Da Bari giunge la notizia di una sentenza storica. Una persona con HIV, è stata assolta dal tribunale perché “il fatto non sussiste” in quanto l’accusato era in trattamento efficace e, quindi, non in grado di contagiare nessuno.
L’uomo era stato denunciato per tentate lesioni gravissime dalla partner occasionale per un rapporto sessuale avvenuto nel 2018. Il Giudice ha deciso di tenere conto delle deposizioni dei tecnici che hanno spiegato alla corte il tema della non contagiosità in caso di carica virale non rilevabile.
“Come attivisti di Plus siamo molto felici di questa sentenza che, finalmente, prende atto dei risultati della ricerca scientifica”, dichiara Sandro Mattioli Presidente di Plus aps.
Già nel 2015 gli attivisti di Plus portarono all’attenzione della società civile il tema della non contagiosità delle persone con HIV con carica virale non rilevabile, anche attraverso la campagna “Positivo ma non infettivo”, che fede scalpore. Come sempre si trattava di una posizione che si basava sugli studi già effettuati sul tema (HPTN052 e PARTNER). Studi che, in seguito, vennero ampliati e portarono alla dichiarazione ufficiale rilasciata durante la conferenza mondiale AIDS di Amsterdam nel 2018 a sostegno dell’equazione U=U – acronimo inglese che sta per “non rilevabile = non trasmissibile”. “Con buona pace delle paure irrazionali, dell’ignoranza, dell’ipocondria o peggio – continua Sandro Mattioli – questa sentenza rende giustizia a 40 anni di stigma subiti da chi vive con HIV”.
La forza con cui le associazioni di pazienti e di lotta contro HIV hanno sostenuto U=U, a partire dalla campagna Impossibile sbagliare, ha prodotto un primo risultato storico.
Come ogni anno dal 2013 ad oggi, la nostra associazione aderisce alla European Testing Week, ossia la settimana europea del test. Una iniziativa europea tesa a promuovere il test per HIV, che quest’anno si terrà
dal 20 al 27 novembre e vedrà il BLQ Checkpoint aperto tutti i giorni dalle 18 alle 20,30.
Sarà possibile prenotare per telefono (0514211857) i test per HIV, epatite C e sifilide al mattino dalle 9 alle 12 o al pomeriggio dalle 18 alle 20; oppure via mail su prenota@blqcheckpoint.it oppure passando a prenotare direttamente in sede, in via S. Carlo 42C a Bologna.
Il tutto grazie all’impegno dei nostri attivisti e con il supporto del personale infermieristico di USL Bologna.
HIV è ancora oggi un’infezione troppo sotto stimata. Infatti nella nostra Regione le persone che ricevono una diagnosi di HIV quando sono già in AIDS, o prossimi a diventarlo, sono ancora oltre il 60% dei nuovi casi di HIV.
Come spesso accade, ricevere una diagnosi tardiva implica una serie di problemi a partire da una minore possibilità di avere un’aspettativa di vita paragonabile a quella della popolazione generale. Tutto il contrario in caso di diagnosi precoce. Inoltre oggi, grazie alla potenza dei farmaci, le persone HIV positive in terapia efficace non trasmettono il virus per via sessuale. Un traguardo di conoscenza molto importante che ci aiuta a combattere la discriminazione e il pregiudizio e che, insieme a tutte le associazioni di pazienti e di lotta contro HIV e con il supporto di Simit, stiamo promuovendo grazie alla campagna impossibile sbagliare, che vi consiglio di guardare.
Il titolo scimmiotta immeritatamente quello di un bellissimo articolo scritto da Mark King, noto attivista statunitense, per celebrare la giornata mondiale per la lotta contro l’Aids. Oggi abbiamo nuove vite in un mondo che non è soffocato dalla malattia, scrive King in chiusura, e sono convinto che la consapevolezza dell’orrore passato sia sua personale che della comunità omosessuale statunitense, rende ancora più vera quella frase. Una frase che, tuttavia, mi ha fatto riflettere sulla situazione attuale in Italia e sulle grandi differenze fra i due paesi.
Sul piano clinico, fra Italia e USA non c’è storia. L’Italia vanta un numero altissimo di persone sieropositive prese in carico dagli ospedali. Persone che seguono correttamente le indicazioni dei medici e che hanno ottenuto una carica virale non più rilevabile e, quindi, non più contagiose. Tutto il contrario degli USA che, probabilmente per vie del sistema sanitario profondamente diverso dal nostro, non ha neanche lontanamente ottenuto i successi italiani. Non possiamo dire lo stesso sul piano sociale, della consapevolezza politica di una comunità che negli USA si è fatta carico della salute dei propri membri fin dall’inizio della pandemia negli anni 80. Oggi quella comunità vanta alcune fra le più grandi associazioni di persone sieropositive e di attivisti nella lotta contro HIV/AIDS. Vanta un percorso fatto di compassione per le sofferenze di amici, amanti, persone vicine che non ci sono più. La nostra comunità ha fatto una scelta diametralmente opposta: ha scelto che fossero altri ad occuparsi di HIV, ha scelto di non farsi carico del tema e di lasciare sole le persone gay sieropositive a gestire l’infezione, lo stigma, il corpo che cambia, il rifiuto di se stessi e l’isolamento da parte degli altri, e tutto quello che comporta essere omosessuali e sieropositivi in una società sessuofobica, giudicante, bigotta di cui anche la comunità LGBT è parte integrante. Si integrante. Lo vediamo ancora oggi.
Nonostante l’associazionismo gay stia cercando di recuperare i decenni perduti, la comunità omosessuale molto – troppo – spesso addita i gay sieropositivi come indegni, indecenti, se hanno HIV chissà cosa hanno combinato, altro da noi. Trovare un “marito” è cosa ben più complicata qui che altrove anche perché ci piace tenere la testa sotto la sabbia, nella convinzione che HIV riguardi gli errori degli altri non noi, e quindi fuggire è la cosa migliore che ci viene in mente, fuggire dalla paura irrazionale, dai giudizi, da quello che anche i migliori giornalisti nazionali chiamano con termini medievali,. Fuggire, non avere contatti meno che mai sessuali, non avere nessuna cognizione dello stigma che viene posto in essere con le stesse dinamiche discriminatorie che alcuni eterosessuali attivano nei confronti dei gay.
Si, c’è una pesante discriminazione dei gay verso una minoranza di gay sieropositivi, uno stigma costruito su mattoni fatti di silenzi, paure, ignoranza. Alla fine della fiera siamo discriminati due volte per il nostro orientamento sessuale e per il nostro stato sierologico. Non c’è compassione, non c’è comprensione, non c’è coscienza storica né collettiva. “Io, me stesso e me” sembra essere il mantra di questa fase storica del movimento italiano che, giustamente, si commuove per i migranti ma isola e respinge parte della sua stessa identità.
Oggi le cose possono essere diverse. Noi, persone sieropositive, abbiamo questo potere. Oggi noi fermiamo l’epidemia. A 10 anni dal primo studio del prof. Vernazza sulla non contagiosità delle persone sieropositive in trattamento efficace, studio che portò alla dichiarazione svizzera, oggi abbiamo prove scientifiche inconfutabili che le persone sieropositive con carica virale non rilevabile non sono contagiose. Decine e decine di migliaia di rapporti penetrativi senza condom e senza contagio alcuno, stanno li a dimostrarlo. La Tasp è prevenzione, grazie alle terapie e soprattutto grazie al nostro impegno nell’assumerle. Quindi si: sono sano. Sono sano perché ho un’infezione, ma non la trasmetto a nessuno neanche volendo e come me, tutte le persone con carica virale non rilevabile. Sono sano perché posso fermare l’infezione e sono fiero di poterlo fare. Sono sano perché ho la mia salute sotto controllo e non so quante persone dallo stato sierologico ignoto possano dire altrettanto. Oggi, ci sono nuovi eroi nella battaglia contro HIV.
Lo studio PARTNER è uno studio internazionale in due fasi; l’obiettivo dello studio è indagare se si verifica la trasmissione di HIV quando una persona sieropositiva è in efficace trattamento antiretrovirale (ART). Questa condizione era definita come avere una carica virale di meno di 200 copie/mL.
Lo studio PARTNER1 si è svolto dal 2010 al 2014, il PARTNER2 dal 2014 al 2018. Lo studio ha arruolato e seguito coppie sierodiscordanti, dove cioè un partner era positivo all’HIV e in ART e l’altro era negativo all’HIV. Le coppie che potevano partecipare allo studio avevano già scelto di non usare sempre il preservativo. Erano molte le coppie che non usavano il preservativo regolarmente e alcune non lo usavano mai da diversi anni.
Lo studio è stato disegnato per fornire stime del rischio di trasmissione di HIV nel sesso senza preservativo sia per le coppie eterosessuali che per le coppie gay quando il partner positivo è in terapia efficace. Per poter partecipare allo studio, la persona positiva all’HIV della coppia doveva essere in terapia per l’HIV al momento dell’arruolamento.
I risultati dello studio PARTNER1 (2010-2014)
Dal 2010 al 2014, la prima fase dello studio PARTNER ha arruolato 1100 coppie da 14 diversi paesi europei. Due terzi delle coppie erano eterosessuali e un terzo gay.
I risultati dello studio PARTNER1 includevano dati da 888 coppie (548 eterosessuali e 340 gay). Durante il periodo in cui sono state seguite (chiamato follow-up), le coppie hanno fatto sesso senza preservativo in media 37 volte all’anno (valore mediano). In tutto, le coppie gay hanno riferito di aver fatto sesso senza preservativo 22.000 volte e le eterosessuali circa 36.000 volte.
Durante il PARTNER1, nessuno dei partner negativi all’HIV si è infettato facendo sesso con il partner positivo all’HIV con cui era in coppia. Questo fornisce un tasso di trasmissione dell’HIV all’interno della coppia pari a zero. Tuttavia, siccome la maggioranza delle coppie era eterosessuale, le conclusioni erano meno affidabili se riferite al sesso gay di quanto lo fossero per il sesso eterosessuale.
Alla fine del PARTNER1, il limite superiore dell’intervallo di confidenza del 95% per il rischio di trasmissione nelle coppie eterosessuali era 0,46 per 100 coppie-anni di follow-up, mentre per le coppie gay maschili era di 0,84 per 100 coppie-anni di follow-up.
Perché il PARTNER2?
Lo studio PARTNER allora è proseguito in una seconda fase, per fornire gli stessi livelli di affidabilità ottenuti per le coppie etero anche per le coppie gay.
Molte coppie gay del PARTNER1 hanno continuato a partecipare al PARTNER2 e in aggiunta sono state arruolate altre coppie gay.
La fase 2 dello studio PARTNER (2014-2018) ha continuato ad arruolare e seguire solo coppie gay.
I risultati dello studio PARTNER2
In tutto, il PARTNER2 ha arruolato 972 coppie gay (480 delle quali erano già seguite nel PARTNER1 mentre 492 sono state arruolate successivamente). Di queste, 783 coppie hanno fornito 1.596 coppie-anni di follow-up utili allo studio, in cui il partner positivo era in terapia efficace.
Le coppie hanno fatto sesso senza preservativo in media 43 volte all’anno (valore mediano). Durante il periodo di follow-up utile allo studio, le coppie hanno fatto sesso senza condom 76.991 volte.
Come nel PARTNER1, alcuni partner negativi all’HIV sono diventati positivi ma nessuno di questi casi era collegato ai partner positivi con cui erano in coppia, per questo non ci sono stati casi di trasmissione di HIV all’interno delle coppie. Il tasso di trasmissione di HIV all’interno delle coppie era zero.
In tutto, 15 uomini originariamente negativi all’HIV sono diventati positivi tra il 2010 e il 2018 (alcuni di questi durante il PARTNER1). In tutti i casi, il partner positivo all’HIV con cui erano in coppia aveva un virus molto diverso da quello con cui si erano infettati (cioè filologicamente non correlato).
Aver seguito un numero maggiore di coppie ha comportato che il limite superiore dell’intervallo di confidenza al 95% per il rischio di trasmissione tra maschi gay sia ora 0,23/100 coppie-anni di follow-up.
Cosa significano questi risultati?
Il PARTNER2 ora ha fornito un livello di affidabilità per le coppie gay simile a quello fornito per le coppie eterosessuali nel PARTNER1 del fatto che il rischio di trasmissione sessuale dell’HIV da una persona con carica virale non rilevabile sia effettivamente zero.
Glossario
Cosa significa ‘coppie-anni di follow-up utili allo studio’?
Sono coppie-anni di follow-up utili allo studio la somma dei periodi di tempo in cui le coppie hanno fatto sesso senza preservativo, il partner positivo all’HIV aveva una carica virale non rilevabile (misurata massimo un anno prima) e il partner negativo all’HIV non usava la PEP o la PrEP.
Perché lo studio si riferisce agli intervalli di confidenza? Cosa significano nel PARTNER2?
Quando stimano un rischio, gli scienziati devono mettere in conto il fatto che i risultati potrebbero essersi verificati per caso, in conseguenza del fatto che uno studio può osservare solo un numero limitato di casi. Per fare questo, vengono calcolati i limiti inferiore e superiore all’interno dei quali si trovano i valori possibili. Questo si chiama intervallo di confidenza. Nello studio, è stato calcolato un valore stimato del tasso di trasmissione e l’intervallo di confidenza al 95%. L’intervallo di confidenza al 95% intorno al valore stimato è la gamma all’interno della quale si può essere certi al 95% ricada il vero tasso di trasmissione, prendendo in considerazioni gli effetti del caso.
In generale, più grande è lo studio, più si può essere certi che i risultati siano affidabili e non dovuti al caso. In questo tipo di studi, la dimensione dello studio si misura dal numero totale di anni durante i quali le persone vengono seguite, più che solo dal numero di partecipanti.
I risultati suggeriscono che ci sono pochissime probabilità che il tasso di trasmissione di HIV possa essere superiore a 0,23 per 100 coppie-anni di follow-up (vale a dire una infezione ogni 433 anni di sesso senza preservativo). Questo significa che possiamo concludere che il rischio di trasmissione sia essenzialmente zero.
Anche il tasso di trasmissione stimato per il sesso anale senza preservativo e con eiaculazione interna è zero. Il limite superiore per questo tipo di sesso è 0,57/100 coppie-anni di follow-up. In altre parole, anche nel caso avessimo sottostimato il rischio (zero) di trasmissione per motivi legati al caso, nel peggiore dei casi ci vorrebbero comunque almeno 177 anni di sesso con eiaculazione interna perché si verifichi un caso di trasmissione all’interno della coppia.
Cos’è una trasmissione collegata?
Una trasmissione collegata o linked transmissionsi ha quando la nuova infezione da HIV del partner inizialmente negativo avviene con un ceppo di virus che è altamente simile a quello trovato nel partner positivo all’HIV.
Nello studio PARTNER, per indagare se ci sono state trasmissione collegate, i ricercatori dell’Università di Liverpool hanno usato un metodo specialistico chiamato analisi filogenetica. Questo metodo esamina se i virus HIV trovati nel sangue dei due partner sono strettamente collegati tra loro. Se il partner inizialmente negativo si infetta ma il virus è geneticamente diverso da quello trovato nel partner positivo, questo viene considerato come una indicazione che la nuova infezione è avvenuta da una fonte diversa dal partner positivo.
Questo è essenziale se si indaga il rischio di trasmissione di HIV perché molti studi precedenti che analizzavano i casi di trasmissione nelle coppie sierodiscordanti hanno trovato che il 25-50% dei casi di nuova infezione avveniva da persone esterne alla relazione di coppia principale. L’analisi genetica è quindi una parte essenziale dello studio PARTNER.
Fino ad oggi, lo studio è stato in grado di dimostrare che anche se alcune persone negative all’HIV sono diventate positive durante lo studio, nessuna delle nuove infezioni è avvenuta con un virus HIV simile a quello trovato nei rispettivi partner positivi.
Nello studio PARTNER sono stati usati sia test standard che test ultrasensibili per fornire prove legate all’analisi filogenetica. Per questo è stato possibile concludere che queste nuove infezioni non sono avvenute da parte dei rispettivi partner nello studio PARTNER.
Come viene definita nello studio PARTNER la ‘carica virale non rilevabile’?
Nello studio PARTNER, la carica virale non rilevabile viene definita come inferiore alle 200 copie per millilitro di sangue.
Alcuni ospedali usano test per la carica virale che hanno diversi valori di riferimento per il limite inferiore. Per esempio, è possibile verificare che ci siano meno di 20 oppure 50 oppure ancora 200 copie di HIV in un millilitro di sangue, a seconda del centro clinico in cui ci si trova.
Quanto a lungo resta non rilevabile la carica virale dopo un test che la misura?
I risultati della carica virale possono dare informazioni solo sulla quantità di virus presente al momento in cui è stato prelevato il campione di sangue. Fintanto che una persona continua a prendere la terapia come prescritto, però, è molto probabile che la carica virale continui a essere non rilevabile.
Nella maggior parte dei centri europei, solo una piccola percentuale di pazienti che sono stabilmente in trattamento ha una risalita della carica virale sopra il livello di rilevabilità ogni anno. Si pensa che questo sia dovuto a difficoltà con l’aderenza. È molto difficile vedere una risalita della carica virale nel contesto di una buona aderenza alla terapia. Lo studio PARTNER ha usato la soglia delle 200 copie per la soppressione virologica, che tiene conto della maggior parte dei piccoli picchi di risalita della carica virale che si osservano nelle persone in trattamento antiretrovirale.
3. Il disegno dello studio
Uno studio osservazionale
I partecipanti allo studio PARTNER non si sono sottoposti a nessun trattamento medico speciale o intervento mentre erano nello studio; per questo motivo, viene definito uno studio ‘osservazionale’.
Sono state raccolte informazioni sul comportamento sessuale attraverso dei questionari completati dai partecipanti allo studio ogni 6-12 mesi; inoltre, con la stessa cadenza, il partner positivo all’HIV ha effettuato un test per la carica virale mentre il partner negativo un test per l’infezione da HIV.
Dove si è svolto lo studio PARTNER?
Lo studio ha arruolato partecipanti in 14 paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Svizzera.
In totale 55 cliniche e ospedali hanno partecipato allo studio PARTNER2.
Come è stato finanziato lo studio PARTNER?
La seconda fase dello studio PARTNER è stata finanziata da: National Institute of Health Research del Regno Unito, ViiV Healthcare, Gilead Sciences, Augustinus Fonden, A.P. Møller Fonden e la Danish National Research Foundation [grant numero DNRF126], ed è sponsorizzato da CHIP, Rigshospitalet.
Inoltre, l’Ufficio Svizzero per la Salute Pubblica ha finanziato la partecipazione dei centri elvetici. Lo studio è coordinato in maniera cooperativa da CHIP, Rigshospitalet, Università di Copenhagen, e University College di Londra.
Chi ha condotto lo studio?
Lo studio PARTNER è stata una collaborazione che ha coinvolto ricercatori indipendenti e scienziati di tutta Europa. Il comitato di conduzione dello studio comprendeva medici, ricercatori e rappresentanti della community.
Il comitato di conduzione dello studio PARTNER era composto da:
Prof. Andrew Phillips, University College di Londra (UCL)
Prof. Jens Lundgren, Università di Copenhagen e Rigshospitalet,
Dr. Alison Rodger, UCL
Tina Bruun, Università di Copenhagen e Rigshospitalet,
Simon Collins, HIV i-Base
Prof. Pietro Vernazza, Kantonsspital St. Gallen
Dr. Vicente Estrada
Dr. Olaf Degen
Giulio Maria Corbelli, EATG
Dorthe Raben, Università di Copenhagen e Rigshospitalet,
Il 30 gennaio 2008 gli esperti della Commissione federale svizzera per l’Aids affermarono per la prima volta che una persona sieropositiva in terapia efficace non può trasmettere il virus. Questo il nocciolo della cosiddetta “dichiarazione svizzera” a firma EKAF (Eidgenössische Kommission für Aids-Fragen der Schweiz), rinominata nel 2012 EKSG, Commissione confederale svizzera per la salute sessuale.
Il gruppo di studiosi capeggiato da Pietro Vernazza (nella foto) pubblicò una serie di dati, non corposissima, a sostegno di questa tesi poi confermata da ampi studi successivi. Che il raggiungimento dello status di “undetectable”, con la viremia stabilmente non rilevabile sotto le 50 copie per millilitro cubo di sangue, fosse sinonimo di non contagiosità era ormai una speculazione frequente in ambito infettivologico. A partire dal 1996 l’introduzione della classe degli inibitori della proteasi aveva condotto a un nuovo standard terapeutico, con tre principi attivi: la cosiddetta HAART, highly active antiretroviral therapy, oggi semplicemente ART. Stiamo parlando della terapia efficace che ha salvato e continua a salvare decine di milioni di vite, garantendo livelli di salute e di qualità di vita del tutto paragonabili a quelli delle persone sieronegative. Come funziona questa terapia? Semplice: abbatte la quantità di virus nel corpo e lo tiene in scacco, impedendo la replicazione.
La dichiarazione svizzera rappresentò un primo, portentoso lancio del cuore oltre l’ostacolo. Presentandosi come un “parere di esperto” che passava in rassegna più di 25 piccoli studi (su coppie sierodiscordanti in gran parte eterosessuali, o donne sieropositive incinte), lo statement fu un’affermazione clamorosa per l’epoca, autentico spartiacque non solo scientifico ma anche sociale. Contiene infatti il nocciolo della principale strategia antistigma tesa a cambiare il volto della sieropositività.
Gli esperti svizzeri individuarono tre punti in presenza dei quali era ragionevole dire che una persona sieropositiva non fosse in grado di trasmettere il virus: l’aderenza a una terapia antiretrovirale efficace, una viremia non rilevabile da almeno sei mesi e l’assenza di ulteriori infezioni sessualmente trasmissibili capaci di “dare una mano” ad Hiv. Col passare del tempo il terzo punto, inserito a mo’ di clausola precauzionale, è stato di fatto depennato dai risultati dello studio PARTNER. Tradotto: una persona sieropositiva trattata che contrae la gonorrea può trasmettere la gonorrea, ma non l’Hiv.
Sono passati esattamente dieci anni dalla dichiarazione svizzera. Venti dalla prima coorte di donne incinte sottoposte a terapia triplice (coorte di San Francisco, Beckerman K. et al.). Sette dalla pubblicazione dei dati dello studio HPTN 052, il primo a indagare la correttezza delle affermazioni di Vernazza e colleghi. Due da quelli, straordinari pur nella loro parzialità, dello studio PARTNER che ha seguito 548 coppie sierodiscordanti eterosessuali, 340 omosessuali, ha registrato 58.000 rapporti penetrativi senza profilattico e rilevato zero trasmissioni. Sono questi gli “hard facts” della TasP, il trattamento come prevenzione, una colonna del nuovo approccio combinato contro l’Hiv insieme al condom e alla PrEP.
Gli studi proseguono, e sappiamo bene che zero trasmissioni non significano, in termini rigorosamente scientifici, zero possibilità di trasmissione. In campo scientifico non esiste un bianco e nero manicheo. Ma a fronte di dati così ampi e omogenei è necessario condensare un messaggio pragmatico da lanciare alla popolazione, e questo messaggio è che nella vita reale una persona sieropositiva stabilmente in terapia non trasmette il virus. Plus è stata una delle prime associazioni a ideare una campagna centrata su questo tema: Positivo ma non infettivo risale al giugno 2015. Sul finire del 2017 anche la Lila, con Noi possiamo, ha trasformato in uno slogan il messaggio liberatorio della TasP. A livello globale, il 2016 ha segnato l’avvio della campagna U=U (undetectable = untransmittable) sottoscritta da centinaia di associazioni e da 34 Paesi.
Purtroppo, come sottolinea un sondaggio ministeriale condotto in Germania nel 2017, il 90% della popolazione resta all’oscuro di questa informazione fondamentale. Chissà quale sia la percentuale nel nostro Paese… La difficoltà di comunicare senza intoppi un messaggio in apparenza contraddittorio (che una persona con un’infezione sessualmente trasmissibile non possa trasmetterla in alcun modo, a cominciare dal sesso) non deve scoraggiarci. Dalla nostra abbiamo i dati, la scienza, una certezza che nessuna opinione può mettere in dubbio. E abbiamo soprattutto l’energia di chi vuole mettere la parola fine a cliché vecchi di decenni. A cominciare da quelli che circolano tuttora nella nostra comunità.
Come ha detto Bruce Richman, fondatore della campagna U=U, la sopravvalutazione del “pericolo” rappresentato da chi vive con Hiv equivale a un atto di violenza nei nostri confronti. Un atto di violenza oggi inaccettabile nella sua gratuità. La nostra risposta è serena, e basata sui fatti.
Dieci anni or sono, il 30 gennaio 2008, la Commissione svizzera diramò un messaggio coraggioso, rivelatosi giusto: una persona sieropositiva in terapia efficace non può, ripeto non può, trasmettere il virus dell’Hiv.
Essendo – immeritatamente – uno degli autori dello studio, vorrei fare alcune considerazioni. Questi risultati ci portano sempre più vicino alla certezza che le persone con HIV in terapia efficace non trasmettano l’infezione. Diciamo che per quanto riguarda i rapporti eterosessuali, la certezza è praticamente raggiunta; il margine di affidabilità del risultato “zero” ottenuto dallo studio PARTNER e da altri studi (come l’HPTN 052) è talmente buono che si può parlare di ragionevole certezza.
Esiste un margine più ampio per i rapporti anali che ci dice che l’affidabilità del “rischio zero” è meno stringente a causa del fatto – e solo a causa di ciò – che questi studi sono stati condotti su un numero più piccolo di persone. Anche per i rapporti anali non si sono osservate trasmissioni del virus da parte di persone con HIV in terapia efficace, ma siccome il numero di persone osservate è minore, il margine di incertezza (chiamato tecnicamente intervallo di confidenza) aumenta. Nello studio PARTNER, mentre per i rapporti vaginali il rischio al massimo potrebbe essere di una infezione ogni 333 anni di relazione sessuale, per i rapporti anali, invece, ne “basterebbero” 142 di anni di sesso in una coppia per avere un caso di infezione…
Perché questa differenza? Come dicevo prima, la differenza è dovuta soltanto al fatto che il campione osservato è più piccolo. Ma ci sono ragioni per pensare che il rischio nei rapporti anali sia maggiore? Alcuni sostengono che biologicamente il rapporto anale sarebbe più traumatico e quindi renderebbe più facile la trasmissione. Tuttavia ci deve essere un virus perché la trasmissione avvenga e siccome i dati finora ci mostrano che le persone sieropositive con carica virale non rilevabile non mostrano traccia di virus da trasmettere, sembra improbabile che siano in grado di trasmetterlo nei rapporti anali dal momento che si sono dimostrate incapaci di trasmetterlo nei rapporti vaginali.
È per questo motivo che, secondo gli autori dello studio PARTNER (me compreso), anche il rischio di trasmissione nei rapporti anali con persone HIV positive che prendono efficacemente e regolarmente la terapia è presumibilmente zero: ma siccome la scienza non si fa con le presunzioni, servono più dati per confermare questo dato. Infatti, lo studio PARTNER prosegue arruolando solo coppie omosessuali maschili (sempre con la caratteristica che uno dei due sia HIV-positivo e l’altro no, che il partner sieropositivo sia in terapia con carica virale inferiore alle 200 copie e che i due partner abbiano deciso autonomamente di non usare sempre il preservativo nei rapporti sessuali). Lo chiamiamo PARTNER 2 e cerca partecipanti anche in Italia (precisamente a Milano, Modena, Genova, Roma, Catania; maggiori informazioni anche sulla pagina Facebook Partner Study Italia). Da un punto di vista strettamente scientifico, i dati dello studio PARTNER 2 sono la base necessaria per poter affermare definitivamente che anche nel caso di rapporto anale il rischio di trasmissione non c’è. Tuttavia gli autori dello studio ritengono che questi dati siano sufficientemente robusti per poter dire che nel caso di rapporti sessuali con persone HIV positive che siano in terapia e abbiano una carica virale stabilmente non rilevabile, l’uso del preservativo per evitare di contrarre l’infezione non è necessario. La raccomandazione all’uso del preservativo, infatti, non è contenuta nella pagina di domande e risposte che gli autori hanno predisposto per presentare con un linguaggio accessibile i risultati dello studio. In altre parole, i risultati dello studio PARTNER confermano che le persone con HIV in terapia e viremia undetectable non sono infettive, cioè non possono trasmettere il virus, e quindi fare sesso senza condom con loro è sicuro dal punto di vista del rischio di trasmissione dell’HIV.
Mi rendo conto che questo è un messaggio che in molti considerano “forte”. Ma i dati sono ampiamente affidabili. E se non credete che il dato sui rapporti anali sia sufficientemente affidabile, aiutateci a trovare uomini omosessuali in coppia sierodiscordante (con un partner HIV+ in terapia e l’altro HIV-) che abbiano deciso di non usare sempre il preservativo e che siano disposti a partecipare allo studio PARTNER 2.
autore: Giulio Maria Corbelli, vice-presidente Plus onlus e membro del comitato esecutivo dello studio PARTNER