un processo infiammatorio generale e tendenzialmente cronico. Un’azione che avviene anche in caso di viremia non rilevabile. HIV è in sé un elemento di disturbo per l’organismo e il perdurare dello stato infiammatorio, nel tempo porta egualmente a danni d’organo, rischio cardiovascolare, disturbi cognitivi, formazione di neoplasie.

Quello dell’attivazione immunitaria è un tema rispetto al quale siamo ancora sostanzialmente disarmati. È appunto questa azione pluriennale di HIV che ha aiutato la formazione del cancro che ci ha portato via Stefano, così come altri esponenti di Plus, attivisti e tante persone sieropositive.

Quindi no! HIV non è affatto risolto anche se, sicuramente, abbiamo reso più difficile la sua azione tanto è vero che oggi possiamo vivere bene molti anni, invece dei pochi mesi di aspettativa di vita di 30 anni fa. Tuttavia, il problema sia risolto, dobbiamo continuare a svolgere un’opera di pressione politica e sociale affinché la politica investa, la ricerca trovi finalmente il bandolo della matassa, la società sia più attenta e cessi di discriminare le persone che vivono con HIV.

Sandro Mattioli
Plus aps
Presidente

Da Bari giunge la notizia di una sentenza storica. Una persona con HIV, è stata assolta dal tribunale perché “il fatto non sussiste” in quanto l’accusato era in trattamento efficace e, quindi, non in grado di contagiare nessuno.

L’uomo era stato denunciato per tentate lesioni gravissime dalla partner occasionale per un rapporto sessuale avvenuto nel 2018. Il Giudice ha deciso di tenere conto delle deposizioni dei tecnici che hanno spiegato alla corte il tema della non contagiosità in caso di carica virale non rilevabile.

“Come attivisti di Plus siamo molto felici di questa sentenza che, finalmente, prende atto dei risultati della ricerca scientifica”, dichiara Sandro Mattioli Presidente di Plus aps.

Già nel 2015 gli attivisti di Plus portarono all’attenzione della società civile il tema della non contagiosità delle persone con HIV con carica virale non rilevabile, anche attraverso la campagna “Positivo ma non infettivo”, che fede scalpore. Come sempre si trattava di una posizione che si basava sugli studi già effettuati sul tema (HPTN052 e PARTNER). Studi che, in seguito, vennero ampliati e portarono alla dichiarazione ufficiale rilasciata durante la conferenza mondiale AIDS di Amsterdam nel 2018 a sostegno dell’equazione U=U – acronimo inglese che sta per “non rilevabile = non trasmissibile”.
Con buona pace delle paure irrazionali, dell’ignoranza, dell’ipocondria o peggio – continua Sandro Mattioli questa sentenza rende giustizia a 40 anni di stigma subiti da chi vive con HIV”.

La forza con cui le associazioni di pazienti e di lotta contro HIV hanno sostenuto U=U, a partire dalla campagna Impossibile sbagliare, ha prodotto un primo risultato storico.


COMUNICATO STAMPA

In merito all’articolo pubblicato venerdì 8 dicembre 2023 su corriere.it/salute, “Sifilide, casi in aumento in Italia e nel mondo. Come proteggersi e curarla” firmato da Elena Meli, ci preme portare alcune considerazioni critiche ed elementi di discussione.

In Italia e nel mondo le diverse infezioni sessualmente trasmissibili (IST) sono in aumento da diversi anni. L’OMS ha pubblicato, nel 2022, un documento strategico che fissa gli obiettivi globali per contrastare le IST al fine di ridurre entro il 2030 le infezioni di sifilide e gonorrea del 90%. L’OMS chiede a tal fine che sia garantito alle popolazioni chiave l’accesso ad un’ampia gamma di servizi per il controllo delle IST e dell’HIV, e propone un’attenzione agli interventi ad alto impatto nella integrazione dei servizi per le IST e l’HIV, all’approccio mirato ai bisogni, alle caratteristiche dell’epidemia “locale” e delle differenti popolazioni, e infine ai modelli integrati, sostenibili e innovativi, anche dal punto di vista tecnologico, che possano massimizzare l’impatto degli interventi. Inoltre rimuovere le barriere all’accesso dei servizi per le IST, dalla prevenzione alla cura, è un punto centrale di tutta la strategia. I test per le IST, incluso l’HIV, sono fondamentali, quindi, per un efficace controllo della diffusione di queste infezioni.

Nel contrasto contro l’HIV, OMS indica la PrEP, ovvero la Profilassi pre Esposizione da HIV, come strumento fondamentale per raggiungere gli obiettivi del 2030. La PrEP è un farmaco o una combinazione di farmaci anti-HIV, assunti giornalmente o a cavallo del rapporto a rischio, che protegge dall’HIV impedendo la trasmissione dell’infezione. Ma la PrEP è anche un importante alleato per contrastare le altre IST: infatti, la somministrazione del farmaco viene di norma accompagnata da un programma di monitoraggio e controllo delle IST, favorendo quindi una diagnosi precoce delle stesse, spesso nella fase asintomatica. L’emergenza delle diagnosi “sommerse” di IST nei programmi PrEP consente, attraverso il trattamento precoce delle stesse, di ridurre nel medio periodo la trasmissione e quindi l’incidenza di nuove infezioni. L’articolo purtroppo ignora del tutto questa importante possibilità, menzionando solo il preservativo, strumento che rimane fondamentale, ma che, in una visione scientifica moderna, va integrato con i nuovi sistemi farmacologici di prevenzione, in particolare la PrEP. Un concetto pragmatico e flessibile di prevenzione, che anteponga il principio della riduzione del danno, in una visione non ideologica della salute.

Concetto che è ormai patrimonio delle Istituzioni. La PrEP è da tempo nel Piano Nazionale AIDS del Ministero della Salute e da quest’anno, per effetto di una Determina AIFA del maggio u.s., è anche gratuita in Italia. Tutto questo rappresenta un’occasione per rafforzare e implementare questo importante strumento di prevenzione, soprattutto per quelle popolazioni più fragili e marginalizzate (key population), maggiormente esposte al rischio di contrarre l’infezione da HIV e altre IST. L’OMS, oltre a sostenere una strategia integrata IST e HIV, per facilitare gli accessi ai test e screening, che deve necessariamente comprendere la PrEP, raccomanda le esperienze all’esterno dei contesti sanitari, attraverso l’implementazione di servizi Community Based presso associazioni, “checkpoint” o le iniziative di testing rapido in outreach, unità di strada, etc. Queste attività risultano efficaci, in particolare per raggiungere popolazioni chiave per HIV e IST.

Purtroppo, anche questa possibilità non viene citata nell’articolo. Nell’intervista, invece, l’aumento delle IST viene correlato solamente con il chemsex e i rapporti omosessuali, riproponendo il concetto di persona a rischio invece che il concetto più corretto e non stigmatizzante di comportamento a rischio, e alimentando la confusione tra comportamenti e preferenze sessuali. Quelle proposte nell’articolo ci sembrano argomentazioni riduttive, che alimentano uno stigma diretto a popolazioni specifiche, come purtroppo è accaduto in passato con l’HIV negli anni della crisi dell’AIDS. Le cause sono molto più complesse, ed è la stessa OMS ad indicarcele, così anche come riportato in documenti internazionali e italiani. Tra le cause possiamo sicuramente citare la mancanza di informazione e di promozione del benessere sessuale, legata ad una scarsità di servizi specifici, che risultino semplici nell’accesso e gratuiti per i diversi tipi di popolazione per favorire e garantire un accesso universale alla salute. Più in generale quello che manca è una visione ampia e più serena della salute sessuale, che inserisca il tema della IST in modo meno stigmatizzante, avvicinando le persone ai luoghi di cura e prevenzione.

Andrea Antinori, Infettivologo, Istituto Spallanzani, Roma

Daniele Calzavara, segretario Milano Check Point

Mario Colamarino, Presidente CCO “Mario Mieli” – APS

Filippo Leserri, Presidente PLUS Roma

Sandro Mattioli, Presidente PLUS APS

#HIVisible – 2gether, Giornata Mondiale AIDS 2020

LA STORIA DELL’HIV LA RACCONTANO I NOSTRI CORPI

1° dicembre #HIVISIBLE

Nella giornata mondiale per la Lotta all’AIDS, PLUS aps, PLUS Roma e Conigli Bianchi rilanciano l’appello di Paula Lovely, altrimenti conosciuta come Paolo Gorgoni, a tutte le persone che vivono con HIV: oltre alla mascherina, quest’anno mettiamoci la faccia, rendiamoci collettivamente #HIVISIBLE, attraverso un flashmob.

In un momento di crisi sanitaria ed economica globale senza precedenti come quello che stiamo vivendo, le persone che vivono con HIV non possono permettersi di restare invisibili. Per chiedere la continuità dei servizi sanitari, rispondere allo stigma quotidiano e diffondere sieroconsapevolezza, le singole storie non bastano, oggi serve la visibilità di una intera comunità.

Se vivi con HIV e credi che ogni coming out possa ispirarne altri, questo 1° dicembre scendi in piazza con noi. Contribuisci a dare vita a una presa di coscienza transnazionale e a ricordare al mondo che le persone sieropositive esistono. Noi esistiamo. Esistono i nostri corpi fieropositivi, i nostri bisogni, i nostri desideri, la nostra bellezza e la nostra potenza.

Se avevi già pensato di parlare della tua sieropositività e non l’hai ancora fatto, questa potrebbe essere l’occasione giusta. Per partecipare al flashmob serve soltanto:

– vivere con HIV
– tessuto rosso
– mascherine e distanziamento

Scrivi a info@plus-aps.it per aderire a #HIVISIBLE.

Se sei una persona sierocoinvolta ma non positiva, puoi supportare #HIVISIBLE in moltissimi modi:

– con foto e video in diretta dalla piazza (#HIVISIBLE)
– coinvolgendo amici/amiche e alleati/alleate
– aiutandoci a diffondere la comunicazione sui social
– amplificando la voce troppo spesso silenziata delle persone sieropositive.

– – – – – – – – – – – –

Plus aps, Persone LGBT+ sieropositive, nasce con l’intento di far sì che le persone LGBT+ sieropositive siano tutelate sia come persone LGBT+ che come persone sieropositive, in un contesto in cui la formazione e l’informazione scientifica viene promossa e portata avanti in un clima paritario, da professionisti, operatori e volontari che condividono lo stesso background sociale ed esperienziale degli utenti. 

Conigli Bianchi: un gruppo di attivist*, performers, fumettist*, illustratori e illustratrici, cantanti, attori e attrici che hanno deciso di unire le forze per aprire un discorso pubblico sul tema più misconosciuto del pianeta.
“Sogniamo di fare una rivoluzione parlando di sangue ma senza spargerlo. Vogliamo rompere il silenzio che circonda HIV, divulgare informazioni aggiornate e combattere lo stigma che circonda le persone che vivono con HIV.”

Paula Lovely (@Paula_Lovely_Gorgeous) è una dragtivista che lotta per restituire centralità ai corpi sieropositivi. Dal 2018 ha ideato un percorso politico e performativo di autodeterminazione e racconto di sé che definisce “una PornoRivoluzione Fieropositiva”. Crede che i movimenti di liberazione nati da creazioni individuali possano crescere, esprimersi e guadagnare di senso solo quando si trasformano e ramificano, solo quando permettono ad altrettante voci e racconti di venire alla luce.

# HIVISIBLE è l’occasione di performare 2gether. Non si tratta di un atto solitario, ma dell’evoluzione in senso collettivo di un lavoro preesistente. L’episodio zero, +Gl0ry+, è un atto sacrificale in cui un corpo drag e sieropositivo viene ri-sessualizzato in una performance che mescola le formule cattoliche dell’eucaristia all’utilizzo di un Gl0ry h0le. L’episodio 1, b1oom, racconta invece di una trasformazione irreversibile: al decimo anno dalla diagnosi di HIV, passando per il dolore fisico dell’ago, col sangue innocente in vista, b1oom rappresenta la scelta di fiorire.2gether, l’episodio 2, è la celebrazione della gloria e della forza che risultano dall’unione.

Firme:

Altre associazioni, gruppi, collettivi

Arcigay Ferrara, Gli Occhiali D’Oro
A.S.A. onlus
B-Side Pride
BogaSport
Cassero LGBTI+ Center
Coming-Aut LGBTI+ Community Center Aps
Gruppo Trans aps
IAM – Intersectionalities And More
IDA – Iniziativa Donne AIDS
Komos – Coro LGBT Bologna
Laboratorio Smaschieramenti
La MALA Education, collettivo
LILA Bologna
MIT, Movimento Identità Transessuale
NPS Italia onlus
Omphalos LGBTI, Perugia
Red Bologna aps
Rete Genitori Rainbow

Singole:

Vanni Piccolo
Cesare Di Feliciantonio, Manchester Metropolitan University
Massimo Cernuschi, ASA Milano
Daniele Calzavara, Milano Checkpoint
Margherita Errico, Nps Check Point Napoli
Fabio Gamberini
Rita Masina, Infermiera Policlinico S. Orsola-Malpighi
Natale Schettini, medico
Giovanni Guaraldi, medico
Marco Canova, medico
Filippo von Schloesser, Nadir
Giorgio Barbareschi, EATG, LILA Piemonte
Rosaria Iardino, Fondazione The Bridge
Sara Iuculano, studentessa
Francesco Lepore, giornalista

È successo di nuovo. Avevo appena parlato a una conferenza e una attivista trans*, che peraltro stimo molto, ha sentito l’esigenza di ridirlo…
«Ricordiamo a tutti che l’Hiv non riguarda le categorie di persone, ma i comportamenti. Non vorrei che su questo argomento si tornasse a parlare di categorie a rischio…».

Io di ghiaccio.

Cosa c’è di sbagliato in quello che ha detto? Tecnicamente assolutamente nulla. È innegabilmente vero che l’Hiv lo prendi se ti capita di fare sesso senza protezioni con una persona che ce l’ha e non si sta curando (perché ricordiamo se uno è in terapia efficace non lo può trasmettere). Qualunque sia il tuo genere e il genere del tuo partner, indipendentemente dal fatto se ti definisci gay, etero, bisessuale o marziano.

Ma vogliamo farla una riflessione su cosa nasconde l’inattaccabile precisazione della nostra amica attivista? Innanzitutto, c’è un problema “storico” o “politico”, vedete voi: forti di questa sacrosanta puntualizzazione, moltissime organizzazioni LGBT italiane ma anche europee (e credo anche al di fuori del Vecchio continente) hanno pensato bene di smettere di occuparsi di HIV, perché “non è una cosa che riguarda solamente noi, se ne occupino le istituzioni che devono curare la salute pubblica di tutte e tutti”.

Bene. Le istituzioni, ovviamente, hanno adottato lo stesso presupposto: “non dobbiamo presentare l’HIV come un problema dei gay, ma parlare alla popolazione generale”. E così, giù con campagne dal messaggio quanto più vago e “ampio” possibile, con l’ovvio risultato che un messaggio vero, sintetico, efficace non è arrivato a nessuno. Chi se lo ricorda Raul Bova che avvolge il fiocco rosso intorno a persone ignude di tutte le tipologie? Forse solo qualche fan sfegatato (gay, ovviamente…). E se anche vi ricordate dell’avvenente attore, vi ricordate cosa comunicasse quella campagna? Sono pronto a giurare di no.

Oggi, ulteriore ennesimo episodio. Siamo al 1° dicembre e la stampa – vivaddio – decide di parlare di HIV (oddio, spesso vogliono parlare di AIDS, ma vaglielo a spiegare che non sono la stessa cosa…). Vengo contattato da una giornalista del Tg1 per una intervista, un minuto per parlare di come mi sono contagiato, cosa si può fare per fermare l’epidemia. E che ci vuole? Vabbè, acconsento. Aspetto la telefonata di conferma che puntualmente arriva: «Scusa Giulio – mi spiega la scrupolosa e gentilissima collega – ma il direttore mi ha chiesto di trovare una donna. Sai, è anche un modo per far passare il messaggio che l’Aids [sic] non è solo… [momento di imbarazzo] qualcosa che sta in un certo gruppo di persone [froci, dillo, siamo froci!], ma anche le donne si infettano sempre di più».

Ora, io sono felice che si parli di Hiv tra le donne: è doveroso. E non mi interessa nemmeno precisare che le nuove diagnosi di infezione tra le donne sono stabili dal 2010 e non in aumento (a meno che non parliamo delle donne straniere…). L’Hiv tra le donne è sicuramente un argomento trascurato, quindi ben venga che se ne parli!

Però mi viene in mente un dubbio: non è che stiamo “censurando” ciò che accade tra i gay? Forse è solo la mia impressione, ma mi sembra che gli unici a parlare di Hiv tra i gay siano – alcune – associazioni gay. Ovviamente facendo la tara di quella innominabile trasmissione spazzatura che va in onda la domenica e il martedì in prima serata un canale Mediaset e che si diverte a buttare in pasto agli affamati leoni della tastiera gli “untori”(mai conosciuto uno) o la coppia gay sierodiscordante tanto bella perché usano ancora il preservativo (anche se il partner sieropositivo è undetectable e quindi NON PUÒ trasmettere l’Hiv manco con l’aiuto di tutti i santi del Digitale Terrestre, ma questo è ovvio che l’infotainment da discarica non lo dice!). O altre amene avventure pseudo-giornalistiche di questo tipo.

Io non ricordo un Tg1 con un ospite gay che parli della sua vita con Hiv. Non ricordo nessun intervento nella tv cosiddetta generalista che spieghi ai giovani gay quanto sono a rischio di contrarre il virus. Mai. Mi sbaglierò, so di avere una pessima memoria.

Eppure… Eppure, caspita se ce ne sarebbe bisogno! Non me ne vogliate ma qui parte il pippotto epidemiologico. Andiamo a vedere i dati appena pubblicati dall’Istituto superiore di sanità e aggiornati – a meno di quei casi che le regioni non hanno ancora segnalato al centro operativo Aids e che saranno aggiunti da qui a qualche mese – al dicembre 2017. Lo scorso anno sono state segnalate 3.443 nuove diagnosi di infezione da Hiv. Di queste, 2.249 riguardano cittadini italiani. Il problema rappresentato da quelle 1.181 segnalazioni relative a cittadini stranieri è enorme e va affrontato anche quello! Ma io voglio un secondo concentrarmi sugli italiani (pare vada di moda, ultimamente…). Quasi metà di quelle diagnosi (1.061 per l’esattezza) è avvenuta in seguito a rapporti sessuali tra maschi. Sono invece 543 le nuove diagnosi registrate tra i maschi etero e 273 quelle tra le donne.

Questi i numeri assoluti. Ma facciamo una riflessione sulla proporzione di maschi gay che ogni anno si trovano scritto “positivo” sul foglietto del test Hiv? Noi non sappiamo quanti ce ne siano in Italia, di maschi gay. Non è mai stato fatto un censimento o uno studio grande in proposito. Possiamo solo fare stime molto, molto, molto grossolane. Quindi mi perdoneranno gli epidemiologi – che tanto sono sicuro non perdono tempo a leggere questo articolo – ma farò una roba “un tanto al chilo”. Secondo il Censimento del 2012, dei quasi 60 milioni di italiani sono maschi 28.750.000 circa. Se ci limitiamo a quelli che avevano più di 18 anni arriviamo a 22.200.000 circa. Ora, lo sappiamo tutti che forse sono molti di più ma basiamoci sulle statistiche generali e diciamo che anche in Italia un maschio su 20 ha avuto almeno una volta nella vita un rapporto sessuale con un altro maschio: quindi ci sarebbero 1.110.000 italiani di sesso maschile che possiamo definire “gay” (molti dei quali se lo sapessero mi riempirebbero di botte, probabilmente). Se dividiamo il numero di nuove diagnosi tra i maschi gay (1.061) per il numero di maschi gay stimato (1.110.000) otteniamo che quasi un maschio gay su 1.000 ogni anno ha una diagnosi di Hiv. Proviamo a fare la stessa operazione per i maschi etero? Risultato: uno su 38.000. E le donne etero? Siamo quasi a una su 90.000. Per carità, conti grossolani, che più grossolani non si può: ma ci vogliamo rendere conto che l’ordine di grandezza che ne viene fuori è comunque agghiacciante? C’è o non c’è un problema grosso quanto una casa tra i maschi gay rispetto all’Hiv?

Potremmo anche citare l’ottima analisi prodotta dai massimi scienziati mondiali e pubblicata nel 2012 sulla prestigiosa rivista The Lancet (a dire il vero, la più prestigiosa al mondo…) e ricordare che il fatto che l’Hiv sia così diffuso nella comunità gay rappresenta di per sé un rischio, perché è chiaramente molto più facile per un uomo omosessuale incrociare tra i suoi amanti qualcuno con Hiv e con carica virale rilevabile in grado di trasmettergli l’infezione rispetto a quello che accade per gli etero. Non solo: i gay sono gli unici che possono avere sia il ruolo attivo che passivo (vabbè, gli scienziati direbbero insertivo e ricettivo, ma ci siamo capiti), cosa che rende più facile la trasmissione tra chi mi passa l’Hiv e quello a cui lo passo io. Se a questo aggiungiamo il fatto che nel rapporto anale (che però pare anche gli etero possano consumare) è molto più facile la trasmissione di Hiv, abbiamo completato il terzetto di vulnerabilità che rendono gli uomini gay più a rischio di diventare sieropositivi.

Un’ultima riflessione personale: credo sarebbe sbagliato pensare che il gruppo dei maschi gay sia chiuso e che quindi tutto questo “Hiv” che circola là dentro resti lì. Mi risulta che ci siano anche maschi che fanno sesso sia con i maschi che con le donne. Persone che potrebbero – ovviamente sempre involontariamente, non voglio certo colpevolizzare nessuno – contrarre l’Hiv dove è più facile trovarlo, cioè tra i maschi, e trasmetterlo alle donne. Questo solo per dire che intervenire per fermare l’Hiv tra i gay credo che vada a vantaggio anche degli etero e della diffusione generale dell’infezione.

In conclusione, non sto richiamando attenzione sull’Hiv tra i gay per puro narcisismo frocio – dal quale pure potrei non essere esente – né voglio negare l’importanza enorme che hanno anche altre situazioni, come la questione della salute sessuale delle persone straniere o delle donne. Mi viene però il sospetto che qualcuno possa credere che non ci sia più bisogno di parlare dell’Hiv tra i gay. A quel qualcuno vorrei dire che credo proprio che ce ne sia un gran bisogno. Quel “qualcuno” forse non lo sa, ma sta ponendo una censura pericolosa (e, credo, non esente da un odioso moralismo) su un tema che riguarda la salute dei cittadini e di tutte le persone, gay certo ma anche di altri orientamenti sessuali. E davvero l’ultima cosa di cui l’Hiv ha bisogno è di altre censure.

Giulio Maria Corbelli
Plus Onlus

World Aids Day 2018: Plus pone l’accento sulla TasP

In occasione del 1 dicembre, giornata mondiale della lotta all’Aids, Plus Onlus ribadisce con una campagna la centralità della TasP, acronimo inglese che sta per trattamento come prevenzione. Una persona sieropositiva in terapia efficace non è in grado di trasmettere il virus. La TasP è una delle colonne della prevenzione dell’Hiv insieme al preservativo, alla PrEP (profilassi pre-esposizione) e alla PEP (profilassi post-esposizione). Strategie che posso essere integrate e sono di sicura efficacia.

È dal 2015, dalla campagna Positivo ma non infettivo, che Plus Onlus pone l’accento sulla non contagiosità delle persone che vivono con Hiv e hanno la carica virale non rilevabile (undetectable). Questa affermazione è suffragata dai risultati di 10 anni di studi, dalla Swiss Declaration allo studio Partner. Dopo la conferenza mondiale di Amsterdam del luglio 2018 e la presentazione dei risultati dello studio Partner2, la validità della TasP è più che mai confermata. Lo dicono 77.000 rapporti sessuali penetrativi senza preservativo tra partner sierodiscordanti (uno negativo, uno positivo undetectable) e zero contagi. A livello internazionale, il messaggio della TasP è stato riassunto nella formula U=U (undetectable = untransmittable).

Questa non è solo una buona notizia in termini di prevenzione, ma dovrebbe anche mettere la parola fine allo stigma nei confronti delle persone sieropositive diagnosticate, che nella stragrande maggioranza dei casi raggiungono in breve tempo lo status undetectable.

Dovrebbe, ma purtroppo non è sempre così. A Plus sono infatti arrivate segnalazioni da utenti che si sono rivolti a ospedali di Livorno, Brescia e Grosseto, i cui medici hanno negato la formula U=U generando paure irrazionali. Un atteggiamento spesso fomentato da articoli giornalistici irresponsabili. In occasione di questo 1 dicembre Plus invita ufficialmente Simit, nonché l’Ordine dei giornalisti, a organizzare eventi di aggiornamento per i propri iscritti affinché questi incidenti non si ripetano più. La TasP è una misura efficace contro la diffusione di Hiv, e le persone sieropositive che raggiungono lo status undetectable sono fiere di svolgere un ruolo chiave nella battaglia contro il virus.

 

 

 

 

 

Il 30 gennaio 2008 gli esperti della Commissione federale svizzera per l’Aids affermarono per la prima volta che una persona sieropositiva in terapia efficace non può trasmettere il virus. Questo il nocciolo della cosiddetta “dichiarazione svizzera” a firma EKAF (Eidgenössische Kommission für Aids-Fragen der Schweiz), rinominata nel 2012 EKSG, Commissione confederale svizzera per la salute sessuale.

Il gruppo di studiosi capeggiato da Pietro Vernazza (nella foto) pubblicò una serie di dati, non corposissima, a sostegno di questa tesi poi confermata da ampi studi successivi. Che il raggiungimento dello status di “undetectable”, con la viremia stabilmente non rilevabile sotto le 50 copie per millilitro cubo di sangue, fosse sinonimo di non contagiosità era ormai una speculazione frequente in ambito infettivologico. A partire dal 1996 l’introduzione della classe degli inibitori della proteasi aveva condotto a un nuovo standard terapeutico, con tre principi attivi: la cosiddetta HAART, highly active antiretroviral therapy, oggi semplicemente ART. Stiamo parlando della terapia efficace che ha salvato e continua a salvare decine di milioni di vite, garantendo livelli di salute e di qualità di vita del tutto paragonabili a quelli delle persone sieronegative. Come funziona questa terapia? Semplice: abbatte la quantità di virus nel corpo e lo tiene in scacco, impedendo la replicazione.

La dichiarazione svizzera rappresentò un primo, portentoso lancio del cuore oltre l’ostacolo. Presentandosi come un “parere di esperto” che passava in rassegna più di 25 piccoli studi (su coppie sierodiscordanti in gran parte eterosessuali, o donne sieropositive incinte), lo statement fu un’affermazione clamorosa per l’epoca, autentico spartiacque non solo scientifico ma anche sociale. Contiene infatti il nocciolo della principale strategia antistigma tesa a cambiare il volto della sieropositività.

Gli esperti svizzeri individuarono tre punti in presenza dei quali era ragionevole dire che una persona sieropositiva non fosse in grado di trasmettere il virus: l’aderenza a una terapia antiretrovirale efficace, una viremia non rilevabile da almeno sei mesi e l’assenza di ulteriori infezioni sessualmente trasmissibili capaci di “dare una mano” ad Hiv. Col passare del tempo il terzo punto, inserito a mo’ di clausola precauzionale, è stato di fatto depennato dai risultati dello studio PARTNER. Tradotto: una persona sieropositiva trattata che contrae la gonorrea può trasmettere la gonorrea, ma non l’Hiv.

campagna del Terrence Higgins Trust

Sono passati esattamente dieci anni dalla dichiarazione svizzera. Venti dalla prima coorte di donne incinte sottoposte a terapia triplice (coorte di San Francisco, Beckerman K. et al.). Sette dalla pubblicazione dei dati dello studio HPTN 052, il primo a indagare la correttezza delle affermazioni di Vernazza e colleghi. Due da quelli, straordinari pur nella loro parzialità, dello studio PARTNER che ha seguito 548 coppie sierodiscordanti eterosessuali, 340 omosessuali, ha registrato 58.000 rapporti penetrativi senza profilattico e rilevato zero trasmissioni. Sono questi gli “hard facts” della TasP, il trattamento come prevenzione, una colonna del nuovo approccio combinato contro l’Hiv insieme al condom e alla PrEP.

Undetectable (con viremia non rilevabile) = Untransmittable = Uninfectious

Gli studi proseguono, e sappiamo bene che zero trasmissioni non significano, in termini rigorosamente scientifici, zero possibilità di trasmissione. In campo scientifico non esiste un bianco e nero manicheo. Ma a fronte di dati così ampi e omogenei è necessario condensare un messaggio pragmatico da lanciare alla popolazione, e questo messaggio è che nella vita reale una persona sieropositiva stabilmente in terapia non trasmette il virus. Plus è stata una delle prime associazioni a ideare una campagna centrata su questo tema: Positivo ma non infettivo risale al giugno 2015. Sul finire del 2017 anche la Lila, con Noi possiamo, ha trasformato in uno slogan il messaggio liberatorio della TasP. A livello globale, il 2016 ha segnato l’avvio della campagna U=U (undetectable = untransmittable) sottoscritta da centinaia di associazioni e da 34 Paesi.

Plus al Pride bolognese del 2015. Foto di Maurizio Cecconi.

Purtroppo, come sottolinea un sondaggio ministeriale condotto in Germania nel 2017, il 90% della popolazione resta all’oscuro di questa informazione fondamentale. Chissà quale sia la percentuale nel nostro Paese… La difficoltà di comunicare senza intoppi un messaggio in apparenza contraddittorio (che una persona con un’infezione sessualmente trasmissibile non possa trasmetterla in alcun modo, a cominciare dal sesso) non deve scoraggiarci. Dalla nostra abbiamo i dati, la scienza, una certezza che nessuna opinione può mettere in dubbio. E abbiamo soprattutto l’energia di chi vuole mettere la parola fine a cliché vecchi di decenni. A cominciare da quelli che circolano tuttora nella nostra comunità.

Come ha detto Bruce Richman, fondatore della campagna U=U, la sopravvalutazione del “pericolo” rappresentato da chi vive con Hiv equivale a un atto di violenza nei nostri confronti. Un atto di violenza oggi inaccettabile nella sua gratuità. La nostra risposta è serena, e basata sui fatti.

Dieci anni or sono, il 30 gennaio 2008, la Commissione svizzera diramò un messaggio coraggioso, rivelatosi giusto: una persona sieropositiva in terapia efficace non può, ripeto non può, trasmettere il virus dell’Hiv.

Simone Buttazzi
Plus Onlus

Con riferimento al documento politico del Bologna Pride, l’associazione Plus Onlus precisa quanto segue:

Il BLQ Checkpoint, gestito da Plus Onlus, è una struttura community-based che lavora in rete con la sanità pubblica in termini di sussidiarietà orizzontale, per quanto ancora non compiuta al 100%.
In tema di sanità pubblica, la Regione ha avuto il coraggio di evolvere verso una modalità nuova di intervento e ha saputo riconoscere le competenze che la comunità esprime, consentendo un notevole ampliamento dell’accesso ai test per HIV e altre infezioni a trasmissione sessuale.

Plus Onlus si augura un rapido sviluppo del BLQ Checkpoint nell’ottica della sussidiarietà orizzontale. Plus sottolinea come i servizi offerti non potrebbero avere lo stesso impatto se somministrati da strutture pubbliche e non community-based: l’operato del BLQ Checkpoint è quindi da considerarsi un servizio di pubblica utilità.

Plus Onlus è da sempre attenta a considerare nuovi modelli di intervento nell’ambito degli aspetti sociali della salute, valutandoli in base al rapporto costo-efficacia nell’interesse esclusivo della comunità LGBTQI e della cittadinanza nel suo complesso.

Sandro Mattioli
Plus Onlus
Presidente