E’ la seconda volta che mi trovo davanti al termine “diseducativo” riferito a campagne che sostengono che le persone con HIV sono in primis persone e non un virus. Prima alcuni commenti da socie di un’altra associazione ospiti al BLQ Checkpoint per vedere un film, poco fa un censore che nel commentare una campagna geniale di UniLGBT, ci tiene a ricordare a tutti che il contagio da HIV è ancora un problema sociale. Ora, fermo restando che ovviamente è necessaria la prevenzione, corre l’obbligo spiegare che in Italia abbiamo punte elevatissime di persone sieropositive in terapia di successo, ossia con viremia non rilevabile o, se preferite, con un virus che, ancorché presente, non replica. Punte elevatissime di persone che ben difficilmente riuscirebbero a contagiare qualcuno anche volendo. Persone che, con encomiabile costanza, assumono i trattamenti quotidianamente e sono riuscite a cronicizzare l’infezione. Una infezione cronica è ben differente dalla malattia. C’è la stessa differenza che passa fra l’ipertensione controllata da un paio di pillole e un ictus. Ma molte persone preferiscono continuare a credere che HIV riguardi solo altri, che l’unica cosa che è possibile fare è discriminare e stigmatizzare continuamente la possibilità di contagio anche quando è oggettivamente e scientificamente pressoché impossibile. Purtroppo il cosiddetto movimento LGBT italiano se ne guarda bene dall’effettuare interventi a sostegno di lotta per uno stigma che non si inquadri nell’interessa della diva di turno e la nostra associazione spesso è sola a dare notizia di cose note ormai dal 2008, ma che in Italia faticano ad entrare nel patrimonio comune il quale, d’altra parte, è ancora per lo più fermo agli anni 90. Di davvero diseducativo in questo tristissimo e ignorante paese, c’è solo la poca voglia di conoscere e approfondire il tema, la tanta voglia di trovare un capro espiatorio (che non mi stupirei se portasse ad una criminalizzazione), di mettere la testa sotto la sabbia come fanno buona parte delle persone msm (maschi che fanno sesso con maschi). Un gruppo sociale che in Italia è caratterizzato da una incidenza molto preoccupante, così come lo è pressoché in tutto il continente ma, mentre altrove in Europa l’associazionismo LGBT si è fatto carico di azioni concrete tese a ridurre e ricomporre il problema dell’aumento delle nuove diagnosi, in Italia ha fatto di tutto per tenersi distinto dal problema, con una costanza invidiabile che ci ha portati ad avere numeri di contagio da terzo mondo. Certo, cari lettori, il contagio da HIV è ancora presente in Italia e buona parte di esso è causato dall’ignoranza, dalla presunzione, dalla testa sotto la sabbia, dalla discriminazione e dalla volontà, sempre più evidente, di isolare le persone sieropositive, di colpevolizzarle e possibilmente criminalizzarle, facendo ricadere su di esse e solo su di esse, la responsabilità di ciò che avviene. Beh, non ci avrete mai come ci volete, come vi immaginate. I sieropositivi oggi possono e devono ambire a condurre una vita normale, con una aspettativa di vita normale e non c’è imbecille con il suo veleno ignorante che possa impedirci di essere noi stessi. Buon Pride a tutte e a tutti.
Primo intervento del presidente di Plus in occasione dell’incontro “HIV oggi” al Cassero LGBT center, giovedì 26 maggio 2015. Temi: TasP e PrEP. Presenti anche Diego Scudiero della LILA e il dottor Vincenzo Colangeli del policlinico Sant’Orsola.
Il CROI, Conference on Retrovirus and Opportunistic Infection, quest’anno la IAS-USA l’ha organizzato a Seattle, ed io ho avuto l’opportunità di partecipare alla conferenza grazie ad AbbVie. Tecnicamente la conferenza non è ancora incominciata, infatti aprirà ufficialmente fra qualche ora, tuttavia stamattina ho partecipato ad un workshop sulla prevenzione. La “ballroom” del Convention Center dove si svolge la conferenza, era piena di studenti e giovani ricercatori ai quali erano state riservate le prime file. Un battaglione di giovani di belle speranze, ossia il futuro della lotta contro HIV. Non ho potuto fare a meno di pensare all’appello che venne fatto alla conferenza mondiale aids di Città del Messico, affinché tutti i giovani ricercatori concentrassero le loro menti fresche su HIV. Accidenti come obbediscono gli USA! Di fatto si è trattato di lezioni ma decisamente avanzate. Non la faccio lunga e vado direttamente al workshop che ho trovato più interessante, ossia quello tenuto da Susan Buchbinder del Dipartimento di Salute Pubblica di San Francisco, California. La presentazione della Buchbinder aveva un titolo emblematico “HIV Prevention 2.0: What’s next?”. Quindi non solo c’è una prevenzione 2.0, ossia avanzata, ma c’è pure dell’altro? Lo sanno i medici italiani e, soprattutto, gli attivisti MSM italiani? Già la prima slide pone quelle che saranno le domande centrali in questa conferenza almeno per quanto riguarda la prevenzione: come costruire sui primi successi degli interventi biomedicali per incrementarne l’impatto e l’efficacia? La dottoressa presenta come ormai “old” i pilastri della prevenzione che abbiamo utilizzato e sui quali abbiamo spinto dal 1981 fino al 2010: Campagne sulla salute (la Buchbinder ha scritto campagne pubbliche ma lei è statunitense e se lo può permettere diversamente da noi), i test su HIV, i condom. La dottoressa chiarisce subito che questi interventi biomedicali hanno svolto un ottimo lavoro con un grafico che mostra il crollo delle stime di nuove diagnosi negli USA dal 1980 al 2010 (ovviamente anche grazie all’introduzione delle terapie). Eppure ora siamo nelle condizioni di far meglio, e introduce i tre nuovi pilastri della prevenzione che si vanno ad aggiungere ai precedenti:
Circoncisione maschile,
PrEP (profilassi pre-esposizione),
Tasp (Trattamento come prevezione).
La Buchbinder cita è vero la metanalisi del 2014 di Jiang pubblicata da Plos One, ma parla di PrEP come se fosse ovvio che a) funziona b) è efficace, c) è uno strumento che tutti dovrebbero accettare come tale… illusa. Quel che è meglio, è che a nessuno dei giovani ricercatori verrà in mente di far domande tese a mettere in discussione l’opportunità di usare la PrEP (non lo sanno in USA che il condom costa meno? Come mai non pensano che chi non lo usa sono cazzi suoi, come nella migliore tradizione cattolica?). Tutte le domande sono centrate sulla durata, sulla frequenza delle assunzioni, ecc. Le richieste di chiarimento si sono molto più concentrate sul fatto che la circoncisione maschile non mette certo al riparo le donne ma, anche in questo caso, non con l’ottica di negare la possibilità ma per trovare una soluzione. La Buchbinder, per altro non è impreparata, cita studi sulla durata (494 MACS pts, Pines et al, JAIDS 2014; J. McConnell/AVAC) e spiega che una persona a rischio o un gruppo a rischio non sarà tale per sempre. Ovviamente, aggiungo io, se verranno prese misure efficaci per far si che ciò avvenga. Incredibilmente la Buchbinder sembra dare per scontato questo pezzo. Ormai che c’è, ci segnala anche quali sono i gruppi più esposti e, guarda caso, meno raggiunti da campagne ecc. sui quali bisogna agire e mettere in campo anche i nuovi pilastri. Ovviamente cita una ricerca USA ma MSM (maschi che fanno sesso con maschi) bianchi, MSM afro-americani, MSM latino americani sono ai primi tre posti. Poi le donne eterosessuali afro-americane anch’esse con percentuali importanti. E per chiarire subito la Buchbinder mi cita lo studio di Rosemberg (Lancet 2014) che spiega al mondo come non sono i rischi individuali a creare nuovi positivi, ma i motivi strutturali (accesso al test, stigma e discriminazione, ecc., si infettano di più omosessuali e neri… il dubbio che lo stigma c’entrasse mi era venuto ma sono contento che lo abbia pubblicato Lancet. Come membro della Commissione Regionale Aids dell’Emilia Romagna ho chiesto che la PrEP venisse messa in ordine del giorno. Per la verità la presidenza mi ha fissato per 5 minuti senza rispondere come se avessi chiesto la ricetta del pan di spagna invece che di trattare un tema sul quale Francia e Regno Unito hanno appena portato a termine due studi. Spero che anche in Italia si riesca quantomeno a discutere delle esperienze e dei dati degli altri, visto che il cervello medievale che contraddistingue i decisori italiani oggigiorno, non consente di investire in ricerche che possano portare a un calo delle nuove infezioni. Ma questo è il Croi e qui sembra comandare la scienza, l’efficacia e meno l’ignoranza. E’ davvero l’America…(!?). Vi terrò informati.
Sulla medesima linea d’onda, fattuale e non ideologica (né tanto meno moralistica) ci sembra necessario concludere questo «settembre antistigma» con alcune considerazioni stringenti.
A cominciare dal ruolo del preservativo, che resta imprescindibile ma va ricontestualizzato. Il condom è una sine qua non valida per tutti, negativi e positivi, poiché è l’unico scudo utile ad arginare le infezioni sessualmente trasmissibili, da quelle croniche a quelle passeggere che possono comunque fiaccare il sistema immunitario e agevolare l’hiv. Oltretutto, la legge italiana non ha ancora recepito lo status «undetectable» (la non contagiosità di chi ha la viremia non rilevabile) che riguarda l’80% delle persone sieropositive diagnosticate nel nostro Paese, e questo va sempre tenuto presente in caso di incontri «sierodiscordanti».
Poi ci sono altri dati di realtà, a cominciare dalle idiosincrasie che da sempre, hiv o non hiv, penalizzano l’uso del condom. Motivo per cui è ora di riconoscere lo status di safer sex anche ad altri strumenti, a cominciare dalla TasP, vale a dire la terapia come prevenzione, i cui effetti succitati in tema di viremia stanno trovando conferma grazie allo studio Partner.
È importante sottolineare come le condizioni di successo della TasP siano piuttosto severe (a tale proposito, date un’occhiata al vademecum Sesso Gay Positivo) e per stare sul sicuro, anche alla luce di altri infezioni come la sifilide e l’epatite C – sempre più presente tra gli MSM – si ritorna giocoforza al buon vecchio profilattico. D’altro canto, nella realtà dei fatti vi è uno scarto sostanziale tra adoperare uno strumento, per l’appunto, artigianale e poco amato, e ricorrere a una protezione 24/7 come quella offerta da una terapia in pillole.
Nel frattempo, per le persone sieropositive la battaglia continua giorno dopo giorno, ed è una battaglia soprattutto sociale e culturale. Sociale, perché l’hiv è un’infezione contagiosa che interessa quella sfera delicatissima dell’interazione umana che è il sesso. Culturale, perché se l’ambito medico resta opaco e inaccessibile ai più, il tema dello stigma è a portata di tutti. Ed è su questo tema che Plus ha deciso di focalizzarsi grazie agli articoli di Mark.
In cima alla lista c’è il disinnesco di un’immagine deflagrante, oltre che sbagliata: la persona sieropositiva contagiosa, disperata e inaffidabile. A ben vedere, il rischio reale di nuove infezioni riguarda in primis le persone in sieroconversione, cioè fresche di contagio e nella massima parte dei casi all’oscuro della cosa, e in seconda battuta quelle che non solo non lo sanno, ma non fanno nemmeno regolarmente il test. Una persona diagnosticata, al corrente del proprio stato sierologico e seguita da un medico, non è quasi mai un pericolo – e una volta entrata in terapia non lo è al cento per cento.
Persino le coinfezioni o le altre cause dei cosiddetti blip virali (l’improvviso aumento della viremia nelle persone in cura, o la differenza tra virus nel sangue e nello sperma) non escono dal recinto del rischio irrisorio e residuale, per quanto possano rappresentare un problema per la salute del diretto interessato.
Da questo punto di vista, il salto copernicano che va introdotto nella concezione stessa del profilattico è che il goldone serve ai positivi soprattutto per proteggersi, oltre che per proteggere. Proteggersi dalle infezioni che la terapia non targetizza e che rischiano di compromettere un sistema immunitario già ballerino.
L’altro salto riguarda le persone sieronegative e la loro percezione del rischio. Alla luce delle evidenze scientifiche bisogna saper distinguere il contatto dal contagio: hiv è uno dei tanti virus ormai entrati a far parte del nostro quotidiano, ma dalla vicinanza all’infezione il passo è bello lungo. Hiv si trasmette con notevole difficoltà. Comprenderne le dinamiche e accettarle senza cedere alle malie del rischio teorico significherebbe mettere la parola fine alla discriminazione delle persone sieropositive.
Ecco perché noi di Plus ne parliamo senza censure, nella speranza che questi argomenti diventino oggetto di discussione anche nel nostro Paese. Uno dei primi slogan della lotta all’aids fu silence = death, per evitare che l’elefante della pandemia restasse ignorato nel bel mezzo del salotto. Oggi di hiv non si muore quasi più (in Occidente, almeno), ma resta la gestione – anche sociale, interpersonale – di un’infezione cronica per la quale non s’intravede ancora una cura. Un’infezione spesso taciuta dalle persone colpite proprio per paura dello stigma – lo stesso stigma che si ciba dell’ignoranza diffusa e di vecchi stereotipi duri a morire. L’hiv non si vede, ma il silenzio la rafforza.
I tempi degli strali, dei decaloghi biblici e del politicamente corretto hanno mostrato la corda: è il momento di decisioni informate, prima di tutto in ambito sessuale, la cui responsabilità va condivisa in parti uguali tra tutti noi, positivi e negativi.
Non più «lungi da me», ma «so quel che faccio».
È questa la sfida che Plus lancia alla comunità lgbt italiana.
Simone Buttazzi
[l’immagine che apre l’articolo è una rielaborazione dell’ultima inquadratura, censurata, del film Porcile (1969) di Pasolini. Dietro alla maschera c’è un Ugo Tognazzi che ci ricorda come avere qualcosa da dire, e star zitti, sia una gran porcata]
Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità. Il tema del sesso senza senza preservativo rientra senza dubbio nella graffa dei temi scabrosi e tabuizzati: parlarne è fondamentale, anche con i toni sfacciati e controversi dell’immagine soprastante, che mutua lo slogan proposto dal gruppo canadese Aids Action Now! nel 2012.
Ogni volta che un nuovo studio sui maschi omosessuali scopre che si fa sesso bareback, cioè senza preservativo, le anime belle della condotta sessuale si stracciano le vesti e denigrano questo comportamento vergognoso, choccante e assassino. Quindi immaginatevi quanti scampoli di tessuto sono finiti sul pavimento dopo che uno studio ha indicato che quasi la metà degli utenti della app di geolocalizzazione Grindr si cimenta col sesso «a pelo».
Vorrei tanto che quelle triste figure mettessero da parte i sali per rinvenire e cercassero di comprendere le ragioni di tutto questo. E invece, ogni volta che un nuovo studio, ampio o affrettato che sia, dimostra ciò che sappiamo già, riecco le statue pompeiane con la mano sul cuore, impietrite nella loro indignazione d’altri tempi.
Niente di nuovo sotto il sole… eccetto forse il sempre rinnovato stupore dinanzi al fatto che i maschi omosessuali si comportano pari pari come qualsiasi altro uomo del pianeta Terra.
Forse quelli che trovano ripugnante il bareback credono di essere politicamente corretti, che i loro aspri giudizi sulla vita sessuale altrui servano alla prevenzione, che criticare gli altri perché che si comportano come esseri umani possa in qualche modo modificare istinti radicati, che ci accompagnano dalla notte dei tempi.
O forse rientra nel nuovo decalogo della cultura gay voler dimostrare alla società etero che siamo bravi quanto loro a svergognare gli omosessuali, che ci castreremmo volentieri nel nome dei pari diritti e che altrettanto volentieri ci priveremmo degli stessi piaceri che loro danno per scontati: insomma, concedeteci il matrimonio gay e noi vi risparmieremo il racconto della scopata anale non protetta che avrà luogo la sera della cerimonia.
In un modo o nell’altro siamo giunti alla conclusione omofoba che quando due maschi omosessuali si cimentano nell’atto romantico, emotivo e spirituale dell’amore fisico senza barriere, questo va etichettato come barebacking psicotico, mentre quando lo fanno gli etero si chiama buon sesso. Due pesi e due misure: ridicolo. Lo sapete che anche vostra madre faceva bareback? È un atto naturale e prezioso che persiste, letteralmente, dagli albori dell’umanità. Abramo (facendo bareback) generò Isacco, Isacco (facendo bareback) generò Giacobbe, Giacobbe (facendo bareback) generò Giuda e i suoi fratelli (Matteo 1-2). Forse voi avete l’incredibile abilità di spassarvela al meglio col pene avvolto nel lattice. Wow, fantastico, raccontate. Sono tutt’orecchi. A voi piace davvero usare questo classico strumento di prevenzione, un autentico gioiellino immarcescibile. Forse tu e il tuo fidanzato siete sieronegativi e avete la fortuna di una relazione esclusiva e monogama che possa escludere l’uso del condom. O magari, forti di olimpionica disciplina, siete persino in grado di usarlo ogni volta che fate sesso, cascasse il mondo. Siete commendevoli, non c’è che dire, peccato che siate anche una minoranza. Quelli che ho appena fatto sono esempi validi e reali, che non rappresentano però una posizione moralmente superiore dalla quale lanciare strali sulle scelte altrui.
Durante gli anni critici dell’aids, noi maschi omosessuali abbiamo stipulato un tacito accordo: accettammo di usare i preservativi – a quel tempo l’unico «safer sex» esistente – in attesa di tempi migliori. Molti di noi pensavano che questo contratto non sarebbe mai arrivato a scadenza, forse perché si credeva di morire tutti nel giro di pochi anni. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare, trent’anni più tardi, di doverci ancora attenere a queste rigide linee guida.
Anche a suo tempo, alcuni di noi le ignoravano. Si potrebbe supporre che alla luce di tutte quelle morti si sarebbe verificato uno stabile cambiamento nello stile di vita. In realtà, molti di noi reagirono all’ecatombe in maniera irrazionale, quindi umana: trovavamo conforto nel fare l’amore l’uno con l’altro, spesso senza preservativo. Era una sorta di gesto assertivo, un vaffanculo all’aids. Tant’è che uno studio del 1988 sui maschi omosessuali dimostrò come la metà del campione non lo usasse mai, e che la maggioranza non lo usasse sempre. Sono numeri molto, molto simili a quelli dei recenti studi su Grindr. L’eterno ritorno di una pratica, direi, mai passata di moda.
Lo studio del 1988 è particolarmente interessante se si considera quanti maschi omosessuali ripensino a quegli anni come a un periodo di grande austerità sessuale. C’è chi desidera, forse troppo, un ritorno a quei funerei fasti e c’è chi, avendo visto con i propri occhi il massacro dei primi anni dell’aids, ogni tanto sentenzia: «Se solo i giovani sapessero cos’abbiamo passato… Se toccasse a loro, non si comporterebbero così».
Roba da vomito. Tanto per dirne una, non mi auguro affatto che i giovani di oggi assistano alle scene strazianti che ho visto io. Anni addietro ho sudato sangue, in trincea, proprio per consentire loro un po’ di apatia. Preferisco vederli sguazzare nella loro ignoranza spensierata che ipotizzare di seppellirli.
Non c’è dubbio che il numero di maschi omosessuali che muoiono ancora oggi per le conseguenze dell’aids sia incomparabilmente inferiore alle cifre degli anni Ottanta e dei primi Novanta. Oggigiorno le persone sieropositive muoiono più per il tabagismo che per il virus. L’hiv è diventata un’infezione pericolosa ma in larga parte gestibile, e le manovre terroristiche che sostengono tesi diverse vengono ignorate perché non corrispondono al vero. Il sesso è sesso, è una cosa naturale e rigenerante, e chiunque voglia parificare il sesso senza preservativo alla morte e alle malattie ha proprio bisogno di andare in terapia.
Inoltre, l’uso del condom continuerà sicuramente a calare, in futuro, per via dei nuovi strumenti che stanno arricchendo la gamma delle opzioni di prevenzione anti-hiv. A cominciare dalla profilassi pre-esposizione (PrEP), ovvero l’assunzione di antiretrovirali in via preventiva, che secondo studi recenti riesce davvero a ridurre il rischio di nuove infezioni (resta il problema di chi ne coprirebbe i costi se venisse legalizzata in Italia, oltre a quello dell’aderenza e dei possibili effetti collaterali). Molte persone che vivono con hiv limitano la scelta dei propri partner ad altre persone sieropositive, fanno cioè serosorting, e nel farlo hanno dimostrato l’infondatezza delle tante voci sul nuovo spauracchio, il supervirus della reinfezione, che in realtà non si è mai materializzato.
Sappiamo inoltre che i positivi con viremia non rilevabile sono, di fatto, non contagiosi, per cui la TasP (terapia come prevenzione) è stata rafforzata dallo studio Partner, realizzato in gran parte su coppie etero, che assegna persino una percentuale maggiore di efficacia alla terapia antiretrovirale rispetto al condom. Un risultato che dovrebbe confermarsi anche studiando solo coppie omosessuali.
All’orizzonte brillano poi i microbicidi rettali. Sono prodotti ancora sperimentali che arriveranno sul mercato sotto forma di lubrificanti o clisteri capaci di prevenire un’infezione da hiv, in modo da mettere la parola fine al chiacchiericcio e alle facili sentenze in tema di preservativi.
E potrei continuare. Insomma, non c’è bisogno di scannarci a colpi di integralismo profilattico, discreditando il valore intrinseco della nostra vita sessuale o promuovendo una singola strategia che, nella realtà dei fatti, non funziona per tutti. Sarebbe ora, invece, di accettare l’evidenza che i maschi omosessuali stanno facendo scelte consapevoli, mettendo alla prova diverse tecniche di riduzione del rischio. E una volta verificate nella loro validità, sarebbe ora di chiamare anche queste tecniche «safer sex». Infine, possiamo anche smetterla di far finta di credere che i fissati del preservativo abbiano la moralità dalla loro.
Il re è nudo. E non indossa nemmeno il goldone.
Mark
L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.
Prosegue la collaborazione tra Plus e il blogger statunitense Mark S. King, autore del sito My Fabulous Disease, all’avanguardia nella lotta allo stigma verso le persone sieropositive. Gli articoli di Mark sono molto diretti, a volte sconcertanti nella scelta – volutamente provocatoria – degli argomenti e dei paragoni, tant’è che il suo pensiero non collima sempre con le posizioni di Plus. Detto questo, abbiamo deciso di pubblicarne alcuni in traduzione (con piccoli aggiustamenti di natura esplicativa) per dare una «scossa», anche in Italia, al dibattito su temi troppo spesso ignorati dalla nostra comunità.
Una vecchia puntata dello show di Oprah Winfrey, anno 1987, riesce ancora a farmi vedere rosso. La minuscola cittadina di Williamson, in West Virginia, innescò un dibattito nazionale sull’aids dal momento che Mike Sisco, che era tornato al paese natale per morirvi, aveva osato tuffarsi nella piscina pubblica.
Il paesello uscì subito di testa. Sisco venne subito etichettato come uno psicopatico (secondo alcuni, sputava persino sui banchi del verduraio), e il giorno dopo la piscina venne chiusa per procedere a una decontaminazione in stile Silkwood. Ben presto, Oprah piombò sul posto con troupe e telecamere per discutere pubblicamente dell’accaduto. Il timor panico era all’ordine del giorno. «Se c’è anche solo una possibilità su un milione che qualcuno possa essersi beccato il virus in piscina» annunciò il sindaco al pubblico mondiale dello show «ritengo di aver fatto la cosa giusta». Certo. Perché non reagire nella maniera più isterica possibile, se c’è anche solo una possibilità su un milione?
Gli abitanti di Williamson non si lasciarono tranquillizzare dagli agenti della naccho che spiegarono loro con grande calma come si trasmette l’hiv, e l’impossibilità che ciò avvenga in piscina. «I medici potranno anche dire che non si prende così» concionò una signora «ma come la mettiamo se un bel giorno fanno marcia indietro e sbottano «be’, ci siamo sbagliati?». Massì. Come la mettiamo? Se c’è anche solo una chance su un milione…
Quella puntata sarebbe potuta restare una triste nota a piè di pagina nella storia dell’hiv/aids, un esempio istruttivo di come la gente ignori le evidenze scientifiche al solo scopo di salvaguardare una paura corroborante… peccato che la storia tenda a ripetersi.
Oggi, purtroppo, l’ignoranza più caparbia non riguarda solo i villici di un borgo dimenticato nel sud degli Stati Uniti, difficile persino da trovare sulla mappa. Riguarda i maschi omosessuali, che verso la scienza tendono a sfoggiare il medesimo atteggiamento impaurito, aggressivo e isterico dei bifolchi di Williamson di trent’anni fa.
In occasione della conferenza internazionale CROI sono stati presentati i risultati di uno studio di nome Partner, che hanno dimostrato ciò che gli attivisti nel campo dell’hiv sospettavano da tempo: le persone sieropositive con viremia non rilevabile non sono in grado di trasmettere il virus ai loro compagni. Lo studio ha riguardato circa 800 coppie discordanti, in maggioranza eterosessuali, col partner positivo in terapia e carica vitale stabilmente sotto le 50 copie per millilitro di sangue. Nel corso di due anni sono stati documentati più di 30.000 rapporti sessuali (le coppie erano state scelte in base alla loro tendenza a non usare il preservativo), e non è stato registrato neanche un caso di trasmissione del virus da parte di una persona sieropositiva «undetectable». Se lo studio Partner fosse stato indetto per mettere alla prova un nuovo farmaco, la fase sperimentale sarebbe stata interrotta per immetterlo subito sul mercato.
Gli esiti dello studio Partner legittimano la strategia preventiva detta TasP («therapy as prevention»: terapia come prevenzione), che si fonda sul fatto che una persona sieropositiva sottoposta con successo alla terapia non è più contagiosa. Non esiste un solo caso documentato di persona con viremia non rilevabile che abbia infettato il partner, tanto in ambito sperimentale quanto nella vita vera.
Ma non andate a raccontarlo a una bella fetta di maschi omosessuali scettici, molti dei quali si sono armati di tastiera per gettare fango sugli esiti dello studio Partner. Frasi come «falso senso di sicurezza», «i positivi mentono», «fantascienza pura» e «se c’è anche solo un minimo rischio» hanno invaso i social network e la sezione dei commenti del mio blog. Già m’immagino gli abitanti di Williamson annuire soddisfatti…
Le resistenze allo studio Partner vanno di pari passo con i dubbi nei confronti della PrEP (profilassi pre-esposizione, cioè l’assunzione di Truvada da parte di individui sieronegativi – strumento ancora inaccessibile in Italia). Malgrado qualsiasi obiezione pelosa verso la PrEP sia stata spazzata via dai fatti, i suoi strenui oppositori continuano o a negare la realtà o a emettere giudizi morali sulla vita sessuale dei sieronegativi che hanno deciso di entrare in PrEP. Sì, ci sono delle zone d’ombra, a cominciare dal problema dell’aderenza. Ce ne sono sempre quando il mondo degli studi scientifici incontra quello reale. E non tutte le strategie funzionano con chiunque. Ma il rifiuto veemente di scoperte così importanti indica che c’è qualcos’altro sotto, annidato nella mentalità dei maschi omosessuali. Che cos’è?
Difficile scrollarsi di dosso i ricordi collettivi degli anni tragici dell’aids, anzi: cominciamo proprio da qui. La classica reazione viscerale a qualsiasi studio che parli di neutralizzazione dell’hiv è di profondo scetticismo. Le buone notizie sembrano non reggere il confronto con un lutto durato trent’anni.
Inoltre, lo studio Partner mette a rischio l’opinione diffusa secondo la quale i maschi omosessuali altro non sono che mine vaganti. Lo studio toglie di torno «l’uomo nero con l’hiv». Cosa vuol dire questo? Che chi è al corrente del proprio status e voglia entrare in terapia ha la possibilità di diventare «undetectable». E una volta che il partner positivo non rappresenta più un problema, ecco che entrambe le persone sono egualmente responsabili delle proprie azioni. Una rivoluzione copernicana nella mentalità diffusa della comunità gay.
Una rivoluzione tuttavia difficile da compiere finché continua a serpeggiare la paura, e i dubbi più fantasiosi hanno la meglio. Come la mettiamo se il mio partner salta una dose e, anche se i principi attivi degli antiretrovirali restano nel sangue per un pezzo, la sua carica virale s’impenna? Come la mettiamo se non m’ha detto la verità circa la viremia? Come la mettiamo se non conosce il proprio status?
Amici miei cari, il pericolo vero non è rappresentato dai sieropositivi che credono di avere la viremia non rilevabile e si sbagliano. È rappresentato da chi crede di essere sieronegativo e non lo è. Ma a noi piace concentrarci sulle mancanze della persona positiva conclamata perché, sapete, i sieropositivi mentono. E a noi sieropositivi piace saltare le dosi, perché vogliamo morire prima e nel frattempo cercare la prossima vittima.
Allora anch’io ho qualche domanda del tipo «come la mettiamo se?». Come la mettiamo se queste paure irrazionali servono solo a stigmatizzare le persone positive? Come la mettiamo se ho la viremia non rilevabile e non sento alcun bisogno di tirare in ballo il mio status con un partner occasionale, visto che non sono in vena di lezioncine scientifiche? Come la mettiamo se ciascuno di noi sceglie la strategia di prevenzione che gli va maggiormente a genio? Come la mettiamo se il mio stato sierologico non è affar vostro?
I rischi diminuirebbero, naturalmente, se ciascuno di noi proteggesse il proprio corpo quando fa sesso con uno sconosciuto o una persona di cui non si fida. Ma questa ipotesi caricherebbe di responsabilità anche i sieronegativi, ed è una gran scocciatura. Meglio lasciare tutto il fardello sulle spalle dei positivi, untori che non siamo altro. Considerateci dei criminali, dei bugiardi, gente che sputa sugli alimenti e non vede l’ora di attaccarvela.
Finché continueremo a lasciarci distrarre da ipotesi fantasiose, non riusciremo mai a comprendere le minacce reali. Le infezioni sessualmente trasmissibili sono in pieno rigoglio. La nostra comunità è piagata dall’alcolismo, dalle droghe, da malattie mentali. Vogliamo parlare di questioni scientifiche serie o preferiamo dissipare le energie in dibattiti scandalistici?
Se siete ancora così arroganti da credere di poter vincere la lotteria dell’hiv infettandovi in maniere che la scienza ha scartato da un pezzo, nessuno vi può privare di questo punto di vista. Ma consentitemi di darvi un paio di semplici consigli. Statevene alla larga dal computer e non toccate i cavi, perché in America 50 persone l’anno muoiono fulminate per via di dispositivi difettosi. Recatevi piano, molto piano in camera da letto, guardando dove mettete i piedi, perché gli incidenti domestici ammazzano 55 persone al giorno. E ora infilatevi tra le coltri della vostra testarda ignoranza e vedete di mettervi a vostro agio. Perché gli abitanti di Williamson vi guardano.
Mark
P.S. Il numero di persone infettate da una persona sieropositiva con carica virale non rilevabile durante la lettura di questo articolo è stato pari a:zero.
L’originale, pubblicato sul blog di My Fabulous Disease, si trova a questo indirizzo.