Il presidente di Plus onlus Sandro Mattioli denuncia con fermezza lo stato in cui versa l’ambulatorio malattie infettive dell’ospedale Maggiore.
Un mese fa, Mattioli ha inviato alle istituzioni competenti – senza ricevere risposta – la lettera che trovate in coda al presente comunicato. A questo silenzio, Plus risponde con una richiesta chiara e forte: l’apertura di un confronto pubblico per comprendere la natura delle scelte che impattano sul setting sanitario. Scelte che andrebbero valutate insieme alle persone direttamente coinvolte e alle associazioni di pazienti.
Un ambulatorio malattie infettive, a maggior ragione in una città metropolitana, dovrebbe erogare servizi di eccellenza e fungere da safe space per i pazienti. A Bologna non è così. L’atmosfera opprimente e un’organizzazione sorda ai bisogni dell’utenza rendono le visite e il ritiro dei farmaci un’esperienza spiacevole e oltretutto frequente, che costringe i pazienti a presentarsi in ospedale a cadenza mensile.
Ce lo spiega Mattioli: “Al Maggiore i pazienti fanno il prelievo periodico e anche un esame delle urine. Ossia devo fare pipì in un bicchiere e poi metterla in una provetta. C’è un solo bagno in tutto il corridoio, il che allunga i tempi. Poi bisogna tornare ad attendere davanti all’ambulatorio, consegnare la provetta, presentarsi alla farmacista, chiedere all’OSS l’appuntamento per la prossima visita e all’infermiera la giustificazione per il lavoro”.
Non solo. “I pazienti hiv+ attendono in corridoio insieme a quelli degli altri ambulatori specialistici, provando un senso di imbarazzo dovuto allo stigma sociale. È legittimo aspettarsi una migliore gestione da parte dell’Azienda Ospedaliera. Noi, come associazione di pazienti, abbiamo delle proposte concrete”.
Ci sono oltretutto dei problemi strutturali. “L’ambulatorio del Maggiore, come tutti quelli gestiti dagli infettivologi del Sant’Orsola, dà un mese di terapia alla volta, costringendo i lavoratori a prendere 12 permessi l’anno solo per il ritiro dei farmaci, senza contare quelli per i prelievi e le visite. Ciliegina sulla torta: ai pazienti non è permesso essere seguiti sempre dallo stesso dottore, cosa assurda visto che l’infezione da hiv non è più un’urgenza medica ma una condizione cronica che richiede un rapporto continuativo con chi aggiorna la cartella clinica”.
Plus chiede a gran voce soluzioni convincenti per una situazione che toglie dignità alle persone sieropositive in cura a Bologna.
Plenaria di mercoledì 20, procede liscia fino alla seconda presentazione, di Anton Pozniak, sulla drammatica situazione relativa all’epidemia di TB che non accenna ad arrestare la sua marcia, quando viene interrotta da una ragazza che si alza e inizia un canto, subito seguita da altre decine di ragazzi e ragazze, adolescenti con cartelli scritti a mano protestano e chiedono condom nelle loro scuole e la possibilità di andare a scuola. Emerge che la mancanza di assorbenti fa perdere alle ragazze decine di giorni di scuola. Solo 5 minuti di interruzione che definiscono la disattenzione che il Paese pone in problemi facilmente risolvibili, il tutto alla presenza del ministro sudafricano per la salute che spero si sia vergognato. Ora capisco perché il Global Village è murato di condom, o perché alla conferenza di Città del Messico negli ultimi giorni gli attivisti africani facevano razzia di condom in tutti gli stand. Sulla relazione di Pozniak, molto interessante, per non sovrappormi a quanto scriverà Giulio, mi limito a segnalare la sua soluzione per la TB, così come per HIV, le co-infezioni e le co-morbidità: $90 $90 $90. 90 dollari all’anno per il trattamento di HIV; 90 dollari all’anno per trattare HBV; 90 dollari per 12 settimane di trattamento di HCV. Ossia il costo dei trattamenti non deve più essere un tema, una denuncia fortissima in un continente che sopravvive pressoché solo grazie alle donazioni. Chiaramente Pozniak ha ripreso gli obiettivi che si è data UNAids per porre fine all’epidemia di HIV: 90% delle persone HIV+ a conoscenza del loro stato, 90% delle persone con HIV in trattamento, 90% delle persone con HIV in trattamento efficace (soppressione virale raggiunta), il tutto entro il 2020… un obiettivo da nulla!
Vaccino, a che punto siamo? Non voglio rischiare di sovrappormi a Giulio perché si è trattato di una presentazione con molti dati scientifici, per cui mi limito a dire che era un po’ che non assistevo a una presentazione tesa a fare il punto strano della situazione sui vaccini. Noto che le mie sensazioni a riguardo non sono cambiate: un mix di depressione per i piccoli passi avanti e i clamorosi passi indietro che sono stati fatti fin qui, ma anche di speranza e esaltazione per il lavoro che c’è da fare e le possibilità che si stanno aprendo. Purtroppo i risultati, anche solo per gli studi in corso, sono previsti nel 2020. Da li, forse, sarà possibile fare ragionamenti di più alto tenore. Come già ha scritto Giulio, le conferenze mondiali Aids, diversamente da altre un po’ più scientifiche, hanno lo scopo di mettere insieme comunità di pazienti e medici\ricercatori per unire gli sforzi e tentare di vincere HIV. Spesso, quindi, le plenarie si trasformano in momenti di denuncia e/o di riscatto di situazioni drammatiche rispetto alle quali ben poco può la scienza. Molto potrebbe la politica che, come spesso avviene, è la vera assente di queste conferenze. E’ il caso dell’attivista gay HIV+ Michael Ighodaro. Vivere come gay in Nigeria, dove il tuo corpo, il tuo essere viene visto come un abominio e rischi la vita. Se sei gay sieropositivo e vivi in Nigeria, rischi la vita due volte. Il coraggio di un ragazzo che vive apertamente la propria condizione, che lavora
per una organizzazione che si occupa di MsM che vivono con HIV, lui che da giovane gay sieropositivo sta sferzando la conferenza dicendo basta a slogan vuoti, sta dicendo che è ora di fare qualcosa e sta anche dettando l’agenda, il cosa fare per avere davvero una generazione aids free: “io sono gay, sono nigeriano, sono un rifugiato a 22 anni. Il mio compagno è morto perché come gay non ha potuto avere accesso ai servizi. Se non potete darci altro che slogan vuoti, se non potete fare niente per risolvere queste situazioni, non avremo mai una generazione libera e senza hiv”. Ha dato una grande prova di coraggio, una grande prova di cosa vuol dire lottare come attivista, trovare il coraggio di denunciare una situazione insostenibile davanti a migliaia di persone, e ha definito una volta per tutte che la discriminazione e lo stigma aiutano la diffusione di HIV. La slide delle conclusioni di una presentazione precedente, chiudeva con il suggerimento “find a champion in your country, or be yourself one”. Michael il nigeriano ha preso alla lettera quella conclusione.
Il prof. Molina, il padre della Prep francese, ha iniziato la sua relazione sullo studio open label, una sorta di follow up del ipergay (il noto studio francese che ha acclarato l’efficacia della Prep), ma viene subito interrotto dall’ingresso di attivisti (sotto potete vedere alcuni momenti) che protestano per l’avidità delle case farmaceutiche; in particolare viene posto l’accento su Gilead, come potete vedere dai cartelli autoprodotti esposti, accusata di pensare solo al profitto e di essere troppo tiepida sul tema Prep (con Truvada). Non posso fare a meno di pensare che, al netto del pensiero pragmaticamente ovvio che le imprese farmaceutiche sono imprese, il loro obiettivo è fare soldi, in effetti Gilead sta dimostrando un disinteresse per la Prep con Truvada che a tratti trovo fastidioso. Sappiamo che Truvada è efficace, basterebbe poco per fare un “bel gesto” pur sapendo che il brevetto di Truvada è in scadenza, e fare la figura dei “buoni”. Cosa molto più utile, a mio avviso, di qualunque strategia commerciale, porterebbe maggior lustro a Gilead e, dunque, maggiori entrate.
Tornando al prof. Molina, come ho detto sopra, c’è poco da dire: lo studio open label ha ri-dimostrato l’efficacia sia del prodotto che della modalità di somministrazione (on demand). Ma ha anche evidenziato che le preoccupazioni dei soliti gufi si stanno dimostrando infondate. Le conclusioni di Molina non riportano significative variazioni nell’uso di condom, né un calo dell’aderenza al trattamento col passare del tempo. Viene confermato il dato del calo della paura di affrontare un rapporto sessuale con conseguente incremento del piacere per il rapporto in sé e non mi sembra un risultato irrilevante in termini di qualità della vita delle persone che vivono con HIV. Trova conferma dallo studio l’incremento delle IST, tema che secondo Molina deve essere affrontato. Non voglio in nessun modo sottovalutare il tema, penso che la possibilità di incremento delle infezioni a trasmissione sessuale ci dica come la PrEP vada erogata a un gruppo relativamente ristretto di persone ad alto rischio di contagio, come del resto previsto in tutti gli studi, previo counselling vero (non solo rapporto medico paziente) teso a comprendere a fondo le motivazioni di certe scelte e ad avere un supporto quanto meno prossimo alla relazione di aiuto. Come disse la signora Clinton alla conferenza di Washington “non c’è conferenza senza proteste”, oggi le sue parole hanno trovato conferma. Gli attivisti africani, forse perché hanno ancora il senso della vita che gli sfugge tra le mani, sono molto più attenti di noi e non ho avuto la sensazione che il gruppo degli MsM venga isolato\trascurato dalla comunità. Qui il tema del contagio incredibilmente altro fra i “Black MsM” è estremamente presente nelle attività che vedo al Global Village, con messaggi e campagne specificamente rivolti a loro. Non serve che dica che nulla di tutto ciò viene fatto in Italia dove la paura e l’ipocrisia la fanno da padrone.
Sandro Mattioli Plus Onlus Presidente
La partecipazione di Plus alla Conferenza Mondiale Aids 2016 a Durban, è stata resa possibile grazie a un contributo di ViiV Healthcare.
Paolo Gorgoni è un volontario di Plus, membro del direttivo dell’associazione. Come molti di noi è abituato a metterci la faccia e ad affrontare di petto i temi che ci stanno a cuore. Lo fa da persona omosessuale e sieropositiva.
Paolo vive a Lisbona, la stessa città dove nel 2009 è stato vittima di una vile aggressione a colpi di spranga. Nel verbale stilato dalla polizia lusitana non apparve la parola «omofobia».
Di recente, Paolo è stato bersagliato da parole gravissime. È cominciato tutto su facebook, all’interno di un gruppo per italiani a Lisbona. Dopo aver segnalato alla piattaforma un post dai contenuti inaccettabili, Paolo è stato espulso dal gruppo. Il post è rimasto.
Dopo questo antefatto, una sequela di offese e intimidazioni, pubbliche e in privato, ai danni del nostro volontario. Conoscenti iscritti al detto gruppo gli hanno inviato screenshot di conversazioni on line dove la sua immagine è stata messa accanto a corpi impiccati e immagini di tortura.
Paolo si è di nuovo rivolto alla polizia, che dopo aver minimizzato forse aprirà un’indagine. Amici di Paolo iscritti alla stessa università presso la quale lavorerebbe la persona che ha dato il via a questa catena di insulti hanno scritto al rettore denunciando l’accaduto. Paolo sarebbe stato infatti minacciato di morte da un ricercatore.
Plus si stringe compatta attorno al proprio volontario e chiede con forza la solidarietà di tutto il movimento LGBT+ italiano.
Siamo stanchi di leggere tra le righe di tanti episodi di violenza – fisica e psicologica – l’impressione che le persone gay siano sacrificabili, figlie di qualche oscura divinità minore. Siamo stanchi e incazzati. L’omofobia va fermata prima che si tramuti in lividi e ferite. Va disinnescata prima. Va estirpata. Paolo, e tutte le persone nel mirino di aggressioni omofobiche, non possono restare sole.
E’ la seconda volta che mi trovo davanti al termine “diseducativo” riferito a campagne che sostengono che le persone con HIV sono in primis persone e non un virus. Prima alcuni commenti da socie di un’altra associazione ospiti al BLQ Checkpoint per vedere un film, poco fa un censore che nel commentare una campagna geniale di UniLGBT, ci tiene a ricordare a tutti che il contagio da HIV è ancora un problema sociale. Ora, fermo restando che ovviamente è necessaria la prevenzione, corre l’obbligo spiegare che in Italia abbiamo punte elevatissime di persone sieropositive in terapia di successo, ossia con viremia non rilevabile o, se preferite, con un virus che, ancorché presente, non replica. Punte elevatissime di persone che ben difficilmente riuscirebbero a contagiare qualcuno anche volendo. Persone che, con encomiabile costanza, assumono i trattamenti quotidianamente e sono riuscite a cronicizzare l’infezione. Una infezione cronica è ben differente dalla malattia. C’è la stessa differenza che passa fra l’ipertensione controllata da un paio di pillole e un ictus. Ma molte persone preferiscono continuare a credere che HIV riguardi solo altri, che l’unica cosa che è possibile fare è discriminare e stigmatizzare continuamente la possibilità di contagio anche quando è oggettivamente e scientificamente pressoché impossibile. Purtroppo il cosiddetto movimento LGBT italiano se ne guarda bene dall’effettuare interventi a sostegno di lotta per uno stigma che non si inquadri nell’interessa della diva di turno e la nostra associazione spesso è sola a dare notizia di cose note ormai dal 2008, ma che in Italia faticano ad entrare nel patrimonio comune il quale, d’altra parte, è ancora per lo più fermo agli anni 90. Di davvero diseducativo in questo tristissimo e ignorante paese, c’è solo la poca voglia di conoscere e approfondire il tema, la tanta voglia di trovare un capro espiatorio (che non mi stupirei se portasse ad una criminalizzazione), di mettere la testa sotto la sabbia come fanno buona parte delle persone msm (maschi che fanno sesso con maschi). Un gruppo sociale che in Italia è caratterizzato da una incidenza molto preoccupante, così come lo è pressoché in tutto il continente ma, mentre altrove in Europa l’associazionismo LGBT si è fatto carico di azioni concrete tese a ridurre e ricomporre il problema dell’aumento delle nuove diagnosi, in Italia ha fatto di tutto per tenersi distinto dal problema, con una costanza invidiabile che ci ha portati ad avere numeri di contagio da terzo mondo. Certo, cari lettori, il contagio da HIV è ancora presente in Italia e buona parte di esso è causato dall’ignoranza, dalla presunzione, dalla testa sotto la sabbia, dalla discriminazione e dalla volontà, sempre più evidente, di isolare le persone sieropositive, di colpevolizzarle e possibilmente criminalizzarle, facendo ricadere su di esse e solo su di esse, la responsabilità di ciò che avviene. Beh, non ci avrete mai come ci volete, come vi immaginate. I sieropositivi oggi possono e devono ambire a condurre una vita normale, con una aspettativa di vita normale e non c’è imbecille con il suo veleno ignorante che possa impedirci di essere noi stessi. Buon Pride a tutte e a tutti.
Al Bologna Pride 2016 Plus mette al centro la salute. I volontari plussiani sfileranno orgogliosi come sempre, indossando una maglietta che recita Positivo, sano, libero.
L’anno scorso, la campagna ideata da Plus in occasione del Pride era centrata sulla non contagiosità delle persone sieropositive in terapia efficace: Positivo ma non infettivo. La prima campagna italiana a fare della TasP (il trattamento come prevenzione) una bandiera politica, un grimaldello antistigma.
Quest’anno gli aggettivi sono tre e oltre a “positivo”, alla constatazione serena del proprio stato sierologico, si parla di salute e libertà. Riappropriandosi in chiave non solo fiera, ma anche fattuale, di due ambiti considerati troppo spesso appannaggio esclusivo delle persone sieronegative.
Sei sano? – si legge spesso in chat. Vivere con hiv al giorno d’oggi significa molto spesso essere clinicamente sani, o potervi tranquillamente ambire. Così come i passi avanti della ricerca scientifica consentono a una persona sieropositiva di non trasmettere il virus, l’efficacia del trattamento permette di spezzare la concordanza tra infezione e malattia. La sporcizia e l’infermità appartengono solo al linguaggio di chi discrimina.
Un’infezione cronica non è sinonimo di malattia, anzi. E non è neppure sinonimo di schiavitù nei confronti di farmaci e ospedali. Lo spread tra la qualità della vita di una persona sieropositiva e una sieronegativa si è ormai ridotto ai minimi termini, come quello tra le due aspettative di vita.
Ed è come persone orgogliosamente positive, sane e libere che i volontari di Plus scendono in piazza il 25 giugno insieme all’intero movimento LGBTQI, a fianco delle associazioni con le quali è nata una sinergia speciale: Arcilesbica Bologna, Uni Lgbt, RED, Bugs, Boga sport.
HIVoices – Laboratorio residenziale su sieropositività e identità sessuale
rivolto a MSM che vivono con HIV. Giunta alla sua quinta edizione, HIVoices ha già visto la partecipazione di 84 uomini omo-bisessuali HIV+.
Essere omo/bisessuali con HIV è difficile, anche all’interno della realtà lgbtq: nei locali, nei luoghi di incontro sessuale, nelle associazioni, sui social network. “Perché se lo dico, poi non scopo più!”. “Perché se lo dico, poi mi trattano in modo diverso”. Dire (o non dire) di essere sieropositivo non è come dire di essere omo-bisessuale. Anzi, spesso, tutta la ‘fatica’ fatta nel coming out del proprio orientamento sessuale non torna utile nel processo di accettazione e comunicazione della propria sieropositività. La paura di essere accettati e visibili in quanto persona dotata di un orientamento sessuale altro che si somma alla paura di essere discriminato in quanto persona sieropositiva.
Ma attenzione: se, come, quando e a chi comunicare la propria sieropositività è una scelta individuale. C’è chi (al momento opportuno) lo dice a tutt* e ne fa una bandiera di visibilità; c’è chi invece non lo dice neppure alle persone più care; c’è chi è attivista lgbtq senza dichiarare la propria sieropositività; e c’è chi, essendo sieropositivo e facendo sesso con uomini, non accetta la propria omo-bisessualità, neppure arriva a chiamarla con questo nome.
Un ventaglio di possibilità molto ampie; una pluralità di voci differenti. È così che è nato HIVoices, un laboratorio originale ed atipico nel panorama lgbtq, nel quale i partecipanti possano sentirsi accolti, sia in quanto uomini-che-fanno-sesso-con-altri-uomini, sia in quanto sieropositivi.
HIVoices è un laboratorio intensivo, rivolto ESCLUSIVAMENTE a persone che vivono con HIV omosessuali, bisessualie MsM (maschi che fanno sesso con maschi), pensato NON per ‘convincere’ a fare coming out rispetto al proprio stato sierologico positivo, ma piuttosto come un’esperienza per poter vivere meglio e in maniera più consapevole la propria identità di persona omo/bisessuale che vive con HIV.
Non si tratta di terapia di gruppo. Non è un gruppo di auto-aiuto. Non è un gruppo gay di amanti della natura.
HIVoices è un percorso di sperimentazione nella relazione con sé e con l’Altro; un’occasione di crescita individuale nel gruppo-di-pari, per migliorare la propria autostima, accettazione e consapevolezza emotiva. Un luogo in cui ritrovarsi con persone differenti, ma simili; un tempo in cui non nascondere la propria identità di uomo sieropositivo dotato di un orientamento sessuale altro.
Il gruppo come potente cassa di risonanza, per meglio comprendere ciò che si sa, si fa e si sente – ovvero di ciò che si è.
Hivoicesè un percorso formativo costruito attorno al concetto di auto-apprendimento, attraverso metodologie di educazione non-formale. Un’occasione per acquisire strumenti per ‘inventare il propriobenessere‘ e valorizzare le proprie capacità individuali, in particolare nella piena affermazione di sé.
Abbiamo pensato ad una struttura residenziale, un luogo accogliente e ‘protetto’. Ai partecipanti offriamo quindi la certezza che la loro privacy sarà tutelata.
QUANDO: venerdì 17, sabato 18 e domenica 19 giugno 2016. DOVE: in una struttura attrezzata per gruppi residenziali sull’Appennino romagnolo. COSTO: 30 € a testa. SCADENZA ISCRIZIONI: è possibile iscriversi fino a domenica 4 giugno 2016. INFO ED ISCRIZIONI: info@plus-onlus.it
iniziativa realizzata con il supporto con condizionato di ViiV healthcare
HIVoices – Laboratorio residenziale su sieropositività e identità sessuale
rivolto a MSM che vivono con HIV
Essere omo/bisessuali con HIV è difficile, anche all’interno della realtà lgbtq: nei locali, nei luoghi di incontro sessuale, nelle associazioni, sui social network. “Perché se lo dico, poi non scopo più!”. “Perché se lo dico, poi mi trattano in modo diverso”. “Perché se lo dico, poi mi guardano come se fossi un untore”.
Dire o non dire di essere sieropositivo non è come dire di avere l’influenza. Dire o non dire di essere sieropositivo non è neppure come dire di essere omosessuale o bisessuale. Anzi, spesso, tutta la ‘fatica’ fatta nel coming out, il lungo percorso di negoziazione con sé e con gli altri rispetto al proprio orientamento sessuale, non torna utile nel processo di accettazione e comunicazione della propria sieropositività.
La paura di essere accettati e visibili in quanto persone dotate di un orientamento sessuale altro da una società a maggioranza eterosessuale, machista, sessista, che si somma alla paura di essere discriminati – dentro e fuori la comunità lgbtq – in quanto persone sieropositive.
Se, come, quando e a chi comunicare la propria sieropositività è una scelta individuale. C’è chi (al momento opportuno) lo dice a tutt* e ne fa una bandiera di visibilità; c’è chi invece non lo dice neppure alle persone più care; c’è chi è attivista lgbtq senza dichiarare la propria sieropositività; e c’è chi, essendo sieropositivo e facendo sesso con uomini, non accetta la propria omosessualità, neppure arriva a chiamarla con questo nome.
Un ventaglio di possibilità molto ampie; una pluralità di voci differenti. Per questo è nato HIVoices, un laboratorio originale ed atipico nel panorama lgbtq, nel quale i partecipanti possano sentirsi accolti, sia in quanto uomini-che-fanno-sesso-con-altri-uomini, sia in quanto sieropositivi.
HIVoices è un laboratorio intensivo, rivolto ESCLUSIVAMENTE a persone che vivono con HIV omosessuali, bisessuali e MsM (maschi che fanno sesso con maschi), pensato NON per ‘convincere’ a fare ‘coming out’ rispetto al proprio stato sierologico positivo, ma piuttosto come un’esperienza per poter vivere meglio e in maniera più consapevole la propria identità di persona omo/bisessuale che vive con HIV.
Non si tratta di terapia di gruppo. Non è un gruppo di auto-aiuto. Né tanto meno un gruppo gay di amanti della natura.
HIVoices è un percorso di sperimentazione nella relazione con sé e con l’Altro, sul rapporto fra identità sessuale e sieropositività; un’occasione di crescita individuale nel gruppo-di-pari, per migliorare la propria autostima, accettazione e consapevolezza emotiva. Un luogo in cui ritrovarsi con una pluralità di persone differenti, ma simili; un tempo in cui non nascondere la propria identità di uomo sieropositivo dotato di un orientamento sessuale altro.
Il gruppo come potente cassa di risonanza, per meglio comprendere ciò che si sa, si fa e si sente – ovvero di ciò che si è.
Abbiamo pensato ad una struttura residenziale, un luogo accogliente e ‘protetto’, tanto rispetto al ‘mondo eterosessuale’, quanto alla comunità lgbtq. Ai partecipanti offriamo quindi la certezza che la loro privacy sarà tutelata.
HIVoices è un percorso formativo costruito attorno al concetto di auto-apprendimento, attraverso attività strutturate e semi-strutturate secondo metodologie di educazione non-formale. Un’occasione per acquisire strumenti per ‘inventare il proprio benessere‘ e valorizzare le proprie capacità individuali, in particolare nella piena affermazione di sé.
Giunta alla sua quarta edizione, HIVoices ha già visto negli anni passati la partecipazione di 66 MSM HIV+.
QUANDO: venerdì 15, sabato 16 e domenica 17 aprile 2016. DOVE: in una struttura attrezzata per gruppi residenziali sull’Appennino bolognese. COSTO: 20 € a testa. SCADENZA ISCRIZIONI: è possibile iscriversi fino a domenica 10 aprile 2016. INFO ED ISCRIZIONI: info@plus-onlus.it
iniziativa realizzata con il supporto con condizionato di ViiV healthcare
E va bene provo a dire la mia sui diritti omosessuali, spinto dagli articoli apparsi sul quotidiano La Stampa e, soprattutto, dalla linea editoriale scelta dal quotidiano ossia quella di non scegliere. Tipica della stampa italiana che da tempo ha scelto di smettere di fare il proprio mestiere: fare cultura, far crescere la capacità della scatola cranica degli italiani infondendo il dubbio e la capacità critica. La Stampa ha posto un articolo di Emanuele Felice di fianco a quello di Franco Garelli. Uno pro e uno meno pro, per non dire contro. Linea editoriale in stile un colpo al cerchio e uno alla moglie ubriaca (cit.)
Emanuele Felice scrive un buon articolo, forse leggermente troppo di cuore, ma buono, dal titolo “Italia ultima sui diritti per colpa della politica”. Buono nel senso che descrive lo stato di fatto del nostro paese. Un luogo dove le persone omosessuali faticano a vivere e dal quale spesso emigrano. In effetti basta attraversale le Alpi e voilà: diritti e matrimoni si sprecano. Ma non è solo questo. “Qui a Madrid, l’aria che si respira è diversa…” ricordo ancora le parole testuali di uno dei miei tanti amici, omosessuali come me, che hanno abbandonato l’Italia (e non sempre per vivere in un Paese più ricco), stanchi di vivere e respirare discriminazione quotidiana in qualsivoglia ambiente: dallo sport alla politica, dalla religione alla scuola, alla cultura.
L’Italia è un paese che discrimina e al quale piace discriminare perché, diversamente, avrebbe messo mano alle leggi vigenti quando era il momento: 10-20 anni fa, quando anche le altre nazioni dell’Europa occidentale discutevano e legiferavano su temi come quelli di cui si discute oggi.
La tanto citata norma tedesca alla quale il nostro governo fa riferimento, è stata approvata, vado a memoria ma non credo di sbagliare, nel 2001. Pertanto, contrariamente a quanto sostiene Franco Garelli nel suo articolo su La Stampa, l’eventuale approvazione del ddl Cirinnà non ci toglierebbe affatto dalla scomoda posizione di fanalino di coda dell’Europa: raggiungeremmo solo la Germania, che non ha certo la legislazione più avanzata d’Europa, con 15 anni di ritardo.
Una norma che, ripeto, se approvata, consentirebbe a fatica solo un mezzo riconoscimento delle unioni omosessuali, inclusa la tanto discussa stepchild adoption che fa riferimento solo alla possibilità di adottare i figli del partner. Per chi non ha avuto figli da precedenti rapporti, l’adozione resta preclusa. Con buona pace della capacità di crescita, di sviluppo, di inserimento sociale della maggior parte delle coppie omosessuali italiane.
Capiamoci ragazze e ragazzi: è su questa roba qui che siamo chiamati ad animare le strade. Una norma che nasce vecchia di 15 anni e che, comunque, non rende giustizia a decenni di lotte del movimento italiano.
Una norma che, come scrive Felice, ricalca le volontà dei conservatori europei laddove il nostro Governo si dovrebbe richiamare a un ideale progressista. Ebbene così non è. Stiamo lottando per dare alla popolazione omosessuale un contentino discriminante, frutto di una politica di retroguardia e conservatrice.
Acclarato questo che cosa vogliamo fare? Accontentarci di queste quattro cazzate che ci elargiscono e ci vogliono far digerire come se fosse manna dal cielo?
Mi auguro proprio di no. È del tutto evidente che, non essendo noi Parlamento ma movimento, subiremo le decisioni dei cattolici in politica (qualcuno mi dovrà spiegare, prima o poi, perché per alcune persone devote la loro fede deve impegnare anche quella parte di popolazione che ne è priva), ma spero vivamente che il movimento LGBT italiano abbia un moto di orgoglio, una buona volta, e cessi di essere lo zerbino del partito di governo di turno (piuttosto che tutore di interessi personali), esiga pari diritti, esiga una reale uguaglianza che, in Italia, significa matrimonio egualitario (non unioni civili) e ampliamento della legge Mancino contro le discriminazioni di stampo omofobico.
A partire da questi punti si può iniziare a filtrare, facendo cultura nel quotidiano, l’aria fetida che respiriamo in Italia e forse perfino a far tornare qualche persona omosessuale emigrata dalla disperazione. Questo sì che sarebbe un bel primo passo, non un ddl vecchio e, sa solo il cielo quanto, massacrato dai conservatori comodamente seduti in aula a gestire le nostre vite personali sulla base della loro morale posticcia. Chi vi scrive quest’anno compie 53 anni.
53 anni di lotte, di manifestazioni per vie e piazze delle principali città italiane e straniere (sì, sono andato anche a Madrid quando Zapatero allargò il matrimonio alle coppie dello stesso sesso). Non ho nessuna intenzione di andare per strada per una cosa come il ddl Cirinnà, per la quale non ho mai lottato, che non ho mai chiesto, che è stata decisa altrove senza tener conto delle reali necessità della gente. Per citare il nostro socio fondatore Stefano Pieralli, alla mia età i piccoli passi li faccio verso la pensione. Alla mia età lotto per qualcosa in cui credo, che valga la pena, sicuramente non lotto per farmi discriminare, non lotto per compiacere gli interessi di pochi.
Ultima cosa: ha ragione chi scrive che siamo un’associazione di lotta contro HIV/AIDS. L’ho scritto più volte e ora lo ripeto: stigma e discriminazione sono strumenti atti alla diffusione di HIV, non è una mia opinione ma quanto è emerso alla Conferenza Mondiale Aids di Vienna (nella quale da Roma non venne nessuno, nonostante fosse a due passi). Non sfugge a chi scrive che in Italia la maggior parte delle nuove diagnosi, da 4 anni a questa parte, è triste appannaggio dei maschi che fanno sesso con maschi. Non è un caso quindi che Plus prenda una posizione ferma, forte – e pazienza se non condivisa dal delirio buonista del meglio poco che niente (che i miei amici argentini, altro paese cattolico dove è in vigore il matrimonio egualitario, definiscono consuelo de tontos, il contentino dei tonti!).
Sulla medesima linea d’onda, fattuale e non ideologica (né tanto meno moralistica) ci sembra necessario concludere questo «settembre antistigma» con alcune considerazioni stringenti.
A cominciare dal ruolo del preservativo, che resta imprescindibile ma va ricontestualizzato. Il condom è una sine qua non valida per tutti, negativi e positivi, poiché è l’unico scudo utile ad arginare le infezioni sessualmente trasmissibili, da quelle croniche a quelle passeggere che possono comunque fiaccare il sistema immunitario e agevolare l’hiv. Oltretutto, la legge italiana non ha ancora recepito lo status «undetectable» (la non contagiosità di chi ha la viremia non rilevabile) che riguarda l’80% delle persone sieropositive diagnosticate nel nostro Paese, e questo va sempre tenuto presente in caso di incontri «sierodiscordanti».
Poi ci sono altri dati di realtà, a cominciare dalle idiosincrasie che da sempre, hiv o non hiv, penalizzano l’uso del condom. Motivo per cui è ora di riconoscere lo status di safer sex anche ad altri strumenti, a cominciare dalla TasP, vale a dire la terapia come prevenzione, i cui effetti succitati in tema di viremia stanno trovando conferma grazie allo studio Partner.
È importante sottolineare come le condizioni di successo della TasP siano piuttosto severe (a tale proposito, date un’occhiata al vademecum Sesso Gay Positivo) e per stare sul sicuro, anche alla luce di altri infezioni come la sifilide e l’epatite C – sempre più presente tra gli MSM – si ritorna giocoforza al buon vecchio profilattico. D’altro canto, nella realtà dei fatti vi è uno scarto sostanziale tra adoperare uno strumento, per l’appunto, artigianale e poco amato, e ricorrere a una protezione 24/7 come quella offerta da una terapia in pillole.
Nel frattempo, per le persone sieropositive la battaglia continua giorno dopo giorno, ed è una battaglia soprattutto sociale e culturale. Sociale, perché l’hiv è un’infezione contagiosa che interessa quella sfera delicatissima dell’interazione umana che è il sesso. Culturale, perché se l’ambito medico resta opaco e inaccessibile ai più, il tema dello stigma è a portata di tutti. Ed è su questo tema che Plus ha deciso di focalizzarsi grazie agli articoli di Mark.
In cima alla lista c’è il disinnesco di un’immagine deflagrante, oltre che sbagliata: la persona sieropositiva contagiosa, disperata e inaffidabile. A ben vedere, il rischio reale di nuove infezioni riguarda in primis le persone in sieroconversione, cioè fresche di contagio e nella massima parte dei casi all’oscuro della cosa, e in seconda battuta quelle che non solo non lo sanno, ma non fanno nemmeno regolarmente il test. Una persona diagnosticata, al corrente del proprio stato sierologico e seguita da un medico, non è quasi mai un pericolo – e una volta entrata in terapia non lo è al cento per cento.
Persino le coinfezioni o le altre cause dei cosiddetti blip virali (l’improvviso aumento della viremia nelle persone in cura, o la differenza tra virus nel sangue e nello sperma) non escono dal recinto del rischio irrisorio e residuale, per quanto possano rappresentare un problema per la salute del diretto interessato.
Da questo punto di vista, il salto copernicano che va introdotto nella concezione stessa del profilattico è che il goldone serve ai positivi soprattutto per proteggersi, oltre che per proteggere. Proteggersi dalle infezioni che la terapia non targetizza e che rischiano di compromettere un sistema immunitario già ballerino.
L’altro salto riguarda le persone sieronegative e la loro percezione del rischio. Alla luce delle evidenze scientifiche bisogna saper distinguere il contatto dal contagio: hiv è uno dei tanti virus ormai entrati a far parte del nostro quotidiano, ma dalla vicinanza all’infezione il passo è bello lungo. Hiv si trasmette con notevole difficoltà. Comprenderne le dinamiche e accettarle senza cedere alle malie del rischio teorico significherebbe mettere la parola fine alla discriminazione delle persone sieropositive.
Ecco perché noi di Plus ne parliamo senza censure, nella speranza che questi argomenti diventino oggetto di discussione anche nel nostro Paese. Uno dei primi slogan della lotta all’aids fu silence = death, per evitare che l’elefante della pandemia restasse ignorato nel bel mezzo del salotto. Oggi di hiv non si muore quasi più (in Occidente, almeno), ma resta la gestione – anche sociale, interpersonale – di un’infezione cronica per la quale non s’intravede ancora una cura. Un’infezione spesso taciuta dalle persone colpite proprio per paura dello stigma – lo stesso stigma che si ciba dell’ignoranza diffusa e di vecchi stereotipi duri a morire. L’hiv non si vede, ma il silenzio la rafforza.
I tempi degli strali, dei decaloghi biblici e del politicamente corretto hanno mostrato la corda: è il momento di decisioni informate, prima di tutto in ambito sessuale, la cui responsabilità va condivisa in parti uguali tra tutti noi, positivi e negativi.
Non più «lungi da me», ma «so quel che faccio».
È questa la sfida che Plus lancia alla comunità lgbt italiana.
Simone Buttazzi
[l’immagine che apre l’articolo è una rielaborazione dell’ultima inquadratura, censurata, del film Porcile (1969) di Pasolini. Dietro alla maschera c’è un Ugo Tognazzi che ci ricorda come avere qualcosa da dire, e star zitti, sia una gran porcata]
Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi di queste quasi 20.000 battute che sì, ebbene sì, parlano proprio di un pornazzo. La prossima settimana Plus tirerà le fila di questo settembre antistigma lanciando una sfida alla comunità lgbt italiana.
Questo articolo è stato condiviso più di 15.000 volte dalla sua pubblicazione nel luglio del 2012. Alcuni lettori hanno reagito con rabbia, e l’aspetto bareback della vicenda ha suscitato commenti di ogni tipo (un utente ha accusato il regista Max Sohl di «crimini contro l’umanità»). In tutta franchezza, ho sempre pensato che la storia del film e il suo impatto sociologico fossero degne di approfondimento; ho apprezzato il candore delle persone coinvolte, così come trovo interessante l’approccio offerto dagli scienziati sociali e dai pezzi grossi dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention), che fungono da sfondo.
Il Folsom che si tiene tutti gli anni a San Francisco è famoso per l’abbraccio caloroso che riserva a ogni singola stella del nostro firmamento sessuale. Persino la comunità leather dura e pura, che l’ha fondato, rischia di sfigurare dinanzi allo sfoggio di abbigliamento fetish (o alla totale nudità) che serpeggia per le strade tortuose di Cisco.
Nell’autunno del 2003, nel bel mezzo di questi chiassosi baccanali, Paul Morris si trovava allo stand della Treasure Island Media (TIM), la casa di produzione pornografica da lui fondata e specializzata in sesso non protetto (bareback, per l’appunto). Un ingrediente, questo, destinato a garantirgli un successo senza precedenti.
Leggenda vuole che Lana Turner, bigiando una lezione, si sia appoggiata voluttuosamente al bancone di un negozio, dove venne notata da un giornalista. Nel nostro caso, un bel maschietto si fermò allo stand della Treasure. Quei video gli piacevano, tanto ma tanto, e sperava di poter documentare, prima o poi, qualche sua intima fantasia. Anche Jesse O’Toole, star della Treasure, era allo stand, e i due si fecero fotografare assieme. Guardando oggi lo scatto, si ha la netta impressione che il giovinastro col cappellino in pelle abbia ritrovato la sua tribù a lungo dispersa, mentre O’Toole ha l’aria di chi si trova a tavola, le posate strette in pugno, pronto a consumare un pranzo luculliano.
La foto venne spedita a Max Sohl, sporadico attore porno con un passato teatrale a cui Morris aveva dato l’incarico di girare un film. Sohl diede appuntamento all’aspirante modello e gli chiese di compilare un questionario con una sola domanda: Descrivi la scena dei tuoi sogni. Il giovane prese la penna e scrisse: «io che vengo inculato e inseminato da un branco di manzi». «Il Black Party era alle porte» raccontò poi Sohl in un’intervista riferendosi al week-end annuale dei leather men che si svolge a New York, a base di feste e orge «al che mi son detto ok, vediamo quanti ne può prendere».
Nacque così Dawson’s 20 Load Weekend (‘Dawson e il week-end delle venti dosi di sborra’).
Prima dell’aids, l’uso del preservativo nei porno gay era nullo – prima, per l’appunto, che i fluidi corporei diventassero sinonimi di malattia e morte. Per un decennio abbondante dopo l’inizio della pandemia, nei porno gay si son visti solo piselli ben avvolti nel lattice, ma le storie – attori compresi – sembravano intontite, ammorbate da un malessere drammaturgico, una specie di sonnambulismo sessuale: gli amplessi erano pura routine col sarcoma di Kaposi nascosto dietro le quinte. Quei video rispecchiavano la pressoché totale mancanza d’interesse nel rimorchiare il pizza boy di turno o nel buttarsi in un orgione con degli estranei, e molti consumatori tornarono a infilare nei VCR le vecchie videocassette pre-aids, bareback sì, ma «giustificate».
Quando le morti diminuirono bruscamente con l’introduzione delle nuove medicine nel 1996, la cultura dei maschi omosessuali si vendicò. Si registrò un trionfo di festini privati (destinati a soccombere sotto il peso dei loro stessi eccessi), i comportamenti ligi al safer sex si rilassarono e nell’aria si respirò un ardente desiderio di sfuggire agli orrori degli ultimi quindici anni. Reclamare a gran voce una sessualità senza confini – qualcosa che molti maschi omosessuali ritenevano perduta per sempre – fu il miglior tonico per curare lo stress post-traumatico generalizzato. I più giovani, che avevano sentito parlare di un’epoca sessualmente liberata paragonabile a un’era perduta della paleontologia, si dimostrarono ben disposti a esplorarne le nuove versioni, qualunque esse fossero.
Il sesso non protetto dopo l’arrivo dell’hiv non è nulla di nuovo – a ben vedere è il motivo numero uno delle nuove infezioni, il cui numero stenta a calare – ma nella seconda parte degli anni Novanta la comunità gay scoprì ancora una volta quanto fosse facile, e un po’ comico, (ri)etichettare un fenomeno: fu così che il termine «bareback» entrò nel linguaggio comune. È ironico, semmai, che sia stata introdotta una parola nuova per definire la più antica pratica sessuale del mondo: fare sesso senza barriere. Non era certo cambiato il sesso, bensì il suo significato e i giudizi che attirava, soprattutto se a farlo erano dei maschi omosessuali. Come ha dichiarato l’attivista Jim Pickett in occasione di una conferenza, «Quando un amico mi dice che stanno aspettando un bambino, mi vien voglia di urlare ‘Ah-ha! Avete fatto bareback!’».
Ma mentre le menti più fini e gli attivisti più appassionati indagavano le ragioni del barebacking cercando una risposta sensata, nessuno aveva osato documentarlo su videocassetta per darlo in pasto agli appetiti erotici delle masse. Non ancora, almeno.
Nel 1998 esistevano due società scavezzacollo fondate solo a questo scopo: la Hot Desert Knights e la Treasure Island Media. Nessuna delle case di produzione leader del mercato avrebbe mai preso in considerazione la stessa idea (per quanto rieditassero volentieri i vecchi best seller pre-aids, ovviamente bareback). I video fatti con pochi soldi dalle quelle due start up del porno tirarono fuori dall’«armadio» le scelte sessuali di un numero crescente di uomini e le condussero dritte nel mercato dei DVD e sugli schermi dei computer.
Si tratta di video uniformi nel loro pauperismo, nell’aspetto non freschissimo degli attori, e nel fatto che molti di essi paiono recare i segni di un’infezione da hiv presa per il collo con farmaci molto tossici. Era come se un gruppo di uomini sopravvissuti al virus fosse sbottato di punto in bianco con un «oh, al diavolo» mettendo in bella mostra il tipo di sesso che facevano tra di loro da qualche tempo. Questo tipo d’immaginario da «exploitation» era considerato un sottogenere underground incapace di infrangere la superficie del mainstream pornografico.
Ma quando Max Sohl incontrò quel giovane di bella presenza reduce dal Folsom che aveva una voglia matta di farsi «inseminare» da una ganga di estranei, e con lo Zeitgeist ormai pronto per il loro arrivo, quei due fecero un film destinato a cambiare per sempre il volto dell’industria pornografica e a influenzare, senza dubbio alcuno, il comportamento sessuale di moltissime persone.
Ribattezzata «Dawson», la promettente star del porno si sistemò in una camera d’albergo nel corso del Black Party 2004 newyorkese, a disposizione di un’autentica parata di attivi senza profilattico. I rapporti sessuali vennero filmati con stile documentaristico, senza musica né dialoghi, né alcun tentativo di nascondere i cavi e le telecamere piazzati nella stanza. Il più intimo desiderio di Dawson era stato appagato, e Sohl poteva dimostrarlo. Nel giugno del 2004, Dawson’s 20 Load Weekend venne distribuito con tanto di battage pubblicitario.
Di primo acchito si può avere l’impressione sconcertante che il video sia stato girato in un mondo dove di hiv non si è mai sentito parlare, almeno finché una precisa, fiammeggiante coreografia sessuale non viene ripetuta ad libitum. Mentre nel porno pre-aids gli orgasmi venivano di solito mostrati con l’attivo che estraeva il cazzo per venire sulla schiena del partner, gli stalloni di Dawson hanno una mission ben diversa, e deliberata: estrarre il cazzo il tempo necessario a mostrare l’inizio dell’orgasmo, per poi reinserirlo immediatamente certificando così l’«inseminazione».
Dawson non è un film fatto in assenza di hiv, ma concepito per via di hiv. Sembra quasi di sentire una vocina che sussurra: «Guarda bene: ecco come fanno sesso i maschi gay al giorno d’oggi. Ecco dove va messo lo sperma. Fanculo l’aids».
A seconda dei punto di vista, trattasi di rituale erotico e trasgressivo oppure di una pratica intollerabile e irresponsabile che dimostra come ci s’infetta con l’hiv. O forse entrambe le cose…
E al centro di tutto questo c’era lui, Dawson: il porno bareback non aveva mai avuto a disposizione un protagonista così virile, atletico e devoto. «Un modello di tale qualità non si era mai visto in quel tipo di scene estreme» spiegò Sohl. «Il film ha cambiato le cose per via di Dawson. È adorabile, disarmante, sorride per davvero, ride nel film. È una pasticca di Cialis in carne e ossa». «Le case di produzione che fanno bareback hanno le mani sporche di sangue» divenne poi un adagio molto diffuso tra maschi omosessuali e attivisti nel campo della salute. Dan Savage, giornalista specializzato in consigli sessuali alla comunità lgbt, equiparò quei video alla pedopornografia, accusando gli autori di circonvenzione d’incapaci. Qualcuno accusò la Treasure di fare degli snuff movies.
Il video di Dawson riscosse un successo clamoroso in ogni dove. Persino Sohl ne fu sorpreso. «La nostra équipe, o anche i miei amici, mi dicevano ‘ovunque vada, in sauna, a un sex party, a casa di uno per scopare, lo mettono su: è dappertutto’».
I negozi hard che fino a quel momento avevano snobbato i titoli Treasure risposero alle richieste dei clienti prenotando il video e arrivando a creare apposite sezioni bareback sui loro scaffali. I siti porno gay che si erano sempre rifiutati di caricare clip di questo tipo si adeguarono. Dawson e il suo film diventarono così la bandiera di una sessualità spoglia e sfrontata, che aborriva i profilattici e non ne voleva sapere di lasciarsi intimidire dal virus.
Ben presto anche altre compagnie si misero a produrre porno bareback e riuscirono ad assoldare tipi in forma, giovani e muscolosi, il ritratto della salute. I volti e i corpi dei video bareback si trasformarono in fretta, cancellando ogni traccia di lipodistrofia e sincronizzandosi con l’invisibilità dell’infezione dei giorni nostri.
Ripensando alle conseguenze di questo film, Sohl è più pragmatico che orgoglioso. «Nel 2004, l’idea di farsi sborrare dentro venti volte era molto più che tabù, ma adesso… no, adesso non è più così estrema. Sono sicuro che prima o poi qualcuno l’avrebbe fatto. È capitato a noi».
Sohl non ammette alcun tipo di remore circa la salvaguardia dei suoi attori, oggi come allora. «Lo faccio dal 2004, l’ho fatto con migliaia di uomini, e solo uno ha detto di essersi beccato una malattia venerea [sul mio set]. Direi che il 50% del mio lavoro consiste nel fare counseling sull’hiv» precisa senza un filo d’ironia. «Passo un sacco di tempo a parlarne. La mia opinione è che la gente deve fare scelte consapevoli, deve informarsi prima di fare».
Una di queste persone capaci di decisioni importanti vivendo con l’hiv è proprio l’attore meglio noto come Dawson, che ha ammesso il proprio stato sierologico a «The Windy City Times» nel 2005. E se nessuno si è stupito del suo status, nell’intervista ha aggiunto anche un dettaglio tristemente rivelatore. «È stato dopo la diagnosi che ho deciso di fare un film con la Treasure Island Media. Mi ero sieroconvertito pochi mesi prima…».
Una volta ricevuta la diagnosi di sieropositività, molte persone ne approfittano per fare il punto della situazione e optano per scelte sessuali diverse, spesso orientate a godersi la vita come meglio credono. Nel caso dell’uomo destinato a diventare Dawson, alla sieroconversione seguì la scelta di fare la troia, senza vergogna né scrupoli, davanti all’obiettivo. Potrà anche essere stata la sua più intima fantasia, ma non fa che alimentare la credenza stigmatizzante che le persone con hiv siano vettori irresponsabili dell’infezione, disposti a propagarla abbandonando qualsiasi precauzione.
Forse il film valse come un trattatello sul tipo di liberazione sessuale disponibile per i maschi omosessuali dei giorni nostri, in quanto dimostrerebbe la «nuova normalità» di chi prende la terapia, elimina l’attività virale nel sangue e «scopa libero e senza paura», nelle parole di Paul Morris. Oppure ha semplicemente dipinto i sieropositivi come troie da sbarco, un’accusa rilanciata da frotte di sieronegativi disgustati (e magari gelosi)?
«Ciò che la gente vede riguarda più loro stessi che noi» spiega Sohl. «La migliore strategia è non confermare né negare alcunché. Mi capita di vedere online una scena che ho girato» continua riferendosi ai tanti siti che piratano frammenti dei suoi film «rititolata ‘passivo negativo si piglia lo sperma di un positivo’, manco fosse una scena d’infezione. Chi l’ha mai detto? Oppure, la gente crede che il passivo sia sotto crystal meth. Mi spiace, ma son tutte cose che la dicono lunga su chi guarda, non su quello che è successo davvero».
Questa relazione tra porno e spettatore è particolarmente cara ad alcuni attivisti della prevenzione che vedono il porno bareback come una forma di incoraggiamento al sesso senza preservativo nella vita vera. Ciò è scaturito in una campagna dell’Aids Healthcare Foundation volta a imporre l’uso del preservativo sui set, una mossa popolare a un livello molto semplicistico ma che non tira in ballo nessuno dei tanti fattori associati al reale rischio d’infezione, né le relative strategie preventive, come può essere la TasP.
E mentre la teoria sociale cognitiva afferma che prendiamo decisioni comportamentali guardando gli altri, sono ancora scarse le ricerche sull’eventuale relazione tra porno bareback e comportamenti reali. Tant’è che i ricercatori non sono stati in grado di affermare con certezza se chi fa bareback guarda molto porno bareback, o se è il porno a sfornare nuovi barebacker.
Un enigma che lo stesso Max Sohl è lieto di risolvere: «Certo che sì. Certo che influenza la gente». Ma alla domanda su quale sia la responsabilità del porno, Sohl non ne vuole sapere. «La responsabilità del porno» ha dichiarato con piglio malandrino «è far sì che chi lo guarda si faccia una sega».
Dawson è ormai un’icona del porno, presente su dozzine di siti, e ha ottenuto il premio tanto agognato. Lui e la sua progenie di pornoattori infisicati e allettanti hanno oltrepassato un punto di non ritorno. Le loro scorribande sono disponibili ovunque, a portata di tutti, inclusi i giovani maschi gay freschi di coming out che vanno in Internet in cerca di conferme in tema di sessualità.
Quei giovani uomini vedranno sicuramente, online, fior di scene di sesso senza preservativo, dato che ormai i video bareback sono più numerosi di quelli col profilattico. È fuori di dubbio che per i novellini del sesso il bareback sembrerà lo standard, e chi cerca di promuovere il safer sex farà molta fatica a superare la forza di quelle immagini. Il messaggio «usa sempre il condom» è ormai morto e sepolto, affogato nei secchi di fluidi corporei di Dawson e i suoi fratelli.
Dawson’s 20 Load Weekend ha ridefinito il porno gay bareback e i suoi attori, ha influenzato una caterva d’imitazioni e ha aumentato a dismisura la presenza sul mercato di video «condomless». Dawson descrive una verità diffusa sul comportamento sessuale tra maschi in tempi di antiretrovirali, e ha indubbiamente incoraggiato la ricerca di avventure rischiose. Ha inoltre condotto a una saturazione del bareback online, elevandolo alla norma per chiunque cerchi porno in rete. Prendere sottogamba questo film, minimizzare il suo impatto sociale e culturale sarebbe solo un gesto miope nei confronti della sessualità gay dei giorni nostri.
«Il bareback è un diritto» ha scritto l’antropologo gay Eric Rofes. «Dopotutto, quasi ogni uomo etero al mondo lo fa senza per forza sentirsi irresponsabile, pazzo o suicida… il bareback è una liberazione. Il bareback è sfida».
Folle o profetico, liberatorio, illuminante o distruttivo? Quale che sia la vera natura del bareback, la scopriremo solo nel prossimo capitolo della tormentata storia della nostra comunità omosessuale.
Mark
L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.